Tenero Mahler

(Ieri pomeriggio, passeggiando nel bosco riarso, ascoltando Mahler)

La Nona Sinfonia di Mahler – l’ultima compiuta – è stata spesso indicata come la sinfonia della dissoluzione. Specie nell’Adagio finale il compositore austriaco sembra voler prendere congedo dal mondo attraverso la disgregazione del suono, fino a spingersi alle soglie del silenzio.
Ma non è proprio così. O non è solo così.
È vero, il mondo sembra disgregarsi dinnanzi ai nostri occhi. L’arsura del bosco, la terra così polverosa sotto i passi leggeri, fanno impressione. I ghiacciai che si liquefanno. Gli umani che si frantumano le ossa, che distruggono i territori, che spezzano i fili che li legano. E su ogni cosa, l’angoscioso avanzare di un sentimento della fine, di una catastrofe imminente.
Mahler non vide quel che sarebbe poi successo nel Novecento, ma forse ne aveva sentore. Ciò nonostante questa ultima sinfonia è soprattutto una carezza a quel mondo in bilico – a tutte le sue creature. Pur con dissonanze, suoni lugubri e danze macabre, quel che resta alla fine è il filo di un canto delicato fino alla trasparenza. Un guardare al mondo con infinita tenerezza.
Mahler ci sta parlando ancora, più di ieri.

“La morte, stratagemma per ottenere molta vita”

XAM66129 Death and Life, c.1911 (oil on canvas) by Klimt, Gustav (1862-1918); 177.8×198.1 cm; Private Collection; Austrian, out of copyright

(traccia dell’incontro del Gruppo di discussione filosofica del 13 dicembre 2021)

Ci sono due modi fondamentali di considerare la morte: diciamo, per semplificare, uno oggettivo ed uno soggettivo. Il primo guarda la morte da lontano, come un fenomeno naturale, nel suo intreccio necessario con la vita e con il variare delle sue forme (ciò di cui ci siamo occupati la volta scorsa). È un guardare la morte come se non ci riguardasse: è una finzione consentita proprio dalla nostra facoltà cognitiva, dalla capacità di astrarre. Anche dal modo di funzionare della coscienza, dalla sua capacità di duplicazione – di scindere se stessa dal mondo, io dal non-io. In verità è un atteggiamento tipico della filosofia, ereditato poi dalla scienza nell’epoca moderna. Vedremo stasera come la filosofia degli inizi, in particolare quella dei presocratici, si occupò della morte in questi termini, come un elemento dialettico del divenire e dei processi naturali.
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Filosofia della leggerezza

magritte

Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini,
avrà spostato tutte le pietre di confine;
esse tutte voleranno in aria per lui,
ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola
– “la leggera”.
(F. Nietzsche)

PRIMA PARTE – IL PENSIERO DELLA LEGGEREZZA

«Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite».

Italo Calvino scrive queste parole durante l’estate del 1985, poco prima di morire – parole che si possono ritenere un lascito, un vero e proprio testamento culturale.
Si trovano nella prima delle sei Lezioni americane, quella dedicata alla “Leggerezza”, e ritengo possano ispirare il discorso che vorrei articolare a proposito del passaggio (o se si preferisce della dialettica) tra gravità e leggerezza. Calvino sembra qui alludere ad una visione millenarista, uno snodo epocale, augurandosi che la ruggine materiale e spirituale del Novecento venga abbandonata al suo destino, e auspicando un salto nella dimensione di una categoria – la leggerezza – che va meglio chiarita.

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Stranizza di camminari

Lo scorso fine settimana, durante le mie passeggiate nel bosco, ho fatto degli esperimenti di camminata all’indietro. A lungo, cosa che normalmente – in società – non si può fare. Tutto è partito dalla sensazione di non sapere chi c’è dietro di noi. Peccato che il rovesciamento di direzione non lo risolve affatto, perché anche così non sai chi c’è davanti (o in un nuovo dietro di te).

Il problema sta nel nostro piano corporeo, che è fatto così. Unidirezionale e parecchio limitato – anche se esiste una sensorialità sottile che ci fa percepire presenze estranee. [Del resto pare che le linee evolutive si siano sbizzarrite un po’ meno dopo Burgess  Shale, a sentire il nostro amato Stephen Jay Gould].

