Esistono metafore che escono da se stesse, fino ad autosfondarsi per fondare una realtà altra. D’altro canto è la radice stessa del verbo che regge la parola “metafora” ad avere un carattere transeunte ed uscente da sé: metaphero significa “trasporto, trasferisco”, ma anche “cambio, confondo, rivolgo, mi aggiro”. Metaforizzare è andare da un’altra parte – ma non è la parte dove si va quel che conta, quanto piuttosto il portarsi da quella parte, il trasferirsi, l’andare per l’andare, il cambiare di posto – un luogo che è collegato a tutti i luoghi.
Ecco perché i romanzi di Cormac McCarthy, tanto per fare un esempio di un autore che amo molto, pur utilizzando la strada come metafora della vita, finiscono per confondere i piani, e la metafora è la cosa stessa – e d’altro canto la vita è la strada dei viventi così come la strada è la scena essenziale della vita (degli umani in particolare). Ma quel che più conta è che è la vita stessa ad essere metafora di se stessa, poiché si autorappresenta (ed autofonda) come svolgimento, mutazione, movimento, perenne trasferimento di senso da sé a sé. E il senso – così come l’essenziale funzione simbolica della specie umana – funziona proprio così: si tratta in verità di una rete di significati, di simboli, di metafore, dove ogni luogo ed ogni parte richiama l’intero dispositivo (ciò che dis-pone le parti e i luoghi). Ogni cosa è cioè sé in relazione ad altro, e dunque, paradossalmente, è se stessa solo in quanto significa, allude, transita verso l’alterità. Ogni cosa è metafora ed ogni metafora è cosa.
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Libri che accendono la mente (o menti che accendono i libri?)
Sto usando scientemente una classe di bambini (una quinta elementare) per i miei esperimenti filosofici con quella fascia di età. Non che quelli del passato non fossero “esperimenti”, ma questo lo è un po’ di più perché è finalizzato alla stesura di alcune parti di un libro che sto scrivendo, dedicato alla filosofia con i bambini. La strategia è però un po’ diversa dal solito, perché sto filosofando con loro in maniera laterale, per cerchi concentrici, apparentemente episodica (o, per meglio dire, rapsodica). Il filo conduttore questa volta non è il filo di filosofia, ma il libro. La cosa, cioè, più antifilosofica che ci sia – se si deve dar retta a Platone, che però tra-scriveva abbondantemente i suoi Dialoghi socratici.
E siamo partiti, tra l’altro, dal concetto di libro, dalla sua idea, da quel che esso è come essenza. Questa opera di astrazione è stata compresa così bene che adesso maneggiano perfettamente la coppia astratto/concreto, universale/particolare.
Lo scopo? a parte quello utilitaristico che ho esposto sopra, dimostrando ancora una volta la filosoficità dei bambini? Boh, non lo so ancora di preciso, mi sto facendo guidare da loro – soprattutto dalla loro creatività linguistica, dalla spontaneità e dal vulcano di metafore che ogni volta ne vien fuori. Ora siamo alle “facce” dei libri…
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Trilogia filosofico-letteraria – 2. Le strade stranianti di McCarthy
“Come McCarthy riesca a ripetere lo stesso schema narrativo per un intero romanzo senza stancare e stancarsi a sua volta (o impazzire) è un mistero” – ricevetti questo messaggio del mio amico Marco in spiaggia, l’estate scorsa in Sicilia, proprio mentre mi sciroppavo la Trilogia della frontiera.
Credo che lo “schema” in questione possa essere tradotto visivamente in quel lungo nastro fatto di polvere e orizzonte a perdita d’occhio, di fronte al quale prima o poi ciascun personaggio mccarthyano viene a trovarsi: «Disse che stava andando lì dove lo avrebbe condotto la strada» – qui è un cieco incontrato da uno dei giovani della Trilogia a parlare. Ma è già l’incipit del primo romanzo – Il guardiano del frutteto – ad annunciare un programma narrativo mai più abbandonato per quasi mezzo secolo: «Era da un po’ che non passava nessuno, e la strada era ancora bianca e arroventata nonostante il sole stesse già tingendo di rosso il cielo a occidente».
È insomma vero che lo schema dei romanzi di McCarthy è sempre lo stesso – o per lo meno, per quel che conosco e ho finora letto, tutte le narrazioni ed i loro protagonisti sono riconducibili ad un unico filo conduttore: umani erranti gettati (heideggerianamente) nel mondo, o, appunto, nella strada – siano questi sopravviventi alla giornata come Suttree (la cui strada è un fiume), o i giovanissimi fuggiaschi e cavalieri della Trilogia della frontiera, oppure il padre e il figlio sopravvissuti alla catastrofe: in quest’ultimo caso lo schema narrativo si palesa icasticamente fin nel titolo.
