Rigurgiti totalitari

Quanto accaduto in questi giorni a Macerata – la povera ragazza squartata, lo spacciatore nigeriano arrestato, il fascista-terrorista che spara ai neri – se da una parte fa emergere il lato più oscuro della nazione e l’antico “mal di pancia” degli italiani, dall’altra ci restituisce con fin troppa chiarezza il meccanismo sociale e psicologico che sta dietro ad ogni rischio di deriva totalitaria. Innanzitutto nel rapporto  manomesso ad arte tra fatti e teoria (ma anche tra fatti e ideologia, che della teoria è una forma militante): la condizione e il disagio sociale di alcune parti della popolazione vengono ormai letti con la lente etnica e criminogena, oscurando del tutto le ragioni materiali e facendo saltare i nessi logici e causali.
Non solo: da un fatto terribile di cronaca, al pari di quelli che insanguinano quotidianamente le nostre esistenze – stragi familiari, abusi e maltrattamenti di bambini, femminicidi, donne sfigurate con l’acido e turpitudini di ogni genere, gestiti anch’essi ad arte dai media – si inferisce una sorta di teorema politico, con almeno tre corollari: l’azione del “folle” ideologizzato e fanatizzato al pari di un militante dell’Isis, che si sente legittimato a sparare a persone appartenenti a una determinata categoria; l’uso cinico e strumentale a fini di potere da parte di un’ampia fetta dell’arco politico (in primis partiti neofascisti e di destra, spesso collusi, compreso il loro leader “moderato”); ed infine, forse più grave di tutto, la netta sensazione che ci sia una maggioranza che giustifica il presunto vendicatore.
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La vita (dis)continua

Se c’è un’espressione che detesto è la vita continua.
Ti è successo questo, ti è successo quest’altro – ma la vita continua.
Ti è morto un genitore, un figlio/a, un amico/a, un compagno/a (valgono anche gli animali) – eppure la vita continua. Ci sarà sempre qualcuno che userà questa espressione trita, banale e stupidamente tautologica – volta forse a nascondere da una parte l’imbarazzo e l’incapacità di dire cose sensate di fronte ai lutti o alle tragedie, e dall’altra il sospetto che sempre alligna nella mente di chi la dice che quella vita che si vuole così continua e lineare sia in realtà un abisso di orrori.
Una vita come tanteA Little Life nell’edizione americana originale – romanzo della scrittrice di origini hawaiane Hanya Yanagihara, sembra quasi voler rispondere, e ci mette oltre mille pagine per farlo, alla banalità di quell’espressione – perché la vita non continua.
A dispetto della sua mole fluviale, potremmo ridurre l’intreccio narrativo a due semplici e però essenziali domande: la prima – che cos’è il male? – è inscritta nel destino toccato in sorte a Jude, l’infelice protagonista (ma chi è felice?), ovvero il male come indebolimento dell’altro, diminuzione sistematica della sua potenza vitale – quasi a dimostrare che nella vita di ogni umano c’è sempre un genio maligno che ha la funzione di inoculargli sottopelle un siero, con la precisa funzione anti-spinoziana di indurgli passioni tristi e inibirgli passioni liete. Progettare l’infelicità dell’altro – come ebbe a suggerire il filosofo amico dei lupi Mark Rowlands.
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Quarta parola: perdono (con una postilla sul dono)

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C’è un problema di fondo nel parlare di questi due concetti (che è poi la ragione del loro accostamento, al di là della comune derivazione etimologica): una paradossalità che rasenta l’impossibilità.
Donare, perdonare sono azioni (e parole) con le quali abbiamo a che fare ogni giorno: diciamo continuamente “scusi”, “pardon”, “grazie”… ci troviamo nelle condizioni di dover rimettere dei “debiti”, perdonare od essere perdonati, e continuamente doniamo (tempo, attenzione, oggetti, pensieri) o abbiamo intenzione o crediamo di farlo.
Dono e perdono sono modalità essenziali delle relazioni, potremmo persino dire che le costituiscono (indeboliscono, rafforzano, spezzano). Eppure, all’interno delle società e del tempo che viviamo, appaiono a rigore come azioni pressoché impossibili: se dono qualcosa istituisco un debito e l’aspettativa di una reciprocità, negando dunque l’essenza stessa del dono; e perdonare il perdonabile non ha nessun merito, è semmai ciò che è imperdonabile a costituire il vero problema del perdono.

