Zoon politikon 6 – Popolo, moltitudine, populismi 2.0

«I più, ciascuno dei quali non è un uomo di valore, possono tuttavia, riunendosi, essere migliori dei pochi. […] Infatti, essendo molti, ognuno ha la sua parte di virtù e di saggezza, sicché con la loro unione dalla moltitudine (plethos) si ottiene una sorta di uomo unico con molti piedi, molte mani e capace di percepire molte cose, e lo stesso accade anche per i costumi e l’intelligenza (dianoia)» [Aristotele, Politica]

[plethos: moltitudine, folla, masse, la maggior parte; in assonanza con populus, plus, polis – tutte parole derivanti dalla radice indoeuropea par- o pal- che esprime il concetto di riunire, mettere insieme]

Questa tesi aristotelica sull’unità dei molti – che potrebbe essere avvicinata alla interpretazione moltitudinaria del suo intelletto attivo, così come verrà riletta da Averroè come potenza collettiva dell’intelligenza umana, una sorta di mente sovraindividuale che può anche essere avvicinata al concetto marxiano di general intellect – ci riporta ai fondamenti della concezione politica, sia greca sia ripresa poi dalla modernità: l’unificazione dei molti risolverebbe il problema del conflitto naturale (la guerra di tutti contro tutti), soprattutto se è in grado di istituire uno stato coeso sorretto da un popolo-corpo unico, secondo la visione di Hobbes, che consolida ed anzi moltiplica la propria potenza di sviluppo, quasi si trattasse di un organismo biologico dotato di molte mani, braccia, gambe e di molte menti.
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Solitudine 2.0

Scrive Spinoza nel capitolo 5, articolo IV del Trattato politico: «Quello Stato, inoltre, in cui la pace deriva dall’inerzia dei sudditi, che sono guidati come pecore perché imparino unicamente a servire, può essere detto più correttamente solitudine anziché Stato». È questo lo Stato dov’è assente la libertà della moltitudine, dove il potere governa con la paura (e non con la speranza), dove vige il terrore (o “una pace terrificante”, per dirla con l’ultimo De Andrè).
Ma a chi attribuisce, Spinoza, la condizione di solitudine? A chi detiene il potere o al suddito-schiavo? Direi ad entrambi – è lo Stato nel suo insieme ad essere una solitudine. Uno Stato del genere non può che essere sommamente impolitico e privo di ragione: Spinoza aveva non a caso aperto il capitolo ricordando quanto affermato precedentemente, e cioè che l’uomo si autodetermina (è soggetto a se stesso) in quanto è in sommo grado guidato dalla ragione – e in ciò è sommamente potente. Ad uno Stato guidato da ragione corrisponde un cittadino guidato da ragione, e non da passioni tristi o da sofismi privi di fondamento. E là dove ciascuno si autodetermina, non può esservi solitudine né paura – ma una comunità che si autodetermina. Una pòlis, uno stato, una comunità politica. Non un popolo-gregge.
Se però la moltitudine è costituita da solitudini – magari da atomi sociali iperconnessi alla rete e sconnessi dalla materialità dell’esistenza – ben presto un padrone busserà alla porta.

Ancipite moltitudine

«I più, ciascuno dei quali non è un uomo di valore, possono tuttavia, riunendosi, essere migliori dei pochi. […] Infatti, essendo molti, ognuno ha la sua parte di virtù e di saggezza, sicché con la loro unione dalla moltitudine (plethos) si ottiene una sorta di uomo unico con molti piedi, molte mani e capace di percepire molte cose, e lo stesso accade anche per i costumi e l’intelligenza (dianoia)» [Aristotele, Politica]

(Naturalmente, se anziché virtù, saggezza e intelletto la medesima unione dovesse potenziare i loro contrari, l’effetto di moltiplicazione della malvagità sarebbe devastante – moltitudine vs massa)

Volontà generale

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Né malmostosi né osannanti – di fronte alla sovranità popolare (e non all’accozzaglia) che si esprime. Meglio pacati e riflessivi.
Questo, mi pare, il dato essenziale del voto referendario di ieri da cui ripartire: c’è stata una grande ed inaspettata partecipazione popolare che, al di là delle differenze dei motivi di ciascuna e ciascuno e delle inevitabili confluenze di umori e malumori, ha espresso una chiara volontà generale (Rousseau insegna!) di riappropriazione di sovranità.
È dunque quantomeno inopportuno che questo o quel partito, questo o quel leader s’intesti la vittoria: l’espressione popolare dice chiaramente che il problema, semmai, è proprio la loro incompetenza e pochezza, è proprio il deficit di rappresentanza. E che il tentativo di risolvere i problemi della crisi sociale e il governo della complessità non si fa con le scorciatoie a colpi di maggioranze o di persone al comando. Un tentativo riduzionistico che fu sconfitto nel 2006 e viene sconfitto nuovamente, in maniera secca, oggi. Il problema non è la costituzione, che ha un suo equilibrio e che certo non è intoccabile (ma nemmeno disponibile ad essere piegata alle esigenze contingenti) – il problema è la classe politica, non all’altezza del suo compito. E il problema, più ampio, è quello della disgregazione sociale generata dalla follia neoliberista, da tutti i governi fin qui succedutisi assecondata (e, dagli ultimi tre, senza un chiaro mandato popolare).
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Migranti di tutti i paesi, unitevi!

