Quando Benedetto XVI giunse al soglio pontificio, ricordo che una mia cara amica laicissima e illuminista lo soprannominò papa Natzinger. Non solo per le parole e il programma – peraltro ampiamente annunciato nei decenni di stretta collaborazione con Wojtyla, un papa nuovissimo per ragioni di “marketing” e quantomai reazionario per ideologia – ma anche per la gestualità e per quel sorriso forzato, un po’ pastore tedesco un po’ sepolcro imbiancato. Certo, un giudizio quantomai tranchant, ai limiti del lombrosiano, che oggi verrebbe guardato storto dal fiume di retorica corrente.
Ma la guerra del nuovo papa contro il relativismo, la sua visione tradizionalista ed assolutista, forse inevitabile a ridosso dell’epoca della “guerra di civiltà” e della discussione europea sulle “radici cristiane”, non poteva che infastidire qualunque progressista. Oggi che più di ieri il progressismo è un concetto abusato e problematico (ma del resto il Pasolini del discorso sul “sacro” e una schiera di filosofi novecenteschi ci avevano avvertiti), possiamo non tanto rivedere ma ricollocare quel giudizio nel nuovo contesto, etico, antropologico e geopolitico.
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Filosofia della leggerezza
Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini,
avrà spostato tutte le pietre di confine;
esse tutte voleranno in aria per lui,
ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola
– “la leggera”.
(F. Nietzsche)
PRIMA PARTE – IL PENSIERO DELLA LEGGEREZZA
«Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite».
Italo Calvino scrive queste parole durante l’estate del 1985, poco prima di morire – parole che si possono ritenere un lascito, un vero e proprio testamento culturale.
Si trovano nella prima delle sei Lezioni americane, quella dedicata alla “Leggerezza”, e ritengo possano ispirare il discorso che vorrei articolare a proposito del passaggio (o se si preferisce della dialettica) tra gravità e leggerezza. Calvino sembra qui alludere ad una visione millenarista, uno snodo epocale, augurandosi che la ruggine materiale e spirituale del Novecento venga abbandonata al suo destino, e auspicando un salto nella dimensione di una categoria – la leggerezza – che va meglio chiarita.
7 parole per 7 meditazioni – 4. Persona
Il concetto di persona ci svela fin dall’etimologia il problema riguardante le teorie dell’individualità: persona è, letteralmente, maschera (dal greco prosopon mediato forse dall’etrusco phersu), termine teatrale che allude alla duplicità, se non addirittura alla doppiezza, o comunque alla stratificazione e molteplicità di quella parte di noi stessi che denominiamo “io”. Pare che il primo filosofo ad utilizzare “persona” sia stato lo stoico Panezio, nel II secolo a.C.: interessante notare come gli stoici concepissero il ruolo dell’individuo in termini di “parte” (moira) nel destino del mondo – un po’ come la maschera svolge un ruolo nella scena teatrale.
Già tutti questi termini – io, me stesso, individuo (non-diviso, equivalente latino del greco a-tomos), persona, cui possiamo aggiungere soggetto, anima, coscienza – non sono affatto sovrapponibili, ciascuno di essi allude a significati o sfumature diverse; in ogni caso, quando parliamo di noi stessi, la prima cosa che salta agli occhi è proprio questa molteplicità : io sono io, ho un’identità (il nome è già una definizione di singolarità), ma se vado poi a vedere che cosa c’è in questo contenitore individuale – cosa c’è dietro la maschera-persona – scoprirò una varietà di elementi, spesso contraddittori. Io sono vasto, contengo moltitudini, dice Walt Whitman.
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Antropocene 6 – Il linguaggio (e ciò di cui non si può parlare)
Ciò su cui rifletteremo stasera sarà la funzione del linguaggio nel contesto antropologico (o meglio antropogenetico) che abbiamo fin qui discusso: come agisce il linguaggio nella costruzione di quella seconda natura che l’uomo edifica sulle proprie basi biologiche, per “liberarsene”, o per allentarne le catene?
Le domande essenziali che potremo farci riguardano quindi la natura del linguaggio – o meglio: della facoltà di linguaggio, ovvero di quello strumento universale che caratterizza la specie homo sapiens per lo meno fin dalla rivoluzione cognitiva (e che probabilmente l’ha resa possibile), ma le cui origini appaiono ancora avvolte dal mistero:
-perché compare il linguaggio?
