Il volto e il corpo dell’altro – 5. Il mondo vegetale, tra forme e giardini

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Il romanzo post-apocalittico La strada di Cormac McCarthy, ci fornisce l’immagine di una terra senza colori, grigia, morta, desolata, umbratile, in dissolvenza; non c’è nulla di vivente, tranne umani raminghi alla ricerca di una improbabile sopravvivenza. C’è una cosa che colpisce nella desolazione del contesto: non c’è vegetazione, non una foglia, un virgulto, un filo d’erba, un fiore, niente di niente. Solo rami secchi e tronchi morti e torti. Ma, soprattutto, nessun colore, nessun profumo – solo tonalità grigie e marroni che denotano l’assenza della vita cui siamo abituati. Ecco, probabilmente la natura era similmente grigia, monotona e incolore prima dell’avvento delle angiosperme – ovvero quel tipo di piante più complesse i cui semi vengono avvolti dal frutto (angiosperme vuol proprio dire “seme protetto”) e che riempiono il mondo di fiori – e che sono attualmente le più diffuse sul pianeta.

Il mondo vegetale è lo snodo essenziale del sistema vivente: è nota la sua funzione produttiva di energia tramite la luce solare e la fotosintesi (ne avevamo parlato lo scorso anno a proposito di Tiezzi), caratterizzata dal meccanismo nutritivo dell’autotrofia, in contrapposizione all’eterotrofia tipica degli animali (ovvero la necessità di ricorrere ad altri – etero – viventi per nutrirsi: le piante donano carboidrati e cibo ai non-vegetali, che altrimenti non potrebbero sussistere).
Il mondo dei vegetali, oltre ad avere un enorme fascino, è ricco di implicazioni simboliche, tanto che potremmo definire il vegetale come una sorta di metafora integrale del vivente. Basti pensare alla figura dell’albero, con la sua conformazione (radici, rizomi, foglie, ecc.), al seme, alla luce, alla morfologia (come vedremo in Goethe); per non parlare della figura del giardino, che riveste un significato essenziale per tutta la storia umana, e in tutte le culture.

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In pace fra le eclissi

«Sera. I morti custoditi nella crosta terrestre, che girano ogni giorno la lenta ruota del mondo, in pace fra le eclissi, gli asteroidi, le polverose stelle nuove, con le ossa chiazzate di terra e le cellule del midollo che si trasformano in fragile pietra, le dita intrecciate alle radici, uniti a Thot e ad Agamennone, ai semi e alle cose non nate».

(C. McCarthy, Il guardiano del frutteto)

E la nave va

La nave dei folli_Bosch

Esistono metafore che escono da se stesse, fino ad autosfondarsi per fondare una realtà altra. D’altro canto è la radice stessa del verbo che regge la parola “metafora” ad avere un carattere transeunte ed uscente da sé: metaphero significa “trasporto, trasferisco”, ma anche “cambio, confondo, rivolgo, mi aggiro”. Metaforizzare è andare da un’altra parte – ma non è la parte dove si va quel che conta, quanto piuttosto il portarsi da quella parte, il trasferirsi, l’andare per l’andare, il cambiare di posto – un luogo che è collegato a tutti i luoghi.
Ecco perché i romanzi di Cormac McCarthy, tanto per fare un esempio di un autore che amo molto, pur utilizzando la strada come metafora della vita, finiscono per confondere i piani, e la metafora è la cosa stessa – e d’altro canto la vita è la strada dei viventi così come la strada è la scena essenziale della vita (degli umani in particolare). Ma quel che più conta è che è la vita stessa ad essere metafora di se stessa, poiché si autorappresenta (ed autofonda) come svolgimento, mutazione, movimento, perenne trasferimento di senso da sé a sé. E il senso – così come l’essenziale funzione simbolica della specie umana – funziona proprio così: si tratta in verità di una rete di significati, di simboli, di metafore, dove ogni luogo ed ogni parte richiama l’intero dispositivo (ciò che dis-pone le parti e i luoghi). Ogni cosa è cioè in relazione ad altro, e dunque, paradossalmente, è se stessa solo in quanto significa, allude, transita verso l’alterità. Ogni cosa è metafora ed ogni metafora è cosa.

