Filosofia della leggerezza

magritte

Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini,
avrà spostato tutte le pietre di confine;
esse tutte voleranno in aria per lui,
ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola
– “la leggera”.
(F. Nietzsche)

PRIMA PARTE – IL PENSIERO DELLA LEGGEREZZA

«Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite».

Italo Calvino scrive queste parole durante l’estate del 1985, poco prima di morire – parole che si possono ritenere un lascito, un vero e proprio testamento culturale.
Si trovano nella prima delle sei Lezioni americane, quella dedicata alla “Leggerezza”, e ritengo possano ispirare il discorso che vorrei articolare a proposito del passaggio (o se si preferisce della dialettica) tra gravità e leggerezza. Calvino sembra qui alludere ad una visione millenarista, uno snodo epocale, augurandosi che la ruggine materiale e spirituale del Novecento venga abbandonata al suo destino, e auspicando un salto nella dimensione di una categoria – la leggerezza – che va meglio chiarita.

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Concetti-capestro

Elogio della dialettica_Magritte

Luciano Parinetto utilizzava spesso l’espressione “concetti-progetto” per designare quelle categorie o prospettive filosofiche che, anziché ingessare il discorso filosofico in un’autoreferenziale celebrazione accademica (o nella deificazione del reale-reale, che è poi l’astratto-astratto), aprono al futuro e alla trasformazione radicale dell’esistente. Prassi pensante e utopia concreta (non sterile utopismo).
Così come in filosofia esistono i concetti-progetto, esistono anche i concetti-capestro. Tutto, essere, nulla, realtà, verità, sostanza diventano spesso e volentieri, nelle mani e nelle menti maniaco-ossessive di certi ontologisti (ma anche in quelle riduzionistiche o semplificazionistiche di certi scientisti o realisti più del re), concetti che se da una parte si ammantano di solidità e luccicano ammiccanti promesse di risposte definitive alle domande più radicali, dall’altra rischiano spesso di diventare vecchi arnesi della fumisteria reazionaria.
Tutto, essere, nulla eccetera – che pure sono le parole essenziali evocate dai filosofi greci – continuano a metterci di fronte a quella strana/straniata/straniante sfera, che Kant aveva definito del noumeno, che volenti o nolenti finisce per naufragare nel territorio dell’inattingibilità. Il limite, cioè, oltre il quale la mente si smarrisce e si imbarca in direzione dei marosi della metafisica. Ed è proprio l’analisi kantiana del concetto di limite (che è forse il nucleo essenziale del pensiero di Kant) a descriverci con precisione questa inevitabile dialettica con naufragio finale.
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Sapersi tenere su corde leggere

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Proprio mentre mi accingo a scrivere un saggio che vorrei immodestamente intitolare Il principio-straniamento, o qualcosa del genere, una graziosissima fanciulla che sta per dare la maturità mi chiede aiuto a proposito della cosiddetta “tesina” che mi dice di voler fare sulla leggerezza. Magnifico argomento, penso io, anche se di primo acchito non so proprio che consigli darle (ma anche dopo averci pensato un po’, non son mica certo di averle dato indicazioni utili). L’idea originaria viene dalla prima delle Lezioni americane di Calvino – “leggerezza intesa quindi come lucido distacco dalla realtà per non venirne assorbiti inconsapevolmente, ma non rifiuto della realtà” – così mi scrive la cara maturanda, che incrocia anche il concetto di ironia, concetto quant’altri mai filosofico, per lo meno da Socrate in poi. Non dovrebbe essere difficile, quindi, trovare un filo, un discorso, un pensatore adatti all’uopo.
Eppure, da Kant in poi, non è che mi sia venuto in mente granché: anzi, diciamocela tutta, e cioè che la filosofia contemporanea è parecchio pesante, e che ‘sti filosofi la leggerezza (ben intesa, s’intende) manco sanno dove stia di casa.

Anche se… a pensarci bene… per un altro verso… forse addirittura l’intera filosofia contemporanea (senza voler scomodare Severino), potrebbe essere spiegata proprio con alcune delle espressioni utilizzate da Calvino commentatore di Lucrezio e apologeta del suo tentativo di alleggerire la gravità materiale: “dissoluzione della compattezza del mondo”, “polverizzazione della realtà”, “la poesia dell’invisibile, la poesia delle infinite potenzialità imprevedibili, cosi come la poesia del nulla”…
E di fatti, qualche filo qua e là – specie tra i filosofi irrazionalisti e spiritualisti, ovvero i distruttori della ragione, secondo l’epiteto lukacsiano – l’ho trovato, anche se non so cosa possa mai uscirne.

