Ciò su cui rifletteremo stasera sarà la funzione del linguaggio nel contesto antropologico (o meglio antropogenetico) che abbiamo fin qui discusso: come agisce il linguaggio nella costruzione di quella seconda natura che l’uomo edifica sulle proprie basi biologiche, per “liberarsene”, o per allentarne le catene?
Le domande essenziali che potremo farci riguardano quindi la natura del linguaggio – o meglio: della facoltà di linguaggio, ovvero di quello strumento universale che caratterizza la specie homo sapiens per lo meno fin dalla rivoluzione cognitiva (e che probabilmente l’ha resa possibile), ma le cui origini appaiono ancora avvolte dal mistero:
-perché compare il linguaggio?
-che cos’è il linguaggio?
-ha a che fare con la biologia o con la cultura? è per natura o è per convenzione?
-in che cosa si differenzia dai linguaggi e dalle forme di comunicazione delle altre specie animali?
-che rapporto c’è tra linguaggio e pensiero?
-qual è l’influsso del linguaggio sugli individui e come gli individui si rapportano al linguaggio?
-è il linguaggio una tecnica?
-possiamo vivere senza linguaggio?
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Antropocene 6 – Il linguaggio (e ciò di cui non si può parlare)
lunedì 18 marzo 2019Meditabondi animali
venerdì 10 giugno 2011Approfittando dell’interessante dibattito generato da un post di qualche giorno fa, ho provato a riflettere sulla pratica della meditazione. Ed è subito sorto un problema: un conto è meditare, un altro è riflettere sulla meditazione (o, se è lecito dirlo, meditare sulla meditazione): il pensiero riflessivo tipico della filosofia occidentale (quel che riflette su ogni cosa, perché la mente è portata a pensare di essere una superficie-specchio, una facoltà in grado cioè di recepire e restituire qualsiasi oggetto, sé compresa), ha qualche problema ad affrontare quel che (almeno in parte) ne vorrebbe negare l’assoluta trasparenza ed evidenza. Lati oscuri, opachi, spigolosi o inintelligibili della realtà – la vita o l’esistenza nuda e cruda, che non si fanno certo ridurre all’ordine scientifico, logico, filosofico. La meditazione appare allora come una porta stretta che può essere aperta su questo territorio umbratile e misterioso.
Non intendo qui disquisire in modo approfondito sul significato del termine, o sulla sua fenomenologia – dato per inteso che si tratta di parola (e di concetto) piuttosto stratificato e irriducibile ad un unico significato. Se l’etimo ci rivela la comunanza con la cura (medèri, da una radice indoeuropea che mette insieme i significati di curare e di riflettere), l’esistenza di pratiche così diverse di meditazione (in Occidente come in Oriente – o, meglio, in quello spazio che l’Occidente definisce “Oriente”) induce a sospettare che possano essere raccolte sotto il medesimo nome.
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Lezione spinozista 8 – Sub specie aeternitatis
martedì 20 aprile 2010Philosophieren ist spinozieren
(G.W.F. Hegel)
Come farò a dire qualcosa di sensato sulla parte quinta dell’Etica?
C’è come una tensione sotterranea che corre in queste (peraltro non molte) pagine conclusive della grande opera di Spinoza, un voler riannodare tutti i fili, per farli convergere verso un esito unitario, che era poi anche il fuoco dell’inizio: quel Dio-sostanza da cui tutto era partito, contemplabile con un vero e proprio salto mortale ed attraverso una modalità inedita dello sguardo sulle cose e sul mondo – sub specie aeternitatis, nientemeno!
Com’è concepibile il punto di vista dell’eternità? Questo il nodo che Spinoza vuole qui sciogliere. Al che vien da chiedersi: che c’entra tutto questo discorso con quell’ampia parte dell’Etica che tratta di passioni, di corpi, di desideri, letizia, tristezza, e di tutte le forze che nel basso ventre della materia e della natura si agitano? Che rapporto possiamo mai avere – noi umani, animali tra gli animali, enti tra gli enti, modi transeunti e oscillanti dell’essere – con quella categoria altisonante che definiamo Eterno?
Come sempre la risposta (o meglio l’indizio per provare a rispondere) ci vengono dati lateralmente, in un qualche luogo del testo apparentemente secondario, magari uno scolio o un corollario, come ad esempio il seguente:
Ma si può obiettare che se intendiamo Dio come causa di tutte le cose, lo consideriamo, per ciò stesso, come causa della Tristezza. Ma a questo rispondo che, in quanto noi comprendiamo le cause della Tristezza, in tanto essa cessa di essere una passione, ossia cessa di essere Tristezza; e perciò, in quanto comprendiamo che Dio è causa della Tristezza, noi ci rallegriamo. (Scolio prop. XVIII)
Il pieno transindividuale: tentativo numero 3 di definire la felicità (con qualche incursione nel misticismo e nella geometria)
mercoledì 29 luglio 2009
Tutto è eguale per dio
Non v’è divario in dio: tutto gli è uno.
A te come alla mosca si partecipa.
Più esci da te, più dio entra in te
Più ti svuoti di te e fuori ti versi,
più la deità di dio si versa in te.
L’uomo è ogni cosa.
Se una gliene manca,
è che non sa qual sia la sua ricchezza.
(Angelus Silesius)
Dopo la felicità e la gioia, provo a definire un sentimento contiguo a quelli, cui però mi risulta difficile attribuire un nome: pienezza vitale? compiutezza? perfezione? plenitudine? … Si tratta di qualcosa che ha a che fare con il pieno, da intendersi non tanto come contrapposizione al vuoto esistenziale (quello brevemente illustrato nel post precedente), e nemmeno come autorealizzazione individuale, compimento di sé o simili, ma come sentimento della profonda connessione che lega tutti gli enti, viventi e non viventi – sentimento che a mio avviso lascia aperta la possibilità di un suo successivo utilizzo progettuale e razionale. Parlo di quella tonalità emotiva ed esistenziale che si manifesta più chiaramente nella pietas e nella sympàtheia nei confronti del simile vivente, ma che è ancor più radicale, perché ha a che fare con la totalità, con l’assoluto, con l’eterno – si intendano questi concetti non in maniera enfatica o irrazionale, ma semplicemente come la modalità attraverso cui si percepiscono insieme: a) tutto ciò che sta al di là della nostra finitezza, oltre i confini del nostro corpo, b) la relazione, o meglio la rete di relazioni che questi confini attraversa e stringe in unità.
Si giunge in tal modo alle radici dell’essere, si sente di essere tanto quanto ogni altro ente, ogni altra cosa; si è mentre si sente di essere e si sente di essere mentre si è – ma non si è qualcosa, non si è questo o quello, io o un altro – semplicemente si è. Non si è nemmeno heideggerianamente gettati – ex-sistendo, cioè stando fuori dal mondo, perché in questo caso la tonalità emotiva congiunge, non separa. E’ un sentire che ci conduce in una zona (pericolosamente) in odore di misticismo. E’ proprio la pienezza mistica che assomiglia ancor più pericolosamente alla gloria, allo splendore, alla santità, ma anche alle loro protuberanze razionali plotiniane o spinoziste.