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Psicosofie estive – 4. L’ombra della verditudine

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È dai tempi in cui lessi con furore ed avidità Cormac McCarthy che non provavo, leggendo un romanzo, quel che ho provato con La lucina di Antonio Moresco. Commozione ed un’immensa, consapevole, e quasi cosmica, tristezza. So che il mio Spinoza non approverebbe, e nemmeno un bel po’ di filosofi portati a pensare che tutto sommato tutto-ciò-che-è è ben fatto e ben disposto.
Ma quando cammino immerso nella verditudine, colpito dai raggi del sole e inebriato dal ronzare della vita attorno a me, non posso non pensare che proprio il cuore pulsante di quella vita è fatta di orrore, non solo di bellezza.
E allora mi domando, con Moresco:
«Perché c’è tutto questo sottobosco cattivo… che cerca di avviluppare e di cancellare e di soffocare gli alberi più grandi? Perché tutta questa misera e disperata ferocia che sfigura ogni cosa? Perché tutto questo brulicare di corpi che cercano di prosciugare gli altri corpi suggendoli con le loro mille e mille scatenate radici e le loro piccole, forsennate ventose, per dirottarne su di sé la potenza chimica, per creare nuovi fronti vegetali in grado di annientare tutto, di massacrare tutto? Dove posso andare per non vedere più questo scempio, questa irreparabile e cieca torsione che hanno chiamato vita?».
E questo è solo il fronte vegetale, che a noi di solito appare più mite e gentile… figuriamoci il fronte animale o quello umano.

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Tris cinefilosofico – 1. Melancholia

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Per la prima volta io e Celeste Colombo – autorità cinefila del legnanese (e non solo) – non ci troviamo d’accordo, oltretutto su una questione di non poco conto. (E chissenefrega, potrebbe obiettare qualcuno, non siamo mica ad un convegno di sapientoni o ad una conferenza internazionale, si tratta solo del minuscolo Cineforum Pensotti Bruni di Legnano. Verissimo, ma sul nichilismo c’è poco da scherzare!).
Lui, il Celeste, lo tira fuori durante il dibattito a proposito dell’ultimo film di Last Von Trier, Melancholia, e – pur dandogli ragione sull’estetismo del regista danese (che per di più se ne esce ogni tanto con le sue minkiate nazi) – sono costretto in parte a dissentire.
E la domanda che mi e gli faccio è: davvero la prospettiva dissolutoria di Melancholia è così nichilista? E se anche lo fosse, di che nichilismo si tratta? Non potrebbe essere quello di “secondo grado” del padre di tutti i nichilismi contemporanei?
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Amour

Credo si tratti di uno dei film più devastanti che abbia mai visto. E ho scelto il termine “devastante” non tanto perché è piuttosto in voga – usato com’è spesso a sproposito, sull’onda della spettacolarizzazione televisiva – ma in un’accezione che, pur figurata o traslata in ambito letterario, possiede una sua precisione descrittiva: sconvolta l’anima di chi assiste alla storia, svuotati gli occhi per la visione di quei volti e di quei corpi, che sono a loro volta deturpati da quel che sta loro inevitabilmente accadendo. Forse la mia devastazione è stata accresciuta dal fatto che: 1) sto assistendo all’inesorabile declino dei miei genitori; 2) sto invecchiando io stesso; 3) da anni, anche su questo blog, vado con voi meditando dolorosamente su vita e morte, etica e bioetica, e sul senso profondo di tutto questo. E siccome sempre più mi si affaccia alla mente che tutto questo è parecchio insensato – vorremmo tanto che non lo fosse, come dice in un verso Wislawa Szymborska, che preferirebbe “la possibilità / che l’essere abbia una sua ragione”, ma siamo pur sempre noi a volerlo – la devastazione raggiunge livelli al limite della sopportazione.
E non c’è pietas, non c’è compassione, non c’è scampo né salvezza – nulla c’è che possa anche solo addolcire o smussare o far dimenticare l’effetto di quella inarrestabile opera distruttiva che Georges e Anne – i due anziani protagonisti della storia, interpretata a livelli ineguagliabili da Riva e Trintignant – subiscono impotenti.
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Trilogia filosofico-letteraria – 2. Le strade stranianti di McCarthy

