Filosofie della storia – 5. Post-moderno, fine della storia e messianismo

L’ultimo scorcio del Novecento sembra chiudersi filosoficamente con una sorta di resa della ragione che ha fondato la modernità: il filosofo francese Lyotard pubblica nel 1979 La condizione postmoderna, lo scritto con il quale si apre l’epoca della fine delle grandi narrazioni (le ideologie totalizzanti e unificanti, l’universale, l’assoluto, ecc.) – e però entra in crisi lo stesso asse portante del “moderno”, la moda e il modo dell’ora, del recente, del nuovo, l’ideologia del progresso infinito.
La medesima idea di filosofia della storia, di storia universale, di un’evoluzione storica unitaria entra in crisi: potremmo dire che si apre l’epoca della crisi per antonomasia interna al mondo occidentale (krisis è parola greca che indica un apice di forza e di tensione che occorrerà risolvere in un senso o nell’altro, ma che nella lotta che lo contraddistingue resta incerto nel suo esito).

A partire allora da questa irreversibile consapevolezza critica – e di disincanto – proveremo a mettere in scena alcune tesi di filosofia della storia elaborate nel corso del ‘900, secolo quantomai storico se non storiolatrico, le cui certezze però vanno in crisi proprio al suo volgere: il secolo forse più denso di storia che si sia mai dato, se non altro per le tragedie storiche che vi si sono svolte, e che non hanno precedenti, si chiude con un senso di totale irresolutezza riguardo al futuro.

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Emergocrazia

L’impressione generale che ho di questo momento storico-politico – impressione, non analisi – è che dopo un periodo “democratico” durato un paio di secoli – dall’Illuminismo alla Decolonizzazione – si torni all’antico, con la restaurazione di sistemi oligarchici e autoritari, ma soprattutto con una nuova concezione della sfera politica: tutto è emergenza. D’ora in poi – in verità già da qualche decennio a questa parte – il nuovo modo di governare e di concepire la politica sarà emergenziale. Dunque dopo la breve pausa “democratica”, un ritorno in pompa magna di oligarchie, monarchie, tirannidi – ma con l’ausilio essenziale dell’efficienza tecnoscientifica (ciò che insieme crea e risolve e però ricrea le emergenze)
La stagione democratica – grosso modo a partire dall’Illuminismo e dal giacobinismo roussoiano e rivoluzionario, seguiti da tutti i tentativi popolari di appropriarsi del potere e di riplasmare le società in senso orizzontale, e non più verticale, non solo nell’Europa dei movimenti socialisti, comunisti, operai, ma anche nelle sue colonie, attraverso tutti i processi di decolonizzazione novecenteschi – sembra già volgere al termine, e infrangersi di fronte alle emergenze: demografiche, energetiche, sanitarie, migratorie, geopolitiche e militari, climatiche, ambientali, ecc. La democrazia deve essere sostituita da una emergocrazia (o come la si voglia chiamare), una forma dell’organizzazione sociale contraddistinta da una permanente mobilitazione totale, ma agita e comandata dall’alto (dai tecnici, dagli scienziati, dalle élites). Continua a leggere “Emergocrazia”

Dopo due mesi

Guerra-matrioska, mobilitazione emotiva, ipocrisia neoliberale, “naturalità” della guerra, antimilitarismo unica opzione.

La guerra sta rapidamente cambiando natura, obiettivi, strategie, persino attori (o meglio: sta emergendo ciò che in origine era poco chiaro o in seconda linea). Questa sua rapida trasformazione da apparente guerra locale a guerra potenzialmente globale, se non smonta il mantra aggressore/aggredito della prima ora, lo complica, anche perché la moltiplicazione dei fronti (e delle linee gotiche) rende ormai pressoché impossibile – salvo per gli amici guerrafondai degli imperialisti dei due fronti – schierarsi da una parte o dall’altra. Ma, ancor di più aumenta il rischio che chi non vuole la guerra, ne venga stritolato. Gli antimilitaristi devono perciò elaborare una teoria e una prassi all’altezza di una situazione cangiante e in continua evoluzione.
Ma proviamo a fare un minimo di analisi e a fissare alcuni punti.

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