Utilizzeremo come tracce per questo discorso sulla paradossalità dei due concetti alcuni testi di antropologi, sociologi, filosofi, teologi che vi hanno riflettuto nel corso del ‘900: in particolare Mauss, Jankélévitch, Derrida, Hanna Arendt, Enzo Bianchi.

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Quarto lunedì: la specie dimezzata

luzzatiParleremo questa sera del problema del male, partendo dalla sua formulazione teologico-filosofica in termini di teodicea: come mai esiste il male se (posto o ammesso che) esiste Dio? Al termine “dio” può essere sostituito anche “ordine razionale”, la sostanza non cambia: se si pensa che esiste una ragione, uno scopo, una logica, un senso che ordinano il mondo – e che magari ne finalizzano gli avvenimenti – il male, il caos, l’orrore rimangono un problema che esige spiegazione. Affronteremo la questione in due mosse: nella prima daremo conto del termine teodicea in ambito storico-filosofico, mentre in un secondo momento proveremo a trattare la questione da un particolare punto di vista della contemporaneità, utilizzando alcuni testi di Primo Levi e del filosofo gallese Mark Rowlands.

1) Inquadramento storico
Teodicea (dal greco theos=dio e dike=diritto, giustizia) è termine coniato da Leibniz all’inizio del ‘700, e si riferisce al suo poderoso tentativo di “giustificare Dio”, cioè di scagionare Dio dall’accusa di avere voluto che ci fosse il male nel mondo.
È questa una vecchia questione della filosofia, di cui già si erano occupati gli antichi (gli stoici, ad esempio, o filosofi del calibro di Plotino o di Sant’Agostino), e che dal grande avversario filosofico di Leibniz, e cioè Spinoza, era stata liquidata attraverso una radicale critica ad ogni forma di antropocentrismo: in verità il male e il bene non esistono, se non all’interno di un’ottica tutta umana, ma nel momento in cui si allarga lo sguardo al vasto mondo – alla natura o al cosmo –  concetti come bene e male tendono a sparire e a perdere di significato.
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Leibniziana 2 – Scagionare (nientemeno che) Dio

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Teodicea è parola coniata dall’inventiva filosofica di Leibniz – con la precisa intenzione di togliere le castagne dal fuoco niente meno che a Dio, visto che il Signore-dio-loro non pare essere molto in grado di giustificarsi nei confronti di quella cosa parecchio spiacevole che è il male (e che provoca dolore), una spina conficcata nella più-che-perfetta economia del creato. Come scrive giustamente Vittorio Mathieu: «una ricerca volta a scagionare Dio dall’accusa di aver creato il male nel mondo» (si veda la sua eccellente introduzione all’edizione Zanichelli dei Saggi di teodicea: io ne ho una copia del 1973, che ho tolto qualche mattina fa parecchio impolverata dalla libreria).
Il più ampio, e forse importante, saggio filosofico pubblicato da Leibniz su un argomento apparentemente minore, era in realtà un vero e proprio puntello maggiore del suo sistema, visto che il programma essenziale del filosofo tedesco è una integrale razionalizzazione del reale, comprese le parti tradizionalmente in ombra o più riottose – anche se l’occasione gli fu data dalla pubblicazione del Dizionario di Bayle, oltre che dalle sue assidue frequentazioni di corti e di salotti.
Spinoza aveva risolto la faccenda in maniera piuttosto tranchant: se tutte le cose sono modi di Dio (e co-incidono o co-insistono sul suo piano immanente), od anche, viceversa, se Dio si manifesta nella moltitudine ed entitudine, e se è l’assoluta e sostanziale necessità a regnare (nulla è contingente) – allora concetti come male e bene sono inconsistenti proiezioni di una mente ipertrofica e malata, che si crede un po’ troppo al centro del mondo. Quel che Spinoza concede è che rientrino semmai nella dinamica delle passioni, là dove bene è espansione e male è contrazione del desiderio e della vita stessa degli esseri – ciò che però non è un difetto, ma una necessità naturalmente determinata.
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Labirinti imbarazzanti

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«Ci sono due labirinti famosi, nei quali la nostra ragione assai spesso si smarrisce: uno riguarda il grande problema di ciò che è libero e di ciò che è necessario, soprattutto in rapporto alla produzione e all’origine del male; l’altro consiste nella discussione della continuità e degli indivisibili, che sembrano esserne gli elementi, discussione nella quale deve entrare la considerazione dell’infinito. Il primo labirinto imbarazza pressoché tutto il genere umano, il secondo mette alla prova soltanto i filosofi».
[Leibniz, Scritti filosofici, vol. III]

