Primo fuoco: Marx, ovvero lo spettro di uno spettro

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Parlare di Karl Marx è forse una delle cose più complicate in ambito filosofico, proprio perché la sua opera non può essere ridotta a quella di un comune filosofo. Non è come parlare di Aristotele o di Cartesio, che, per quanto appassionanti possano essere, difficilmente surriscaldano gli animi e accendono la discussione, fino a produrre schiere di partigiani o avversari, affetti talvolta da incontenibile fanatismo. Il barbone di Marx fa ancora tremare i polsi a un bel po’ di persone…
Lui stesso ci avverte di questa problematicità, in un celebre passo di un breve scritto su Feuerbach (filosofo di cui parleremo a dicembre, a proposito della religione):

“I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo.”

– rovesciando così quasi un dogma del suo maestro filosofo più importante, ovvero Hegel, che aveva invece della filosofia una visione molto più “contemplativa” (nonostante il concetto di “spirito” non fosse poi così distante dalla futura categoria marxiana di lavoro o attività):

“La filosofia giunge sempre troppo tardi… la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo.”

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Sinistro immaterialismo

Per quanto il simbolico vada sempre ricondotto al materiale, fatico non poco a ragionare in termini politici “classici”, in un’epoca in cui la sostanza delle cose è ridotta ad apparenza, a fatue e cangianti superfici, mentre regna sovrano il marasma del tanto peggio tanto meglio. Con oltretutto il desolante ed incontenibile spettacolo di una deriva cialtronesca e parolaia (quando non spudoratamente criminale) della classe dominante, mai stata dirigente quanto piuttosto digerente (e defecante) in questo povero paese. Anzi, pare proprio che al peggio non ci sia limite.
L’indecoroso spettacolo attraversa tutti gli schieramenti e (quasi) tutte le (de)formazioni politiche: naturalmente lo stile fascistoide, machista e volgare della destra italiana è diventato egemone e detta l’agenda politica, mentre la “sinistra” (o quel che ne rimane) balbetta ed esprime, al più, la questione della leadership per le prossime elezioni, ponendosi di nuovo (ed anzi, definitivamente) sul medesimo terreno dell’avversario.
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L’accetta di Lukàcs

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Approfittando, anche se con un po’ di ritardo, del commento lasciato nell‘Altra stanza da Matteo, il compagno di banco di Valerio, giovanissimi frequentatori del blog – torno un momento su Schopenhauer e sulla sua celebre, quanto irritante, posizione circa il rapporto tra pensiero filosofico e azione morale, teoria e prassi. Egli sostiene che il filosofo non è per nulla impegnato dagli insegnamenti della filosofia: “Che il santo sia un filosofo, è tanto poco necessario, quanto poco necessario che il filosofo sia un santo: come necessario non è che un uomo bellissimo sia un grande scultore o che un grande scultore sia pure un bell’uomo. Sarebbe d’altronde singolare pretendere da un moralista che non debba raccomandare se non le virtù da lui stesso possedute”. Che è come dire che è del tutto legittimo predicare bene e razzolare male. Schopenhauer conclude il suo ragionamento con una definizione di filosofia che non lascia molto spazio alla prassi: rispecchiare in concetti l’intera essenza del mondo, questo e non altro è filosofia.

E’ una posizione questa squisitamente “borghese” e “reazionaria”, direbbe il filosofo ungherese Lukàcs, in linea con la sua interpretazione della storia del pensiero filosofico moderno.

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Il viaggio filosofico di sir Darwin

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Jean-Jacques Rousseau lamenta nel Discorso sull’origine della disuguaglianza una certa angustia e limitatezza di vedute del sapere filosofico europeo: “Gli individui – scrive – hanno un bell’andare e venire, sembra che la filosofia non viaggi“, e auspica che qualche brillante mente, adeguatamente foraggiata, possa prima o poi intraprendere quello che sarebbe certo “il viaggio più importante di tutti, che bisognerebbe fare con la maggior cura” – che percorrendo in lungo e in largo il pianeta, e indugiando a studiare i popoli e le culture, consenta finalmente di fondare una scienza fondamentale, “la più utile e meno progredita fra tutte le conoscenze umane”, quella cioè dell’uomo stesso.

Un viaggio non meno importante di quello immaginato dal buon Jean-Jacques, sarebbe stato intrapreso, oltre mezzo secolo dopo, da un giovane naturalista poco più che ventenne, un viaggio in verità di tutt’altra natura e con tutt’altro scopo, visto che si trattava di una spedizione cartografica nella quale Charles Darwin, questo il nome del giovane scienziato di bordo, aveva l’incarico di effettuare osservazioni di carattere geologico oltre che di raccogliere campioni di specie viventi sconosciute. Ma quel lavoro “sul campo” durato ben cinque anni, unito ad un acume, ad una capacità intuitiva (e, direi, ad un’immaginazione fuori del comune), avrebbero infine condotto nel 1859 alla pubblicazione di uno dei testi più rivoluzionari della storia della scienza e, più in generale, della storia umana. La teoria evolutiva di Darwin avrebbe cioè modificato alla radice, e in maniera irreversibile, l’approccio stesso allo “studio dell’uomo” invocato da Rousseau, proprio perché la concezione dell’essere umano, della sua natura e del suo posto nel mondo venivano posti sotto una luce completamente diversa.