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La nuvola di Ardigò

“Il pensiero, che oggi troviamo nell’umanità, è un pensiero che si è formato per la continuazione di accidentalità infinite, succedutesi e aggiuntesi a caso le une alle altre; per cui a tutto diritto si può chiamare, esso, il pensiero complessivo di tutta l’umanità, una formazione accidentale, né più né meno della forma bizzarra di una nuvoletta, che in cielo porti un tratto, prima che sfumi, il vento e indori il sole.”

(Roberto Ardigò)

Brucia l’identità

(mentre scrivo queste note, è la brutale realtà a bruciare: esplodono le sacrosante rivolte dei migranti reclusi nei campi di concentramento a Bari e a Capo Rizzuto, o quelle dei neoschiavi di Nardò; contemporaneamente altri muoiono soffocati nei campi galleggianti che fanno la spola tra una sponda e l’altra del Mediterraneo)

Noto con un misto di rammarico, stupore – e però anche, devo confessarlo, con una punta di eccitazione intellettuale -, che nulla come le radicali critiche alle identità, la loro revoca in dubbio, suscita reazioni altrettanto viscerali. Su questo blog in genere si discute pacatamente, anche quando non si è d’accordo, senza mai strillare. Le uniche volte in cui i toni si sono davvero accesi, andando sopra le righe, si è trattato di questioni identitarie: era successo qualche tempo fa con la “questione maschile” (ho addirittura dovuto chiudere ai commenti i 2 post, cosa mai successa); è capitato di nuovo, anche se in maniera più circoscritta, con la questione del “multiculturalismo” o del “meticciato” dopo i fatti di Norvegia.
Questi due episodi possono anche non indicare nulla (e del resto questo blog è piccola cosa nel mare magnum delle discussioni in rete), e tuttavia mi fanno sospettare che il concetto di identità sia un nervo scoperto, qualcosa che brucia e che tocca sensibilità profonde. Anche, se non soprattutto, quando non riguarda (almeno apparentemente) la propria ma quella altrui – poiché è sempre l’alterità ciò che insinua dubbi, come se il volto dell’altro restituisse un’immagine diversa di sé. Se n’è già discusso in altre occasioni, soprattutto in riferimento all’interminabile riflessione sulla natura umana, ma credo occorra ritornarci.
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Pensieri obliati

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Uno dei motivi, tra gli altri, che mi hanno indotto ad aprire questo blog, risiede forse in un colloquio che ebbi con una mia amica filosofa alcuni anni fa, e che è riemerso dall’oblio solo l’altra mattina durante una corsa nei boschi. Dissi a quella mia amica che avevo pensato tre cose, e che ero molto soddisfatto di quei tre pensieri, perché li avevo elaborati e sistemati piuttosto bene. Cotti a puntino. Solo che: il primo lo avevo dimenticato; il secondo avevo deciso scientemente di distruggerlo (cosa piuttosto impossibile, immagino); mentre il terzo lo avevo riportato su qualche foglietto volante, che naturalmente si era poi perduto. Morale: di quella fatica teoretica non era rimasto nulla. Siccome io vantavo questo (non) risultato come proficuo e filosoficissimo, la mia amica, dopo un breve quanto imperscrutabile silenzio, mi aveva risposto senza peli sulla lingua, dandomi dello scemo.
Ora, a distanza di anni, non saprei proprio dire quali fossero quei pensieri, né tantomeno se avevano davvero una qualche importanza (per me, non certo per l’umanità). Del resto, se erano importanti si saranno riversati in qualche altro rivolo della mente; se non lo erano, tanto meglio averli dimenticati. Eppure – se è vero come dice Hegel che è ben più pregnante il processo del risultato – averne traccia sarebbe stato quanto meno utile. Ma tant’è.

E visto che oggi si gioca con la memoria e l’oblio, ne approfitto come faccio sempre ogni anno, per ricordare e brindare al 14 luglio e a quel che tale data ha significato e che forse oggi significa un po’ meno: come certe parole fruste e vacue (vacue perché fruste) – libertè, egalité, fraternité – parole di cui però, gira e rigira, si finisce sempre per parlare…