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Iperbole
Inoculare sacri terrori nel corpo sociale – che è ormai un irriconoscibile corpaccione – è l’imperativo categorico di ogni potere. Lo è da sempre, si sa. Senonché non serve più che tale orrorifica istillazione avvenga secondo un piano preordinato e verticale. Il corpaccione di cui sopra se lo produce e se lo inocula da sé, volontariamente ed orizzontalmente, senza che alcun medico luminare glielo ordini. Dosi sempre più massicce di paure sempre più impalpabili e spesso posticce. Allo scopo anything goes: lo spread o i Maya, il gelo siberiano o la crisi finanziaria, il nucleare iraniano o una qualche influenza con una qualche misteriosa sigla, nonché gli immancabili untori e barbari, capri espiatori dalla pelle un po’ più scura, provenienti di solito da sud o da est – meglio ancora una pozione magica ottenuta mescolando tutti questi ingredienti a casaccio. Magari da iniettare subito in rete, da far circolare capillarmente e da interiorizzare per bene, ganglio dopo ganglio, creando l’illusione che tutto si sia fatto da sé. E d’altra parte è vero che si è fatto da sé. Autorealizzazione di paure autoindotte.
Si ottiene inoltre il risultato di innalzare di un altro grado la soglia immunitaria, dimenticando che vaccinarsi contro ogni cosa comporta il rischio di vaccinarsi contro la vita stessa e il suo fluire – in definitiva contro se stessi. Come succede con le malattie autoimmuni.
Se qualcuno pensa che ci possa essere una cura per l’iperbole sociale che ho provato a descrivere servendomi di un’iperbole linguistica (o, se si preferisce, di una serie di biometafore, peraltro prodotti sociali a loro volta) – la risposta è no. E ne dubito perché siamo ormai al capezzale del paziente; e significherebbe inoculare l’ennesima sostanza in un corpo esausto – un vero e proprio accanimento terapeutico con avvitamento ipertossico. Meglio forse far fuori il corpaccione e sbarazzarsi del cadavere; aspettare che marcisca e magari provare a usarlo come concime nell’attesa che cresca qualcos’altro.
Oppure uscire addirittura dalla metafora. Fuor di metafora, come si suol dire.
Titaniche metafore
Ahi serva Italia, di dolore ostello
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!
(Purg., VI, 76-8)
È fin troppo facile (ed anche un po’ perfido) utilizzare la tragedia della nave Concordia per esercitarsi in metafore, che se da una parte potrebbero apparire tutt’altro che azzardate, finirebbero comunque per essere stucchevoli. Eppure quel che è accaduto l’altro giorno all’isola del Giglio – e che va accadendo in questi giorni nel dantesco “bordello” delle nostre città – costituisce uno straordinario analizzatore socio-antropologico.
Ne cito in modo sparso e disordinato – come del resto la realtà appare in sé – i principali fenomeni, lasciando che ciascuno stabilisca per proprio conto legami e nessi causali, ed eventuali sintesi.
Gitani solitari e filogenetici
(Siamo così tanto predeterminati dal linguaggio e dalla filogenesi, sacchi così tanto ricolmi della farina altrui, da dimenticare talvolta di verificare da dove certe espressioni ci vengono; poi, casualmente, capita di rileggere un passo e di esclamare: ah, ecco!
Qualche giorno fa credevo di avere coniato l’originalissima metafora di “zingari del cosmo”, e ora scopro che non era farina del mio sacco…)
“L’uomo deve infine destarsi dal suo sogno millenario per scoprire la sua completa solitudine, la sua assoluta stranezza. Egli ora sa che, come uno zingaro, si trova ai margini dell’Universo in cui deve vivere. Un Universo sordo alla sua musica, indifferente alle sue speranze, alle sue sofferenze, ai suoi crimini”.
(Jacques Monod, Il caso e la necessità)
Campi fioriti e campi minati
Non so come sia venuta fuori, né quale associazione di parole o immagini l’abbia prodotta. So solo che stavo alla lavagna e segnavo nella parte di destra parole e concetti che avevano a che fare con la ragione, e nella parte di sinistra con il mito. Cercavo cioè di spiegare, per contrapposizione, quel discrimine (forse più fittizio che reale) che avrebbe consentito la nascita della filosofia. Convenzionalmente si dice: prima c’era il mito (la narrazione immaginifica, l’immemore tradizione orale, le cosmologie fantastiche, e la credenza popolare in tutto ciò) – poi, quasi come un fungo o un frutto esotico, ecco lì spuntare e finalmente ergersi, ben staccata sullo sfondo fideistico, nostra signora filosofia, con il suo verbo logico. Lògos distillato allo stato puro, dopo tutta quella secolare e disordinata fermentazione.