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PER NIZAR

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Nel luglio del 1991 mi recai con l’associazione italiana Al-Ard in Palestina. Fu un viaggio “schierato” e di parte, che aveva lo scopo di solidarizzare con la causa palestinese. Al-Ard (che in arabo significa “la terra”), oltre che sostenere con iniziative politico-culturali  la causa palestinese, finanziava alcuni progetti di sviluppo economico nei territori occupati – ne ricordo uno in particolare dalle parti di Gerico, riguardante una cooperativa di donne che produceva  succhi di frutta. Il viaggio durò 15 giorni, io dovetti ripartire prima e non potei recarmi a Gaza, limitandomi così alla Cisgiordania.
Era un periodo piuttosto cupo: era terminata da poco la prima guerra del Golfo e Arafat aveva commesso l’errore strategico (ma inevitabile) di schierarsi con Saddam Hussein. La prima intifada, scoppiata alla fine del 1987, era stata repressa nel sangue. Hamas si era appena costituita, e si diceva che venisse segretamente sostenuta da Israele in funzione anti-Olp.
Fu quindi un viaggio per me indimenticabile e però, nel contempo, dolorosissimo. Quelli che seguono sono gli appunti che presi in quei dieci giorni, risistemati in forma diaristico-poetico-filosofica nel corso della stessa estate. Devo avvertire preliminarmente che sono condizionati dal mio stile un po’ ampolloso di allora, specie a causa del linguaggio “scolastico-hegeliano” (era l’epoca in cui studiavo forsennatamente Hegel). Ma nonostante questo vizio di forma, a distanza di quasi vent’anni, li ho trovati ancora interessanti. Certo, avevo forse immaginato allora che “vent’anni dopo” la guerra sarebbe finita, lo stato palestinese – accanto a quello israeliano – sarebbe sorto, una nuova epoca sarebbe senz’altro venuta. Era, evidentemente, un sogno molto, molto prematuro.

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CRASH ECONOMICO-FILOSOFICO

Naturalmente il capitalismo non crollerà nemmeno questa volta. Ci vorranno decenni, forse secoli (personalmente spero meno) perché ciò accada, ma mi metto il cuore in pace: di sicuro non succederà nell’arco della mia vita. Così come è difficile prevedere se si tratterà di una lenta agonica decomposizione o di un crollo repentino. Ma è certo che prima o poi capiterà, dato che solo Dio (che, per chi ci crede e come ci ricorda il papa, è ben più stabile del denaro) o in alternativa cose come l’Essere o la Sostanza possono rivendicare per sé gli attributi dell’eternità o della perennità.
Lasciamo quindi perdere ogni sciocchezza profetica o vaticinante, e stiamo al presente (anche se, come mostrerò, sta proprio nel tempo uno dei nodi della “crisi”).

(A parte che bisognerebbe anche chiarire e determinare meglio: “crisi” per chi, visto che un pezzo di pianeta – sempre più a macchie – sta al di sotto o al di là di categorie quali “progresso”, “sviluppo” e, conseguentemente, “crisi”?).

Ma basta divagare. Ritengo marxianamente che questa sia una crisi squisitamente economico-filosofica (giusto per citare dei celebri Manoscritti di oltre 150 anni fa). Anzi, più filosofica, per non dire “metafisica”, che economica. Mi vengono a tal proposito in mente almeno tre concetti-chiave (ma sicuramente se ne potranno aggiungere altri). Li accenno brevemente:

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GEORGES LAPASSADE “CATTIVO MAESTRO”

Pubblico molto volentieri uno scritto della mia cara amica filosofa Nicoletta Poidimani in ricordo di Georges Lapassade, sociologo, pedagogo, filosofo, etnologo, antropologo… scomparso a Parigi il 30 luglio scorso. Era soprattutto un libero pensatore, un “cattivo maestro” e un “agitatore” (un  “tornado” come dice Nicoletta che lo ha conosciuto e lo ha praticato e studiato a fondo). Teoria e prassi, agire e pensare, partecipare e osservare, intervenire, trasformare, esserci, desiderare… l’una cosa inscindibile dall’altra. Ma lascio senz’altro la parola a Nicoletta il cui scritto è, oltre che molto interessante, di grande utilità dato che in rete c’è molto poco se non quasi nulla: non esiste infatti la voce “Lapassade” in Wikipedia-Italia e persino la versione francese riporta un articoletto striminzito. Mi risulta che alcuni suoi testi siano stati pubblicati o ripubblicati da Sensibili alle foglie, Pensa multimedia e Besa; Dallo sciamano al raver. Saggio sulla trance è stato ripubblicato nel maggio di quest’anno da Apogeo; non ho invece trovato tracce di L’analisi istituzionale pubblicato l’ultima volta nel 1998 da Isedi.