Ontodicea

Non: gli enti, i modi dell’essere (o della sostanza) e le loro relazioni sono belli e buoni in sé. Ma: la loro contemplazione è bella e buona. O meglio: può esserlo. Poiché quella contemplazione non ricomprenderà mai la totalità degli enti, dei modi e (soprattutto) delle loro relazioni.
La crepa oscura dell’essere – il male – non può essere contemplata senza suscitare orrore. L’etica e l’ontologia rimangono distanti se non difformi – con buona pace del mio amatissimo Baruch. Né gli ontologi o i teologi saranno mai in grado di richiudere quella ferita – o di contemplarla placidamente come se nulla fosse; o meglio, come se essa fosse logicamente necessitata ad essere. Essa rimane ai loro (e ai nostri) occhi aperta e sanguinante.

Appestata è la lingua

«Appestata è la lingua che ci ritroviamo a parlare per inerzia, per imitazione: la lingua di Facebook, di Twitter, figlia della televisione […]
La verità è che chi parla male pensa male. E chi pensa male, prima o poi il male lo fa […]
In ogni caso la peste è un’occasione per il pensiero: invita a pensare dall’impensabile, dal nulla che ci minaccia».

(Sergio Givone, dall’intervista di Gnoli
su La Repubblica del 14.6.2012)

L’assassino

Ammutolito dai fatti di Norvegia. Ragione balbettante, che s’inceppa, gira a vuoto. Eppure la ragione sta dietro a quei fatti. Una mente li ha partoriti, dopo averli pianificati a lungo. Fa orrore tutto ciò. Il sonno della ragione genera mostri. Ma anche la ragione diurna li genera. Dialettica dell’illuminismo. Io che sono convinto apologeta di entrambi. Eppure lo sapevo da tempo – anche dietro i campi di sterminio c’era la ragione. E pure in abbondanza. Ma vederlo sui corpi massacrati di Oslo – quelli giovanissimi di Utoya, eliminati con metodo e con rigore – rinnova lo sgomento. Perché la ragione che cerca di capire se stessa – e il suo coté noir, il suo lato oscuro – rischia di incartarsi. Di non arrivare a nulla. Restano solo frammenti e macerie. Un dire smozzicato come il mio di oggi.
E allora provo a rivolgermi altrove. Guardo i ritratti del mio pittore prediletto. Connazionale del fondamentalista nazicristiano. Il “conservatore culturale”. Magari c’è anche il suo volto in quei ritratti. L’urlo, l’alienazione, l’angoscia, l’estraneità, il dolore, la morte – nessun altro è riuscito a rappresentarli come lui ha saputo fare.
Ci sono però due quadri di Munch che si stagliano più netti. Agitazione interna, L’assassino. Nel primo il lavorìo silente della mente. Noi non sappiamo che cosa agiti l’uomo ritratto. Quale sconvolgimento ne percorra lo spirito. Quali pensieri e propositi. Così come per anni il carnefice di Oslo e di Utoya. Trafitto dalla neritudine. Da una ragion folle e nichilista. (Che forse si è fatto finta di non vedere. Eppure i segni c’erano e ci sono, ovunque e in abbondanza). Ma ora è di lui che parlo. Anche se non intendo nominarlo.
E di fatti è l’altro quadro quel che gli si attaglia di più. L’assassino. Con quel viso verde, anonimo, cancellato. Uno qualunque. Uno di noi. Alterità e identità che si confondono. Il male, il lato oscuro, l’orrore – sono qui. Non altrove. E lui avanza verso di noi. E’ già nel nostro spazio. Ci fissa con quei due punti neri, terribili. Quelle mani rosse di sangue penzolanti. Il paesaggio attorno è stravolto. La natura cancellata come quel volto. Segno di un’irrelatezza estrema.
Lui è qui, non altrove.

Introduzione alla filosofia – 3. Cinici, stoici, epicurei: la filosofia come stile di vita

Potremmo sottotitolare questo incontro con l’espressione “la filosofia come stile di vita” (che è poi il titolo di un interessante libro scritto anni fa da Màdera e Tarca). Ci occuperemo cioè questa sera di quelle correnti filosofiche della tarda filosofia greca (siamo a cavallo tra il IV e il III secolo a.C.), che mettono al centro la questione etica e la libertà dell’individuo – in estrema sintesi è questa la domanda che ci porremo: come possiamo vivere saggi e felici in questo mondo? Domanda piuttosto impegnativa, visto che il mondo fa di tutto per distrarcene (o per darci delle risposte pronte, preconfezionate e spesso a loro volta infelici).

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