Pneuma: il respiro di tutti gli esseri viventi

(traccia dell’incontro del Gruppo di discussione filosofica del 14 febbraio 2022)

Le piante, il respiro, la natura metamorfica saranno i tre temi, tra di loro strettamente connessi, di cui parleremo stasera. Per farlo, specie per quanto concerne il primo e il terzo tema, ci serviremo di due testi: La vita delle piante di Emanuele CocciaLa metamorfosi delle piante di Goethe.

1. Piante-arché
Ed è proprio Goethe a darci il là per l’attacco di stasera: «Nello spirito umano come nell’universo non vi è nulla che stia sopra o sotto». Il primo atteggiamento da assumere di fronte al mondo vegetale è proprio quello della deposizione di ogni forma di antropocentrismo o di zoocentrismo. La metafisica della mescolanza che Coccia propone, assume il punto di vista (che è un punto di vita) delle piante come decostruzione di ogni gerarchia del vivente e critica radicale di una non più tollerabile secessione umana dalla natura. Il mondo delle piante è esemplare della interconnessione delle forme di vita, della loro complementarità, del fondamento orizzontale di tutti i punti di vista-punti di vita. E ciò è proprio delle piante in quanto fondatrici del mondo della vita di cui siamo parte.
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Intransigenza

Premesso che
1) sono molto rispettoso delle credenze e delle fedi di chicchessia
2) chiedo reciprocamente a chicchessia di esserlo del mio ateismo (anzi non-teismo) e del mio materialismo radicale
3) sono incline al relativismo piuttosto che all’antirelativismo
– non transigo tuttavia (e dunque su questo non sono per nulla relativista) sul principio illuministico, laico e libertario dell’assoluta neutralità statuale e politica per quanto concerne le suddette fedi e credenze (e ciò vale anche per le ideologie e le filosofie, naturalmente). Che dunque chicchessia può liberamente professare (se lo crede), ma senza imporle alle leggi e ai fondamenti dello Stato, né tantomeno agli altri cittadini. Su questo non transigo e sono disposto a fare le barricate: lo Stato deve rimanere non religioso, non etico, non morale, non teista, non ideologico. Senz’arte né parte. Senz’amore né sapore (nun avi né amuri né sapuri, dice il detto siciliano).
Poiché la globalizzazione impone convivenze e mescolanze forzose tra diversi, in assenza e però in attesa di future, sperabili ed utopiche armonie – molto meglio una società di cittadini che siano “stranieri morali” ma che non si facciano la guerra.

Mandela (every) day

Mandela

Quando stamane ho appreso la notizia, sono stato assalito da un’ondata di ricordi. Ricordi belli, luminosi, sostanziosi, di un’altra epoca, ormai tramontata, della mia vita.
Frammenti di canzoni, di marce, di slogan. Lotte rabbiose e gioiose trafilate di speranza. Il Mandela Day. Peter Gabriel e i Simple Minds. Un concerto di Miriam Makeba. Perfino una canzone scritta da me – Heros of Azania – che avevo cantato col complesso dei miei vent’anni.
Arretrando ancora nel tempo, ricordo bene l’indignazione, l’orrore, il disgusto che avevo provato quando da ragazzino avevo appreso che da qualche parte nel mondo esisteva qualcosa come l’Apartheid.
Poi un giorno, qualche anno dopo, scoprii che da quelle parti c’era un uomo in galera da decenni, il quale, come Biko e tanti altri, stava combattendo contro quell’orrore.
Nelson Mandela è stato uno dei miti fondativi della mia concezione della vita, della politica, del mondo – così come lo è stato per moltitudini, in lungo e in largo per il pianeta e a cavallo tra i due millenni.
Non si tratta di culto della personalità (con tutte le derive novecentesche che ciò ha comportato), e nemmeno di hegeliani ed eroici individui cosmico-storici. Si tratta semmai di idee in grado di concretizzarsi plasticamente in storie personali e biografie – che però sono sempre collettive e condivise.
Oggi però mi sento orfano – tanto più che un altro Madiba non c’è, né si vede all’orizzonte.
Oggi, dopo quella stagione sorgiva, sento ancora più acuto e amaro il disincanto, la totale disillusione nei confronti del linguaggio e della prassi politica.
E così oggi mi sono limitato ad esporre l’ormai consunta bandiera multicolore, fuori dal mio balcone, e ad alzare mestamente un calice di vino.
«Siamo tutti nati per risplendere, come fanno i bambini» – è una delle perle uscite dalla bocca di Mandela, se non erro nel discorso di insediamento alla presidenza, o in qualche altra occasione solenne.
Posso solo augurarmi che siano i bambini nascenti o quelli che nasceranno – magari ai margini o tra le dannate periferie del pianeta, come successe a quel certo nazareno – a passarsi quelle parole di bocca in bocca.

Brucia l’identità

(mentre scrivo queste note, è la brutale realtà a bruciare: esplodono le sacrosante rivolte dei migranti reclusi nei campi di concentramento a Bari e a Capo Rizzuto, o quelle dei neoschiavi di Nardò; contemporaneamente altri muoiono soffocati nei campi galleggianti che fanno la spola tra una sponda e l’altra del Mediterraneo)

Noto con un misto di rammarico, stupore – e però anche, devo confessarlo, con una punta di eccitazione intellettuale -, che nulla come le radicali critiche alle identità, la loro revoca in dubbio, suscita reazioni altrettanto viscerali. Su questo blog in genere si discute pacatamente, anche quando non si è d’accordo, senza mai strillare. Le uniche volte in cui i toni si sono davvero accesi, andando sopra le righe, si è trattato di questioni identitarie: era successo qualche tempo fa con la “questione maschile” (ho addirittura dovuto chiudere ai commenti i 2 post, cosa mai successa); è capitato di nuovo, anche se in maniera più circoscritta, con la questione del “multiculturalismo” o del “meticciato” dopo i fatti di Norvegia.
Questi due episodi possono anche non indicare nulla (e del resto questo blog è piccola cosa nel mare magnum delle discussioni in rete), e tuttavia mi fanno sospettare che il concetto di identità sia un nervo scoperto, qualcosa che brucia e che tocca sensibilità profonde. Anche, se non soprattutto, quando non riguarda (almeno apparentemente) la propria ma quella altrui – poiché è sempre l’alterità ciò che insinua dubbi, come se il volto dell’altro restituisse un’immagine diversa di sé. Se n’è già discusso in altre occasioni, soprattutto in riferimento all’interminabile riflessione sulla natura umana, ma credo occorra ritornarci.
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