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In ricordo di Georges Lapassade, uno dei miei più importanti “cattivi maestri”

La sera del 30 luglio scorso mi è giunta la notizia della morte di Georges Lapassade. Non lo vedevo da qualche anno, e di recente, proprio in occasione di un seminario sull’analisi istituzionale in cui speravo di incontrarlo, mi avevano detto che le sue condizioni di salute si erano aggravate.

Lapassade è stato, con Luciano Parinetto, uno dei miei migliori “cattivi maestri”, e di questo gliene sono grata, perché da lui ho acquisito alcuni strumenti necessari per l’interpretazione e la critica dell’esistente, nonché per l’azione politica.

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IDEOLOGIE DELL’EMERGENZA

Karl Marx considerava l’ideologia una sorta di deformazione ottica, una vera e propria costruzione teorica volta a distorcere e falsificare i rapporti e la realtà sociale. La “verità” della classe al potere che naturalizza ciò che è socialmente determinato, eternizza ciò che è in divenire, universalizza ciò che è particolare: una straordinaria macchina retorico-filosofica volta a giustificare il potere e le ingiustizie sociali. Molti trovano che Karl Marx sia ormai passato di moda, ma io penso che la sua concezione dell’ideologia sia più valida oggi di quanto non lo fosse ai suoi tempi (un mio amico disse una volta che in Marx ci sono verità che saranno vere soltanto dopodomani, altre che lo erano già ieri, alcune che non lo saranno mai…).
Si provi, ad esempio, ad applicare il suo concetto di ideologia a quanto va accadendo oggi nelle società occidentali, e nella italiana in particolare: il rovesciamento interpretativo che ne verrebbe fuori è impressionante. Lascio per ora da parte il tema (scottantissimo) della bioetica/biopolitica e della relativa ideologia della vita, per concentrarmi sulla questione più generale dell’emergenza. Da alcuni anni il potere (locale, nazionale, globale), con la complicità dei media da esso controllati, si manifesta in prima istanza nella prassi emergenziale del suo esercizio: emergenza clandestini/immigrati, emergenza terrorismo, emergenza ambiente, emergenza inflazione, emergenza petrolio, emergenza rifiuti, fino alle emergenze spicciole o stagionali (caldo, maltempo, inquinamento delle città, bullismo, zanzare, guidatori ubriachi, ecc. ecc.).

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CHE NE E’ DI MARX? – parte seconda

Ogni mendicante è un principe di possibilità

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Vorrei con questo post dar conto di quella che secondo me resta la parte più viva e attuale del pensiero di Marx, partendo dalla questione cruciale del rapporto tra teoria e prassi, filosofia e trasformazione sociale, necessità e libertà. Un argomento dunque complesso e arduo da affrontare entro i limiti che uno strumento come un blog, di rapida lettura e facile consultazione, normalmente consente. Si tratta infatti di uno scritto lungo, lunghissimo per il luogo in cui è pubblicato, ma breve, brevissimo per l’oggetto che tratta. Provo ugualmente a cimentarmi nella sfida.

Indice degli argomenti:

-Marx e la filosofia
-Hegel, Feuerbach, Marx
-Il lavoro alienato
-Il materialismo storico
-Problemi aperti: una filosofia della storia?
-La promessa tradita e l’uomo sopravvalutato

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L’ORIGINE DELLA FAMIGLIA

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Siccome sono masochista, ho voluto leggere il documento intitolato Più famiglia: ciò che è bene per la famiglia è bene per il Paese, con cui il mondo cattolico ha lanciato l’iniziativa del “family day”. Alcune delle espressioni utilizzate – come ad esempio “ordinata generazione naturale”, “declino demografico dell’Occidente”, “diversi e inaccettabili modelli di famiglia” (alternativi al matrimonio tradizionale) – mi lasciano a dir poco perplesso. Ma è su “premesse antropologiche” che ho fatto il classico salto sulla sedia. Ed essendo abituato a farmi domande (più che/prima di darmi risposte) chiedo a questi signori: cosa intendete per famiglia? o per natura? per legge naturale? e per basi antropologiche?

