I filosofi, dopotutto, non hanno fatto altro che offrirci delle immagini totali del mondo: si tratta, però, di transimmaginare.
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Sesta parola: reale
1. Realitas è termine coniato nel Medioevo e costruito sul latino res, cosa. Lo si rinviene per la prima volta nel filosofo Duns Scoto che lo utilizza all’interno di una discussione molto tecnica a proposito del problema degli universali: l’idea astratta è reale (esiste da qualche parte) o è soltanto il nome (che dunque sta solo nella nostra testa) volto ad indicare una cosa concreta?
La domanda – che cosa è reale? – potrebbe sembrare oziosa, ma vedremo che non lo è affatto.
Siamo portati a pensare che tutti sappiano bene che cosa sia reale e che cosa no: le cose che vedo e che tocco, il cibo che ingurgito, le persone e gli animali domestici con cui vivo, il lavoro che faccio – tutto questo è senz’altro reale. Ma un nome, un’idea, un sogno, un software, un simbolo, un’immagine, un ippogrifo o un drago – sono reali o no?
2. Siamo soliti contrapporre ciò che è reale ad entità inesistenti, fittizie od immaginarie, ai sogni, a ciò che è soltanto prodotto dalla nostra mente – ovvero al lato soggettivo della conoscenza (anche se tutti questi termini richiamano, per opposizione, la propria esterna ed oggettiva alterità).
C’è un oggetto proprio perché c’è un soggetto: un lato viene dato insieme all’altro, io (soggetto) conosco o percepisco qualcosa (oggetto), e questo oggetto è sempre correlato con il mio modo di intenderlo.
Ottavo (ed ultimo) lunedì: arte e bellezza oltre le scissioni
Partirò per la mia analisi da una delle scissioni fondative (probabilmente la madre di tutte le scissioni) della natura umana, cioè del nostro modo di concepire il mondo e noi stessi: l’opposizione con l’animalità.
Sta proprio qui – nell’opposizione originaria con l’animale, se si vuole il corpo stesso della nostra base biologica – il fondamento di tutta la nostra produzione culturale, spirituale, e dunque artistica ed estetica.
La mia tesi è che la maledizione della scissione – il vivere sempre come decentrati, in altro, al di là e fuori di noi stessi, come straniati – rechi con sé tanto il frutto velenoso dell’alienazione, dell’insoddisfazione, della noia e dell’angoscia, del desiderio mai sopito e realizzato (il nostro essere incompleti, mancanti, la nostra non accettazione della finitezza e della mortalità), quanto il sogno della bellezza e della perfezione.
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La piega, l’estasi, il congedo
«Il mondo è la totalità degli eventi. Un evento è ciò che accade. Gli eventi si dispongono in serie. La serie disegna la linea o la piega degli eventi. La piega ruota sempre attorno a un punto. Il punto di rotazione è il punto di vista sulla piega. Ogni piega dà vita a un punto di vista differente. Non esiste un punto di vista universale. Non esiste un centro. Il mondo non esiste: la piega è un congedo da ciò che un tempo chiamavamo il Mondo, l’Universo, il Cosmo, la Natura, il Creato…»
(Gilles Deleuze, Pourparlers)
Immagine linguaggio figura
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude…
Ho letto con molto interesse il libro di Emilio Garroni – filosofo innovativo del campo estetico in Italia, nonché scrittore e pittore – intitolato Immagine Linguaggio Figura, edito da Laterza nel 2005, poco prima della sua morte: un piccolo saggio suddiviso in brevi capitoli che, a dispetto dell’apparenza, è in realtà denso di questioni di grande rilievo, sia sul fronte conoscitivo, che su quello propriamente estetico; ed infine, anche se lasciate un po’ sullo sfondo, di ordine etico-politico. In verità, a partire dalla domanda cruciale a proposito dello statuto della percezione e di quel suo prodotto tipico che è l’immagine interna, la ricerca ha come orizzonte ben più ampio quello riguardante il nostro stesso statuto antropologico, la nostra modalità di stare al mondo e di costruirci un’idea totale del mondo.
Si potrebbe tranquillamente dire che il tentativo non dichiarato dell’autore sia quello di promuovere una vera e propria metafisica della percezione (nonostante l’espressione suoni quasi come un ossimoro), cioè una riconduzione della nostra facoltà linguistica (e dunque teoretica, astratta, metaoperativa, metaoggettuale, e quant’altro) alla sua ineludibile base percettiva. Senza per questo cedere a ingenui riduzionismi o a facili schemi causali – alternative estreme tra soggettivismo e oggettivismo, nominalismo e realismo, o antiche scissioni tra anima e corpo, spirito e materia, mente e cervello, e così via.
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Affabili pensieri
Di tanto in tanto, nelle mie quotidiane passeggiate là dove la cintura urbana si sfalda per diventare bosco, mi ritrovo a pensare a questo o a quello, un po’ a casaccio – non mi è chiaro se tali pensieri svolazzino attorno e finiscano per appollaiarsi sulle mie spalle o se si limitino a turbinare placidamente nel mio cervello. C’è qualche filosofo della mente che accampa in proposito teorie che potremmo definire “estensioniste”: la nostra mente non sta nel cervello e nemmeno nel corpo ma è tutt’uno con l’ambiente del quale siamo parte.
Lasciando perdere tali quisquilie, mi ritrovo anche a pensare a certe stranezze della nostra epoca: non ho ad esempio ancora ben capito quali trasformazioni sociali ed antropologiche finirà per indurre la avviluppante e labirintica e onnipresente (e spesso appiccicosa nonché soffocante) “rete” nelle nostre menti-ambiente e relazioni. Al di là di una certa dose di casualità, l’incontro con altri umani è sempre stato regolato soprattutto dai contesti sociali, urbani e produttivi: villaggi, campagne, città, mobilità, viaggi, emigrazioni, ecc. – si trattava di contorni piuttosto definiti del mondo delle relazioni possibili. Entro questi contesti giocavano poi, certo, anche gli elementi psicologici individuali. La nostra però è l’epoca “liquida” per eccellenza. Quando su un celebre social network (né più né meno che una piazza virtuale) come facebook i contatori automatici dei contatti segnano numeri come 300 o 1000 o 3000 “amici”, c’è qualcosa che mi sfugge, sia nel numero che nel termine utilizzato.