“Come McCarthy riesca a ripetere lo stesso schema narrativo per un intero romanzo senza stancare e stancarsi a sua volta (o impazzire) è un mistero” – ricevetti questo messaggio del mio amico Marco in spiaggia, l’estate scorsa in Sicilia, proprio mentre mi sciroppavo la Trilogia della frontiera.
Credo che lo “schema” in questione possa essere tradotto visivamente in quel lungo nastro fatto di polvere e orizzonte a perdita d’occhio, di fronte al quale prima o poi ciascun personaggio mccarthyano viene a trovarsi: «Disse che stava andando lì dove lo avrebbe condotto la strada» – qui è un cieco incontrato da uno dei giovani della Trilogia a parlare. Ma è già l’incipit del primo romanzo – Il guardiano del frutteto – ad annunciare un programma narrativo mai più abbandonato per quasi mezzo secolo: «Era da un po’ che non passava nessuno, e la strada era ancora bianca e arroventata nonostante il sole stesse già tingendo di rosso il cielo a occidente».
È insomma vero che lo schema dei romanzi di McCarthy è sempre lo stesso – o per lo meno, per quel che conosco e ho finora letto, tutte le narrazioni ed i loro protagonisti sono riconducibili ad un unico filo conduttore: umani erranti gettati (heideggerianamente) nel mondo, o, appunto, nella strada – siano questi sopravviventi alla giornata come Suttree (la cui strada è un fiume), o i giovanissimi fuggiaschi e cavalieri della Trilogia della frontiera, oppure il padre e il figlio sopravvissuti alla catastrofe: in quest’ultimo caso lo schema narrativo si palesa icasticamente fin nel titolo.
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Diecimila mondi

Una perla rubata a McCarthy per il mio genetliaco – anche se si parla di giovani, e io ormai non lo sono più: almeno avessi ancora tutti quei mondi da scegliere…

“Sulla superficie ricurva della terra buia e senza luce che sosteneva le loro figure e le innalzava contro il cielo stellato, i due giovani sembravano cavalcare non sotto ma in mezzo alle stelle, temerari e circospetti al contempo come ladri appena entrati in quel buio elettrico, come ladruncoli in un frutteto lucente, scarsamente protetti contro il freddo e i diecimila mondi da scegliere che avevano davanti a sé”.

(Cormac McCarthy, Cavalli selvaggi)

Era solo un gatto

Così essi mi mostrano la parentela con me, e io l’accolgo.
Essi mi portano le doti del mio io,
e le mostrano chiaramente in loro possesso.
(W. Whitman)

I filosofi non hanno mai granché preso in considerazione gli animali. E quando lo hanno fatto li hanno guardati quasi sempre dall’alto in basso, con malcelato disprezzo. Macchine senz’anima (come ritiene Cartesio) che fanno arrivare a dire al signor Malebranche una frase orribile, che già ebbi a citare in altra occasione: “Si può maltrattare un cane senza curarsi dei suoi guaiti, semplici stridori di una macchina mal lubrificata.” Naturalmente non mancano le eccezioni, tra cui Hume, Bentham, Rousseau, che per motivi diversi si preoccuparono di teorizzare nei confronti degli animali una qualche forma di rispetto, se non proprio di dovere morale.
Gli è che la filosofia occidentale non solo non ha fatto nulla per smontare il pregiudizio antropocentrico e lo specismo, ma anzi li ha abbondantemente alimentati. E non si può dire che la scienza si sia comportata meglio, anzi!
Ho invece trovato in letteratura una maggiore sensibilità per l’argomento. Cito solo i primi esempi che mi vengono in mente: il rapporto tra l’anziano vasaio Cipriano Algor, protagonista de La caverna di Saramago, e il cane Trovato (ma forse si potrebbe dare lo stesso nome ad entrambi); la prima parte del romanzo Oltre il confine di Cormac McCarthy, dove una caccia ad una lupa diventa una delle più belle e commoventi storie che mi sia capitato di leggere. E si potrebbe continuare con altri scrittori: Dostoevskij, Kafka, Coetzee…

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THE ROAD

Road to Nowhere

C’è un mondo alle spalle che non ha più nessun significato. Dinanzi un cielo privo di segni, cui ci si rivolge invano e invano lo si invoca, nessuna divinità, nessun orizzonte. In mezzo, la strada. Una strada che porta da nord a sud, dal gelido inverno a una stagione che forse sarà più mite. Forse. La strada è il presente tra un passato di morte e un futuro inesistente. La strada è una linea tra due nulla. Da una disperazione a un’altra disperazione. Il giorno fa paura quasi come la notte. E l’oceano su cui il tracciato si infrangerà, sarà solo una massa d’acqua inerte.

Il paesaggio è cinereo. Il grigio della cenere ricopre tutte le cose. L’unico colore è una diversa tonalità di grigi. Nero e grigio e tutte le loro variazioni. La vegetazione è un intrico di sterpi secchi, dietro cui si possono riconoscere le antiche specie. Ma tutti i loro esemplari e le loro parti – i tronchi, le foglie, i rami, le radici, i semi, i fiori – sono congelati in forme definitive, senza vita e senza movimento. E’ l’assenza a dominare. Il sole è livido, la luce malata. Pioggia, vento e neve si alternano portando con sé mulinelli di terra e di cenere. Il paesaggio fa venir voglia di ritrarre lo sguardo. Ma non c’è un altrove dove rivolgerlo. C’è solo la strada.

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