Partiamo dal concetto di famiglia e dalla sua struttura antropologica. Innanzitutto non ho capito perché ne parlano al singolare: forse che di modelli familiari non ne esistono una miriade e che la famiglia non è relativa, come ogni cosa umana, allo spazio e al tempo? I cattolici tentano di sacralizzare la famiglia naturale, ma nel far questo prendono surrettiziamente uno dei tanti modelli storici esistiti (la famiglia monogamica eteropatriarcale occidentale) e la eternizzano, elevandola a norma assoluta. Anche solo a guardare la storia europea io vedo svariati tipi di famiglia, di cui la monogamica è solo l’ultima (peraltro, se dio vuole, in abbondante sfacelo). Se poi lo sguardo s’allarga alla storia della specie c’è da sbizzarrirsi: matriarcato, patriarcato, famiglia allargata, comunanza delle donne, matrimonio tra donne, poliandria, poligamia, società matri o patrilineari, poligamia e poliandria incrociate, comunanza dei figli, ecc. ecc. Le cosiddette “premesse antropologiche” sono dunque quanto di più relativistico, con buona pace di Ratzinger, possa essere esibito. Resta un fatto: la famiglia in tutte le culture e società, gira e rigira svolge sempre un compito strutturale socioeconomico: essa è “una unità economica di produzione e consumo, luogo privilegiato dell’esercizio della sessualità tra partner autorizzati, luogo della riproduzione biologica, dell’allevamento e della socializzazione dei figli” (vedi la voce Famiglia dell’Enciclopedia Einaudi). Punto. Dopo di che gli umani si sono sbizzarriti – e lo faranno ancora a lungo senza bisogno del permesso dei preti – a trovare le forme più strane (magari obbrobriose) al fine di soddisfare quell’esigenza strutturale. La famiglia che tanto piace ai cattolici ad esempio – quella monogamica tradizionale, con un ritocco fintamente paritario negli ultimi tempi – è storicamente frutto della logica patriarcale e prevede funzionalmente l’adulterio e la prostituzione – oltre allo stupro – come valvole di sfogo (si vedano le ancor valide analisi di Engels nell’Origine della famiglia).

Ora io, naturalmente, provengo da una di queste classiche famiglie monogamiche tardoindustriali fatta di papà-mamma-figli (due) e non mi sogno minimamente di sputarci sopra. Anzi, annovero quelli familiari tra i legami affettivi e psicologici più forti che ho. Ciò non toglie che nella considerazione dell’istituto familiare gli affetti finiscono per c’entrare poco: hanno ragione Marx ed Engels quando sottolineano come la famiglia sia storicamente determinata e che si danno tanti modelli di famiglia quanti modelli produttivi. D’altra parte non è un caso che si parli di “riproduzione” e la famiglia è proprio la macchina per riprodurre i legami sociali. Nulla di sacro o di naturale o di misterioso. Se si cambia sistema di produrre si cambia sistema familiare. Magari si abolisce del tutto (il che non vuol dire che i figli non vengano educati da nessuno e che tutto vada allo sfascio: la soluzione comunitaria che suggeriva Platone, lasciando perdere gli aspetti totalizzanti e militaristici, mi sembra sempre molto interessante – visti poi gli attuali disastri dell’educazione familiare, per non parlare poi di quella sessuale, grazie anche a duemila anni di innaturalissimo proibizionismo cattolico…).

Quanto poi alla facenda della “naturalità”, dell’ordine naturale, della legge naturale e via biologizzando e animalizzando, torno a ripetere (e lo farò fino alla nausea) come non c’è concetto più artificiale di quello di “natura”, costruito e non dato dalla a alla zeta. Non a caso, infatti, la maggior parte dei teologi cattolici usa “natura” solo quando gli fa comodo, in modo ambiguo e ideologico, perché altrimenti sarebbero costretti ad ammettere anche l’assoluta naturalezza dell’omosessualità (almeno risolverebbero uno dei problemi interni alla casta sacerdotale). Certo che siamo anche degli “animali” (mangiamo, caghiamo e ci riproduciamo). Ma nulla di tutto ciò (già nel mondo animale) è dato una volta per tutte. Tutte le nostre pulsioni biologiche ed anche quelle antropologiche di lunga durata (qualcuno le ha definite “invariante biologico”) ,vengono inesorabilmente “culturalizzate”, “spiritualizzate” e per ciò stesso rese disponibili alla critica razionale, alla modifica e alla trasformazione. E siccome la “natura” mi ha fatto dono anche della “ragione”, a meno di non voler limitare lo sguardo al mio ombelico e alla mia pancia, mi guardo attorno e decido che cosa tenere e che cosa cambiare. E, del tutto liberamente, chi amare, eventualmente sposare per un po’, con chi (sempre eventualmente) riprodurmi e con chi tirar su i figli – e tutte queste possono essere n persone diverse di n sessi diversi. La natura umana diviene, è libera e perfettibile; la chiesa cattolica – ha ragione il comico populista del 1° maggio – evidentemente no.