Naturalmente tutto questo lo avevo in testa io, e non è che lo stessi dicendo e spiegando in questi termini.
Però, dopo aver giustapposto parole e concetti, strisciato gessi sull’ardesia nera e saltabeccato qua e là tra i banchi – so che questo mio moto perpetuo un po’ li ipnotizza – un ragazzino sul lato sinistro della classe se ne esce con una metafora fulminante:
Da una parte c’è un campo fiorito, dall’altra un campo minato – così dice testualmente.
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La schizofrenia ontologica – Oltrepassare Severino 2
Leggendo il libro di ricordi di Emanuele Severino – che com’è giusto che sia mescola esistenza e filosofia, affetti e ragionamenti, biografia e ontologia – si ha tuttavia l’impressione di una schizofrenia di fondo. Uso il termine nel suo significato originario (“divisione della mente”), senza dunque alcuna connotazione psichiatrica, per sottolineare una vera e propria Trennung filosofica, una scissione che non è soltanto quella convenzionale tra l’io e il mondo, l’individuo e la società, la finitezza della mia mente e l’intero universo nel quale quella mente si sente sperduta, ma che attiene al discorso filosofico essenziale di Severino. Lo esemplifico con due metafore da lui utilizzate nel testo:
la prima allude all’altalenante condizione del sogno e della veglia nella quale ci troviamo immersi, un tema che da Eraclito a Calderon de la Barca ha una lunga tradizione, ma che in Severino pare caricarsi di una inaudita radicalità: il sogno (“la terra isolata dal destino”) essendo la nostra condizione fondamentale, da cui emerge la via della veglia (e dunque della verità), che solo in quanto porta alla luce il sapere che l’apparire di quell’apparire non è un sogno, può indicare il “destino”, cioè lo stare assolutamente incondizionato;
la seconda metafora, di ascendenza evangelica, è quella del campo dove crescono il loglio e il grano: lo spazio dell’uno o dell’altro delimita rispettivamente quel che è proprio dell'”esser uomo” (quell’uomo errante che è Emanuele Severino), e quel che invece è “testimonianza del destino”, un Io-destino infinitamente altro dall’io-Severino. Il merito che Severino pare attribuirsi è quello che nel “suo” campo (ma è “suo”? e che cos’è il campo? – è lui stesso a chiederselo) è via via andato crescendo il grano, confinando il loglio in spazi sempre più ristretti.
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Metafore idrauliche
Mentre il brutale linguaggio della politica conia metafore ciniche e crudeli, parla di “rubinetti da chiudere” e di “vasche da svuotare” – i corpi privi di vita dei migranti (delle persone migranti, cioè di esseri umani senza altra qualifica) emergono dalle acque del Mediterraneo. Ed è l’unica vera emergenza.
Rèi (metafore fluviali)
Comme je descendais des Fleuves impassibles
Je ne me sentis plus guidé par les haleurs…
(A. Rimbaud)
La dialettica concepisce ogni forma divenuta
nel fluire del movimento…
(K. Marx)
1. I fiumi sono degli individui naturali straordinari. Ogni volta che ne vedo uno non so resistere, devo raggiungerlo, affacciarmi sulle sue rive, percorrerlo con lo sguardo in entrambe le direzioni, immergermi (non fisicamente, anche se vorrei) nelle sue acque, entrare nel suo misterioso flusso. Mi accontento anche di indugiare, svagato e sognante, fissando a lungo quel perenne scorrere delle acque, esperienza quantomai ipnotica. Perenne scorrere: quasi un ossimoro…
2. Fondamentali per l’insediamento antropologico e la nascita e lo sviluppo delle culture umane; vezzeggiati, curati, domati, deviati, sfruttati, canalizzati – un tempo con rispetto e devozione; onnipresenti nelle rappresentazioni estetiche e letterarie, spesso divinizzati e resi sacri; ma più di recente, con il dominio e la distruzione sistematica della physis per scopi ben poco (o fin troppo) “civili”, maltrattati, inquinati e avvelenati.
(Il mio primo incontro con un fiume, a 5 o 6 anni, avvenne nella “progressiva” Lombardia del boom economico, e reca con sé il ricordo di una maleodorante fogna a cielo aperto, ricoperta di uno strato oleoso di schiume di varia coloritura e consistenza).
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