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La “questione migranti” (e/o profughi) revoca in dubbio in maniera radicale il senso stesso della comunità politica (sia essa europea, nazionale o transnazionale). Non solo: revoca ognuna delle questioni – politiche, sociali, economiche, antropologiche, etiche, simboliche.
Proverò ad allinearle per sommi capi, in un quadro sintetico e non certo esaustivo. Una sorta di promemoria, di memorandum (o meglio, di contromemorandum).
È però necessaria una premessa volta a sgombrare il campo da un equivoco linguistico (la lingua, com’è noto, non è mai neutra). Distinguere tra profughi e migranti, come se solo i primi fossero investiti da un’emergenza umanitaria, è del tutto insensato: ogni migrante è un pro-fugo, un umano, cioè, che cerca scampo, in fuga da una situazione che percepisce come pericolosa se non mortale per sé e i propri cari – siano esse guerra, scarsità di cibo, avversità climatiche, mancanza di libertà/possibilità. Gli umani sono animali costituenti la propria possibilità di vita – è questo il senso profondo del concetto aristotelico di zôon politikòn – e ogni qualvolta tale possibilità viene chiusa o negata, essi hanno necessità vitale di riappropriarsene – in qualunque altro luogo e modo.
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Prima parola: guerra

FranciscoGoyaLosdesastresdelaguerra

Ci sono almeno 3 ragioni che mi hanno indotto ad inaugurare il nostro Gruppo di discussione 2014/15 con il tema della guerra (l’unico che non era stato suggerito dal gruppo precedente). La prima è di tipo locale e contingente: qui a Rescaldina, per volontà di alcune associazioni e della nuova amministrazione comunale, si sta riflettendo sul tema della pace, attraverso un itinerario di incontri e di iniziative che proseguirà anche nelle prossime settimane. Solo che la parola-chiave di questa sera non è “pace”, ma “guerra”. La scelta non è casuale. Veniamo quindi alla seconda ragione, di tipo globale: è evidente come la guerra sia ancora l’orizzonte generale delle relazioni internazionali, la modalità attraverso cui, in ultima analisi, la politica gestisce i conflitti (dal Mediterraneo al Medio Oriente, dall’Ucraina ad altri scenari più periferici e, spesso, oscurati dai media). Infine, questo incontro è per me l’occasione di fare il punto sul rapporto tra filosofia e guerra, dato che proprio 30 anni fa, nell’incontrare la filosofia, cominciavo a riflettere sulle dinamiche militariste e sull’antimilitarismo come teoria e prassi di ampio respiro.

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Cascàmi

Scrap_metalDella storia non si butta via niente (qualcuno dice che da essa non si impara niente). D’altro canto il verbo “buttare” è ambiguo, dato che – non esistendo il nulla – ciò che viene gettato via non sparisce, semplicemente si sposta, si disfa, si trasforma – residua da qualche parte. Il dimenticato Giambattista Vico aveva opportunamente coniato l’espressione di corsi e ricorsi per significare non solo che i residui non spariscono, ma che talvolta possono essere riesumati e riutilizzati. Tornare in vita – ricorrere, appunto. È probabile che la storia – ammesso che una cosa come “la” storia esista davvero – funzioni proprio così. Come succede col povero maiale, del quale non si getta via niente. E tutti i suoi cascami – talvolta mefitici – si trovano depositati da qualche parte (nello spirito? nella memoria? nel linguaggio? nella prassi quotidiana?), pronti ad essere riattivati come degli zombi al momento opportuno.
Si è pensato già altre volte che il nazionalismo, le ossessioni identitarie (etniche o altro), il bellicismo, il razzismo e varie altre fobie potessero essere collocati una volta per tutte in questi scantinati o soffitte della storia, e lì, depositati come cimeli, osservati da lontano, con la sufficienza e la superiorità intellettuale di chi, venuto dopo, abbia appreso la lezione e li consideri alla stregua di reperti museali.
Niente da fare. Crisi economiche o di valori, crisi sociali e quant’altro inducono sempre schiere più o meno ampie di apprendisti stregoni a riesumare quegli oggetti “spirituali” e a farli rivivere in tutta la loro spettralità.
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Ho un problema