-che cos’è il linguaggio?
-ha a che fare con la biologia o con la cultura? è per natura o è per convenzione?
-in che cosa si differenzia dai linguaggi e dalle forme di comunicazione delle altre specie animali?
-che rapporto c’è tra linguaggio e pensiero?
-qual è l’influsso del linguaggio sugli individui e come gli individui si rapportano al linguaggio?
-è il linguaggio una tecnica?
-possiamo vivere senza linguaggio?
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Meditabondi animali
Approfittando dell’interessante dibattito generato da un post di qualche giorno fa, ho provato a riflettere sulla pratica della meditazione. Ed è subito sorto un problema: un conto è meditare, un altro è riflettere sulla meditazione (o, se è lecito dirlo, meditare sulla meditazione): il pensiero riflessivo tipico della filosofia occidentale (quel che riflette su ogni cosa, perché la mente è portata a pensare di essere una superficie-specchio, una facoltà in grado cioè di recepire e restituire qualsiasi oggetto, sé compresa), ha qualche problema ad affrontare quel che (almeno in parte) ne vorrebbe negare l’assoluta trasparenza ed evidenza. Lati oscuri, opachi, spigolosi o inintelligibili della realtà – la vita o l’esistenza nuda e cruda, che non si fanno certo ridurre all’ordine scientifico, logico, filosofico. La meditazione appare allora come una porta stretta che può essere aperta su questo territorio umbratile e misterioso.
Non intendo qui disquisire in modo approfondito sul significato del termine, o sulla sua fenomenologia – dato per inteso che si tratta di parola (e di concetto) piuttosto stratificato e irriducibile ad un unico significato. Se l’etimo ci rivela la comunanza con la cura (medèri, da una radice indoeuropea che mette insieme i significati di curare e di riflettere), l’esistenza di pratiche così diverse di meditazione (in Occidente come in Oriente – o, meglio, in quello spazio che l’Occidente definisce “Oriente”) induce a sospettare che possano essere raccolte sotto il medesimo nome.
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Lezione spinozista 8 – Sub specie aeternitatis
Philosophieren ist spinozieren
(G.W.F. Hegel)
Come farò a dire qualcosa di sensato sulla parte quinta dell’Etica?
C’è come una tensione sotterranea che corre in queste (peraltro non molte) pagine conclusive della grande opera di Spinoza, un voler riannodare tutti i fili, per farli convergere verso un esito unitario, che era poi anche il fuoco dell’inizio: quel Dio-sostanza da cui tutto era partito, contemplabile con un vero e proprio salto mortale ed attraverso una modalità inedita dello sguardo sulle cose e sul mondo – sub specie aeternitatis, nientemeno!
Com’è concepibile il punto di vista dell’eternità? Questo il nodo che Spinoza vuole qui sciogliere. Al che vien da chiedersi: che c’entra tutto questo discorso con quell’ampia parte dell’Etica che tratta di passioni, di corpi, di desideri, letizia, tristezza, e di tutte le forze che nel basso ventre della materia e della natura si agitano? Che rapporto possiamo mai avere – noi umani, animali tra gli animali, enti tra gli enti, modi transeunti e oscillanti dell’essere – con quella categoria altisonante che definiamo Eterno?
Come sempre la risposta (o meglio l’indizio per provare a rispondere) ci vengono dati lateralmente, in un qualche luogo del testo apparentemente secondario, magari uno scolio o un corollario, come ad esempio il seguente:
Ma si può obiettare che se intendiamo Dio come causa di tutte le cose, lo consideriamo, per ciò stesso, come causa della Tristezza. Ma a questo rispondo che, in quanto noi comprendiamo le cause della Tristezza, in tanto essa cessa di essere una passione, ossia cessa di essere Tristezza; e perciò, in quanto comprendiamo che Dio è causa della Tristezza, noi ci rallegriamo. (Scolio prop. XVIII)
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Il pieno transindividuale: tentativo numero 3 di definire la felicità (con qualche incursione nel misticismo e nella geometria)
Tutto è eguale per dio
Non v’è divario in dio: tutto gli è uno.
A te come alla mosca si partecipa.
Più esci da te, più dio entra in te
Più ti svuoti di te e fuori ti versi,
più la deità di dio si versa in te.
L’uomo è ogni cosa.