Da questa banale esperienza percettiva ho derivato altre considerazioni e posture possibili. Se il problema era una (impossibile) percezione a 360 gradi, si potrebbe provare a camminare girando su se stessi come una trottola. Un minuto così, e comincia a girarti la testa e finisci per cadere a terra. Pessima idea. Ho provato allora ad incrociare i piedi e le direzioni laterali più lentamente, e un po’ funzionava: ma lo sforzo percettivo di orientarsi in più direzioni era comunque eccessivo rispetto all’obiettivo. Insomma, inutile.

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Ich bin der Welt abhanden gekommen

Sono ormai perduto al mondo
Col quale ho anche perduto gran tempo;
Tanto a lungo non ha saputo più niente di me,
Che può pensare ormai che io sia morto!
Ma non mi importa niente
Che mi creda morto.
E non posso neanche contraddirlo,
perché sono veramente morto al mondo.
Sono morto al chiasso del mondo,
E riposo in un luogo silenzioso!
Vivo solo nel mio cielo
Nel mio amore, nel mio canto.

[dai Rückert-Lieder di Mahler – dov’è lui sono io]

Apologia (sonora) della notte

Mi ha sempre affascinato (e un po’ inquietato) la chiusura della Settima Sinfonia di Mahler: una poderosa, talvolta chiassosa e triviale ascesa verso la gioia più luminosa, che prima di assestare il colpo finale dell’orchestra evoca un’ombra sonora su tutte le cose, come a dire: non illudetevi, c’è luce e gioia, ma le tenebre e il dolore incombono, e con ogni probabilità saranno loro a dire l’ultima parola!
Del resto questa è la sinfonia mahleriana più “notturna”: sono ben tre le sezioni dedicate alla notte – le due Nachtmusiken (secondo e quarto movimento) che circondano lo Scherzo centrale, una danza macabra e grottesca, un vero e proprio sabba nel cuore della notte – che per certi aspetti è il vertice della sinfonia. Il primo movimento era stato un crescendo funesto e funebre (connesso senz’altro all’andamento emotivo della precedente sinfonia, la “Tragica”). Poi la lunga notte. Ed infine l’incedere della luce, che però richiama inevitabilmente l’ombra sul finale.
Nulla di nuovo nella concezione sinfonica mahleriana, che è essenzialmente dialettica, e che intreccia vita e morte e tutte le contrastanti e divenienti forme dell’essere: dalla Terza – sinfonia della creazione e della metamorfosi, dove la Natura sta ancora al centro della scena – fino alla Nona e a Das Lied von der Erde, i grandi canti del cigno, del congedo e della dissolvenza.
Ma torniamo alla notte: proprio mentre mi preparavo ad un nuovo ascolto della Settima sinfonia all’Auditorium di Milano, diretta dalla bravissima Zhang Xian, mi è capitato tra le mani un piccolo libro intitolato Elogio alla notte, un “inno a occhi socchiusi” di Claudio Marucchi.
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La soglia

Allüberal und ewig
blauen licht die Fernen!
Ewig… ewig…

[Ho scritto buona parte di queste note – note finali su un plotiniano inconsapevole asceso alle azzurre trasparenze mahleriane – domenica 28 maggio, durante il viaggio in treno – l’ultimo viaggio – che mi portava al feretro di mio padre nella sua e nella mia terra. Ma i pensieri che in quelle dolenti ore mi sovvenivano alla mente erano più in generale il frutto di anni di rielaborazione del rapporto con lui e, soprattutto, della sua (e della mia) crescente consapevolezza del declino dell’esistenza, dell’apoptosi di ogni essere e della sua ineluttabilità]

L’ultima immagine che voglio ricordare di mio padre – che rappresenta quest’ultimo tratto del suo viaggio sulla terra e che insieme mi addolora e mi fa tenerezza fino allo struggimento – è il vederlo andare sulle sue gambe incerte verso la sala operatoria (a questo punto, e a posteriori, il suo patibolo) dove gli avrebbero asportato la laringe, insieme alla voce (e a un pezzo d’anima). Era la mattina del 6 marzo di quest’anno. Le volte successive che l’ho visto – quasi sempre allettato, sofferente e implorante a gesti la morte, fin dal suo risveglio nella sala di rianimazione del Policlinico di Messina – le vorrei rimuovere dalla mia memoria. Tutte quante. E siccome mi è stata risparmiata l’agonia degli ultimi giorni (e ringrazio gli dèi che sia stata breve) – per me lui è ancora lì, incerto e malfermo sulla soglia, che dirige smarrito lo sguardo verso di me, che accanto a mia madre cerco di rassicurarlo, e poi va dritto verso il suo destino.