25aprile

Ho un problema –
(e non vorrei averne in un giorno come questo, che è l’unico dell’anno, insieme al primo maggio, che sul mio calendario è segnato in rosso, rosso sangue per la precisione).
Ho un problema –
con lo stato e con le istituzioni nate dalla Resistenza (ovviamente il problema non ce l’ho con la Resistenza).
Ho un problema con i partiti che derivano da quelli che la Resistenza l’hanno fatta (mentre con gli altri, quelli che non, non ho nessun problema, il problema semmai ce l’hanno loro).
Ho un problema con il capo dello stato.
Ho un problema con il parlamento.
Ho un problema con la magistratura.
Avrò un problema con il governo, chiunque sarà a presiederlo.
Ho un grossissimo problema con quel che rimane della sinistra.
Ho un problema con questa repubblica. E con tutti gli adulti e vaccinati che la popolano (mentre non ho nessun problema con i loro bambini, ma ce l’avrò a breve, immagino).
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Il grillo che c’è in me

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“Del resto non è difficile a vedersi come la nostra sia un’età di gestazione e di trapasso a una nuova era; lo spirito ha rotto i ponti col mondo del suo esserci e rappresentare, durato fino ad oggi; esso sta per calare tutto ciò nel passato e versa in un travagliato periodo di trasformazione. Invero lo spirito non si trova mai in condizione di quiete, preso com’è in un movimento sempre progressivo. Ma a quel modo che nella creatura, dopo lungo placido nutrimento, il primo respiro, – in un salto qualitativo, – interrompe quel lento processo di solo accrescimento quantitativo, e il bambino è nato; così, lo spirito che si forma matura lento e placido verso la sua nuova figura e dissolve brano a brano l’edificio del suo mondo precedente; lo sgretolamento che sta cominciando è avvertibile solo per sintomi sporadici: la fatuità e la noia che invadono ciò che ancor sussiste, l’indeterminato presentimento di un ignoto, sono segni forieri di un qualche cosa di diverso che è in marcia. Questo lento sbocconcellarsi che non alterava il profilo dell’intiero, viene interrotto dall’apparizione che, come un lampo, d’un colpo, mette innanzi la piena struttura del nuovo mondo”.

Potrebbe sembrare strano che per ragionare su quel che sta avvenendo in Italia a ridosso delle ultime burrascose elezioni politiche, si debba addirittura scomodare Hegel. Eppure non è casuale, dato che proprio della razionalità politica si tratta. Il celebre brano che ho trascritto sopra, tratto dalla Fenomenologia dello spirito, schizza per sommi capi quel che succede quando un mondo, un’istituzione od anche una costellazione di significati crollano, e ancora non se ne sono presentati altri con chiarezza all’orizzonte. Hegel rappresenta con linguaggio ed efficacia straordinari il senso di vertigine, di incertezza, persino di sacro terrore che accompagna tali processi.
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Armatissimi e liberissimi

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A parte la curiosa coincidenza che a ridosso del “Gun Appreciation Day” organizzato dall’NRA, un quindicenne di Albuquerque, New Mexico, abbia sterminato la famiglia manco fosse una testa di cuoio – risultano davvero curiose anche le motivazioni utilizzate dagli apologeti della pistola (o del fucile d’assalto) facile.
Ieri mattina ho ascoltato alla radio, con grande interesse, il seguente ragionamento (una vera e propria tesi di filosofia politica): così come Niccolò Machiavelli parlava degli svizzeri in termini di invidiabili cittadini “armatissimi e liberissimi” (liberi proprio in quanto armati, e dunque, si suppone, più liberi se più armati) – altrettanto i cittadini americani, per non essere sudditi ma liberi cittadini, devono rivendicare il diritto assoluto ad essere in armi. Ma attenzione, il fine esponente della National Rifle Association non dice che tutto ciò serve in prima istanza a difendersi da ladri, psicopatici, malfattori o terroristi, bensì – partendo dagli assunti machiavellici – ad istituire una figura di cittadinanza armata in grado di incutere timore al governo. Se, cioè, i cittadini non fossero armati, lo stato diventerebbe troppo potente ed invasivo, ed essi tornerebbero alla condizione di sudditi, non essendo più in grado di fronteggiarlo e contenerlo.
In sostanza, se ne potrebbe concludere che tale cittadinanza (che ricorda per certi aspetti la moltitudine di ascendenza spinozista di cui, tra gli altri, ragiona Toni Negri), sia potenzialmente insorgente – proprio perché armata – contro un eventuale potere illegittimo: pronta, dunque, a commettere un sacrosanto tirannicidio, qualora fosse necessario.
Al netto dell’eventuale malafede ideologica dell’assertore, trovo tutto questo ragionamento molto interessante – salvo per un piccolo dettaglio: non sarebbe molto più utile (se non rivoluzionario) per i cittadini essere armati, anziché di luccicanti (e lucrosissime) macchine da guerra, di un lucido e sfavillante (e pericolosissimo) pensiero critico?