Se una gliene manca,
è che non sa qual sia la sua ricchezza.
(Angelus Silesius)
Dopo la felicità e la gioia, provo a definire un sentimento contiguo a quelli, cui però mi risulta difficile attribuire un nome: pienezza vitale? compiutezza? perfezione? plenitudine? … Si tratta di qualcosa che ha a che fare con il pieno, da intendersi non tanto come contrapposizione al vuoto esistenziale (quello brevemente illustrato nel post precedente), e nemmeno come autorealizzazione individuale, compimento di sé o simili, ma come sentimento della profonda connessione che lega tutti gli enti, viventi e non viventi – sentimento che a mio avviso lascia aperta la possibilità di un suo successivo utilizzo progettuale e razionale. Parlo di quella tonalità emotiva ed esistenziale che si manifesta più chiaramente nella pietas e nella sympàtheia nei confronti del simile vivente, ma che è ancor più radicale, perché ha a che fare con la totalità, con l’assoluto, con l’eterno – si intendano questi concetti non in maniera enfatica o irrazionale, ma semplicemente come la modalità attraverso cui si percepiscono insieme: a) tutto ciò che sta al di là della nostra finitezza, oltre i confini del nostro corpo, b) la relazione, o meglio la rete di relazioni che questi confini attraversa e stringe in unità.
Si giunge in tal modo alle radici dell’essere, si sente di essere tanto quanto ogni altro ente, ogni altra cosa; si è mentre si sente di essere e si sente di essere mentre si è – ma non si è qualcosa, non si è questo o quello, io o un altro – semplicemente si è. Non si è nemmeno heideggerianamente gettati – ex-sistendo, cioè stando fuori dal mondo, perché in questo caso la tonalità emotiva congiunge, non separa. E’ un sentire che ci conduce in una zona (pericolosamente) in odore di misticismo. E’ proprio la pienezza mistica che assomiglia ancor più pericolosamente alla gloria, allo splendore, alla santità, ma anche alle loro protuberanze razionali plotiniane o spinoziste.
SAUVAGERIE (con alcune divagazioni su Spinoza, Plotino e l’assoluto)
“Happiness is real only when shared”
Non capita spesso di uscire dalla visione di un film intimamente scossi e, nel contempo, eccitati dal punto di vista intellettuale. Mi è capitato l’altra sera con Into the wild, film di Sean Penn tratto dal libro Nelle terre estreme di Jon Kracauer (per chi non l’avesse visto, c’è una scheda esaustiva su Wikipedia, ma naturalmente sarebbe preferibile vederlo). Il rito del cineforum, che, almeno in provincia, non passa di moda, può indurre esperienze del genere (visione unita alla discussione), oltre al fatto che, a prezzi molto modici, consente di recuperare film persi nella stagione precedente (talvolta perché poco o punto distribuiti), godendoseli in compagnia di persone di solito piacevoli e intelligenti, e non sui cuscini solitari e soporiferi del proprio divano di casa.
Fatta questa (quasi inutile) premessa, torno all’oggetto. E l’oggetto è un film profondamente filosofico, che verte nientemeno su temi quali l’opposizione (di nuovo i contrari!) tra libertà e necessità, natura e cultura, vita e morte, e così via. Parto però dalla fine, e (giusto per non smentire la premessa) dall’intelligente considerazione di Celeste, l’acuto e cinefilo commentatore che imperversa nelle nostre piacevoli serate al cineforum, il quale ha osservato giustamente come la scena-chiave del film sia forse quella in cui il protagonista, poco prima di morire schiantato dalla necessità naturale, incontra l’orso: Christopher ha attraversato molte tappe del suo percorso di iniziazione, crescita e liberazione, fino a raggiungere il limite estremo (reso metaforicamente dalle terre selvagge dell’Alaska); si è liberato della “cultura” (in termini di cose, società, relazioni), ma forse anche della “natura”. L’orso che gli passa accanto, nota Celeste, lo annusa e se ne va, non riconoscendo in lui né qualcosa di “sociale” (che avrebbe potuto aggredire) né qualcosa di “naturale”, con cui interagire. Estraneità totale, dunque. Ma dove si trova allora Chris? In che luogo del cosmo si è andato a collocare? Sarà che in questo periodo mi sento un po’ “spinozista”, ma a me sono venuti in mente due concetti: assoluto, intuizione intellettuale.
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