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Mahler, i fili d’erba, la cura

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Poiché settembre, com’è noto e come dice il cantastorie, è il mese del ripensamento, e subito dopo l’estate “porta il dono usato della perplessità”, che induce a giocare con le identità e con le possibilità – mi sono dato, proprio in questo mese, più tempo del solito per le mie passeggiate quotidiane. Non solo: ho anche approfittato della lunga coda estiva per riascoltarmi le 10 sinfonie di Mahler, en plein air. E l’ho fatto a rovescio, partendo dall’ultima e risalendo alla prima. Dieci, nove, otto, sette… una per ogni passeggiata, qualcuna di quasi due ore, come saprà chi conosce Mahler e le sue interminabili opere.
E solo poco fa, al compimento del ciclo, durante l’ultimo movimento del Titano, con la complicità dei fili d’erba mossi dal vento, mi si è rivelato un ulteriore significato di questa mia quasi trentennale frequentazione (quasi ossessione) mahleriana.
La musica di Mahler è stata la mia cura. Non solo e non tanto per l’incredibile ricchezza di significati, un vero e proprio attraversamento di tutte le fasi, i drammi, la bellezza, i chiaroscuri della vita – il titanismo, la tragicità, l’amore, la natura, lo struggimento, la morte, la caducità, una trasognata eternità, l’irraggiungibile sentimento di pienezza e di totalità… e potrei andare avanti a lungo, in un gioco (forse stucchevole) di riconoscimento e identificazione.
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Tutto è forma, la forma è tutto

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(inevitabilmente, dedico questo piccolo post
a quel grande creatore di forme che è stato David Bowie
– fino a fare di se stesso una perenne metamorfosi)

Vorrei saper scrivere un libro – una sorta di fenomenologia delle forme – che abbia la medesima mole, vastità di sguardo e profondità di Massa e potere di Canetti.
Credo di avere sempre avuto una grande predilezione per le forme. Si dirà che è ovvio, che non c’è umano che non ami le forme, che è grazie all’attrazione per le forme che ci si innamora, che si fanno esperienze estetiche, che si producono oggetti, che si costruiscono case, e così via.
Non vi è dubbio, ma l’amore intellettuale e sistematico per le forme – che pure possiedo solo in potenza e che invece vorrei saper esercitare in dettaglio, profondità e grande stile – richiede un salto di qualità ulteriore. Richiede una concentrazione intellettuale, una potenza dello sguardo e della capacità di osservazione che solo i grandi artisti e i grandi naturalisti possiedono.
[Tra l’altro, en passant: forme biologiche e forme estetiche, natura e arte, i due organismi essenziali della produzione idealistica secondo la filosofia di Schelling, un pensatore piuttosto dimenticato, e messo in ombra dall’hegelismo, che forse sarebbe il caso di riesumare].
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Il fantasma di Mahler

Kokoschka

La rincorrevo da tempo.
Per lo meno dal 2011, da quel giorno di maggio in cui l’orchestra non si fermò, come mi aspettavo, al termine dell’Adagio, e continuò imperterrita per altri 4 movimenti, fino a concludere una sinfonia che mi apparve vastissima e complicatissima, e che ascoltai con il fiato sospeso. Dunque io fino ad allora mi ero perso tutto quel ben di dio musicale? c’era ancora un intero giacimento mahleriano da cui estrarre tesori, e io non ne ero nemmeno al corrente?
Si trattava però di un vero e proprio fantasma, di uno scheletro diseguale che un certo Deryck Cooke aveva cercato di rinsanguare, rimpolpare e riportare in vita. Sfidando oltretutto la secolare maledizione del numero 9 in ambito sinfonico: non pochi musicisti avevano sbroccato, in superstizioso onore del maestro assoluto Beethoven, nel trovarsi ad affrontare ed eventualmente superare il fatidico numero (su tutti Bruckner, che aveva “annullato” il numero di una delle sue sinfonie).
Sto ovviamente parlando della Decima sinfonia di Mahler, di cui ieri ho finalmente ascoltato dal vivo la versione del compianto maestro russo Barshai, che, a giudizio di alcuni critici, pare essere finora la migliore e la più plastica, almeno dal punto di vista dell’orchestrazione e del risultato strumentale (ma non mi addentrerò, come al solito, in faccende tecniche, che lascio volentieri ai musicologi, essendo io un semplice spettatore ed ascoltatore, niente più).
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