Quarta passeggiata filosofica

La filosofia, nata in città, volge lo sguardo alla natura – la physis nella lingua greca – fin dagli esordi. Uno sguardo razionale, che cerca un principio da cui ogni cosa sporge e sorge – l’arché. Per poi, infine, ritornarvi. Il medesimo principio da cui noi stessi siamo generati – in un unico flusso metamorfico.
La primavera, il risveglio della natura, lo sbocciare della vita, evocano con forza quell’idea, quel principio, quella sensazione di comunanza.
In quella natura-riserva un po’ asfittica che è la natura in città, proveremo a camminare, a pensare, ad immaginare e a meravigliarci di fronte a quel principio sorgivo che tutto regge. Physis, arché, natura naturans – natura che sempre si genera, da sé, muta e si espande. E a sé ritorna. Iuxta propria principia.
E che – proprio in questa stagione – esplode in una miriade di forme, di spore, di gemme, di fiori, di colori, di foglie e di frutti, un carnevale e una festa della moltitudine vegetale (una “verditudine”) resa possibile dall’ “invenzione” evolutiva delle angiosperme.
Alla ricerca di un linguaggio insieme razionale e poetico, logico ed emotivo.
Filosofeggiare camminando, per il puro piacere di farlo.
Al battere del passo senza meta, fine a se stesso.

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Apologia (sonora) della notte

Mi ha sempre affascinato (e un po’ inquietato) la chiusura della Settima Sinfonia di Mahler: una poderosa, talvolta chiassosa e triviale ascesa verso la gioia più luminosa, che prima di assestare il colpo finale dell’orchestra evoca un’ombra sonora su tutte le cose, come a dire: non illudetevi, c’è luce e gioia, ma le tenebre e il dolore incombono, e con ogni probabilità saranno loro a dire l’ultima parola!
Del resto questa è la sinfonia mahleriana più “notturna”: sono ben tre le sezioni dedicate alla notte – le due Nachtmusiken (secondo e quarto movimento) che circondano lo Scherzo centrale, una danza macabra e grottesca, un vero e proprio sabba nel cuore della notte – che per certi aspetti è il vertice della sinfonia. Il primo movimento era stato un crescendo funesto e funebre (connesso senz’altro all’andamento emotivo della precedente sinfonia, la “Tragica”). Poi la lunga notte. Ed infine l’incedere della luce, che però richiama inevitabilmente l’ombra sul finale.
Nulla di nuovo nella concezione sinfonica mahleriana, che è essenzialmente dialettica, e che intreccia vita e morte e tutte le contrastanti e divenienti forme dell’essere: dalla Terza – sinfonia della creazione e della metamorfosi, dove la Natura sta ancora al centro della scena – fino alla Nona e a Das Lied von der Erde, i grandi canti del cigno, del congedo e della dissolvenza.
Ma torniamo alla notte: proprio mentre mi preparavo ad un nuovo ascolto della Settima sinfonia all’Auditorium di Milano, diretta dalla bravissima Zhang Xian, mi è capitato tra le mani un piccolo libro intitolato Elogio alla notte, un “inno a occhi socchiusi” di Claudio Marucchi.
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Mezzodì filosofico

Nel suo profondo vidi che s’interna
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna;
sustanze e accidenti e lor costume,
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.

(Paradiso, canto XXXIII vv. 85 e segg.)

Mi succede talvolta di sentirmi filosoficamente appagato. Libero da ogni inquietudine ed irrequietezza. Ho tutto squadernato e apparecchiato davanti a me, chiaro e ben disposto, i nodi sciolti e i fili allineati, le domande e i dubbi esauriti (ed esauditi), la gerarchia causale dei concetti e delle questioni ben strutturata, nessun angolo oscuro, nessuna zona in ombra. Il mondo e la mente illuminati e persino trafitti dalla luce della ragione – e questa, immobilmente salda “quale un eterno mezzogiorno al quale non mai succeda la sera o come il vero sole che arde senza intermittenza, benché sembri tuffarsi nel seno della notte” – detto con una celebre immagine coniata da Schopenhauer, secondo cui “il sole della vita brilla di eterna luce meridiana” (si veda Il mondo come volontà e rappresentazione, § 54). In quei momenti del mezzodì filosofico, teorie e concetti appaiono con nitore e trasparenza, come se il mondo e la mia mente fossero tutt’uno, mente di una materia e materia di una mente, senza barriere, senza iati. Fusi e conflati l’una nell’altra. Ecco perché – in quei momenti, e solo in quei momenti – i pensieri si presentano in guisa tale da sembrare apodittiche verità. E dunque non sembrare, ma essere quel che sono e dire quel che dicono e significare quel che significano, senza pieghe od ombre. E quel che dicono è, ad esempio:
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