(traccia dell’incontro del gruppo di discussione filosofica del 14 marzo 2022)
Mai come per l’argomento di questa sera – medicalizzazione della vita e rimozione della morte – è valido un approccio di tipo complessivo e dialettico: inquadrare la mutazione del fenomeno-morte nelle nostre società implica la necessità di guardarlo da lontano, e soprattutto in relazione con diversi piani, categorie, strutture. Ciò che è una modalità tipica dello sguardo filosofico: penetrare al di là della superficie, andare a vedere le molteplici cause, risalire alle radici, trovare le connessioni, individuare gli sviluppi e i loro intrecci. Ciò che qui possiamo solo provare a fare schizzando un quadro e offrendo degli spunti per ulteriori analisi e riflessioni.
La medicalizzazione della vita va grottescamente mutando in una burocratizzazione sanitaria ottusa e volta a garantire la sola cosa che conta nel sistema capitalistico: non la salute psicofisica dei cittadini, ma l’attitudine a produrre e consumare degli atomi individuali che lo compongono. La sequela di procedure, per lo più inefficaci a sconfiggere l’epidemia, sta lì a dimostrarlo: lockdown, tracciamenti, misurazione ossessiva della temperatura, mascherine, lavaggio e disinfezione compulsiva di ogni cosa, colori e misure restrittive di ogni tipo, muro vaccinale sperimentale (con liberatoria) e ora carta vaccinale (con obbligo vaccinale indotto – ma paraculo – per chi desidera produrre e consumare fino allo sfinimento). In attesa di vedere il prossimo slittamento del significato di sanità pubblica. Purtroppo non esistono controprove empiriche per sapere che cosa sarebbe successo qualora si fossero perseguite politiche socialiste e davvero comunitarie (in qualche paese lo si è fatto, ma con stili di vita molto diversi da quelli occidentali). Ma il punto è che la burocratizzazione ossessiva della vita continuerà per la sua strada, senza farsi alcuna domanda, e senza farsi scalfire dai dubbi – bollati come antiscientifici o antilluministici – se non relativi ai punti di PIL perduti o guadagnati. Nel frattempo il terrore per la propria immunità e incolumità – funzionale a produrre consumare e non crepare mai – è penetrata nella mentalità comune ad un livello che non ha precedenti, e pronta a generare guerre civili striscianti (per ora solo immaginarie). Guerre tra poveri, mentre i ricchi ingrassano. E finché il pianeta non si darà uno scossone per ricordarci che siamo mortali, anzi mortalissimi.
Ho appena riletto La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj, dopo aver scoperto un piccolo scritto di Sciascia intitolato “La medicalizzazione della vita”, contenuto nella raccolta Cruciverba, edita da Einaudi nel 1983.
Sciascia ne parla a proposito della propria esperienza vissuta di un passaggio cruciale del Novecento, che ha avuto ritmi diversi a seconda dei luoghi e dei contesti culturali, ovvero “il ricordo del passaggio da un’idea della morte all’interdetto sulla morte” – e paragona questo passaggio a quello dal lume a petrolio alla luce elettrica, quando aveva provato un vero e proprio senso di inondazione.
La medicalisation de l’idée de la vie è evocata dal medievista francese Philippe Ariès, e Sciascia la vede realizzarsi in Sicilia tra gli anni ‘30 e ‘40 – così come ne vede i primi chiari segni proprio nel racconto di Tolstoj (la stesura definitiva è del 1886). Sono due gli elementi essenziali su cui vorrei qui riflettere: in primo luogo questa nuova figura dell’interdetto sulla morte che nel racconto si presenta fin nelle prime pagine, con il sentimento di fastidio provato dai sopravvissuti (in primis dalla moglie del protagonista) nei confronti di quella morte che aveva osato incrinare l’ordine e il decoro borghese; e in secondo luogo sulla sovrapposizione delle figure del giudice e del medico. Continua a leggere “Interdetto sulla morte”
Userò la condizione esistenziale di mio padre – violando così la sua privacy o velatezza, del resto lo avevo già fatto alcuni anni fa – senza alcun trasporto emotivo (nella misura in cui ci riuscirò), nella maniera più oggettiva e lucida possibile. Anche perché credo sia, almeno in parte, il suo stesso modo di guardarla. Come se cercasse parole per dirlo e concetti per descriverla – che proverò a prestargli con gli strumenti della filosofia.
Non che la filosofia non debba o non possa essere emotiva (noi siamo sempre in una condizione esistenziale connotata da una certa tonalità emotiva, come direbbe Heidegger) – ma qui occorre innanzitutto fingere l’espunzione dei sentimenti (e del sentimentalismo), prosciugare e ridurre all’osso, cercare l’essenziale. Impietosirsi non serve a capire, anzi sarebbe persino fuorviante.
Parliamo, cioè, della condizione esistenziale di una moltitudine crescente di anziani (ma non solo) integralmente medicalizzati. Un tempo “si moriva” dopo essere vissuti. Oggi si muore vivendo, o si vive morendo. I confini netti (e dialettici, dunque coessenziali) di morte e vita son più sfumati – ma, soprattutto, si sono andate costituendo nuove forme di vita, in una crescente commistione di biologia, chimica e meccanica. Corpi biochemiomeccanici hanno preso il posto degli antichi corpi naturali.
Ciò è sicuramente un progresso – non “si muore” più per caso, o si muore meno – si vive più a lungo, ci si conserva meglio – la quantità è salvaguardata. Ma che ne è della qualità? Continua a leggere “Corpi biochemiomeccanici – e dissociati”
“Canto chi mi ha preceduto […]
L’amore non cantarlo, è un canto di per sé
più lo si invoca meno ce n’è”
(Montesole, PGR)
(quando ho cominciato a scrivere queste note, non avrei mai pensato che sarebbero diventate una sorta di diario… come chiamarlo?… bioaffettivo? bioemotivo? una cronaca a metà tra la riflessione e la passione-pietà, schizzi disordinati sulla vita, la malattia, la fragilità dell’esistenza – e la paura della morte – con un unico filo: il volto smarrito di un padre, la sua indecifrabile agitazione interna; e gli occhi ondivaghi di un figlio, che talvolta fissano quel volto e talvolta deviano lo sguardo; forse ci sarebbe anche da riflettere sulla relazione insieme biologica e affettiva tra genitore e figlio, sul detto e non detto che comporta, su sangue, istinto e cultura – ma forse è meglio, per questa volta, lasciare tutto ciò tra parentesi)