Filosofie della storia – 3. Nuovi mondi: le Americhe, l’Oriente. “Selvaggi” e civilizzati

[traccia dell’incontro del gruppo di discussione filosofica del 16.01.2023]

Questo e il prossimo si possono considerare un unico incontro da suddividere in due puntate: tratteremo dell’istituirsi, con la modernità occidentale a partire dalla fine del XV secolo, di quella visione geostorica che via via si allargherà all’intero globo terracqueo, e che darà luogo ad una vera e propria filosofia della storia occidentale, tra Illuminismo ed epoca dell’ascesa della borghesia industriale. L’arco che ci interessa va dunque dalla “scoperta” dell’America di Colombo fino al Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels, un arco di 350 anni il cui processo condurrà fino alla globalizzazione del tardo Novecento – e alla sua crisi negli anni ‘20 del XXI secolo.
Se nello scorso incontro ci siamo concentrati su alcuni elementi fondativi della visione storica occidentale, in particolare per quel che riguarda la temporalità e la visione “progressiva” e diveniente, ci concentreremo ora sullo spazio, ovvero sugli aspetti geografici, geostorici ed antropologici – elementi che confluiranno, tra l’altro, nella visione geopolitica contemporanea.
L’annuncio di quest0 nuovo mondo è ben testimoniato dal filosofo inglese Bacone, che vede con acume visionario nelle vele e nei cannoni – e più in generale nella tecnica – i soggetti principali di una epoca di grande trasformazione: vele e cannoni viaggiano su mari e oceani, ed è proprio questa la chiave di volta di un’accelerazione temporale della storia e di un suo allargamento spaziale come mai prima nella storia umana.

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Filosofia della leggerezza

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Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini,
avrà spostato tutte le pietre di confine;
esse tutte voleranno in aria per lui,
ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola
– “la leggera”.
(F. Nietzsche)

PRIMA PARTE – IL PENSIERO DELLA LEGGEREZZA

«Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite».

Italo Calvino scrive queste parole durante l’estate del 1985, poco prima di morire – parole che si possono ritenere un lascito, un vero e proprio testamento culturale.
Si trovano nella prima delle sei Lezioni americane, quella dedicata alla “Leggerezza”, e ritengo possano ispirare il discorso che vorrei articolare a proposito del passaggio (o se si preferisce della dialettica) tra gravità e leggerezza. Calvino sembra qui alludere ad una visione millenarista, uno snodo epocale, augurandosi che la ruggine materiale e spirituale del Novecento venga abbandonata al suo destino, e auspicando un salto nella dimensione di una categoria – la leggerezza – che va meglio chiarita.

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Senza cuciture

«Quando nel linguaggio corrente parliamo di amici e amicizie, in realtà alludiamo a frequentazioni e dimestichezze, allacciate o per un caso fortuito o per una qualche utilità, per mezzo delle quali le nostre anime comunicano. Nell’amicizia di cui parlo io le anime si mischiano e si confondono l’una nell’altra, compenetrandosi in modo così completo da cancellare e non trovare più traccia della cucitura che le ha unite. Se qualcuno si ostinasse a chiedermi perché lo amavo, sento che per spiegarlo non potrei rispondere altro che: Perché era lui, perché ero io».

(Montaigne, Essais, I, 27)

Il volto e il corpo dell’altro – 2. Stranieri, xenìa e homo migrans

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“Straniero” è parola che viene dal latino extraneus, che sta per esterno, esteriore, di altri. Medesima origine ha l’aggettivo “strano” (che invece in latino era reso dalla parola novus, nel significato di insolito) – convergenza ed assonanza che dovrebbe far riflettere.
Lo straniero è così ciò che sta fuori dei confini (familiari, nazionali, etnici, culturali, linguistici, ecc.) e che è affetto da stranezza, diversità, non familiarità. È l’estraneo che provoca turbamento.
I greci avevano invece coniato una parola – “barbaro” – che definiva lo straniero come colui che non parla la lingua greca, che letteralmente “balbetta” (bàrbaros è parola onomatopeica).
Molto diverso – e altrettanto interessante – il significato della parola greca xénos, che sta sì a designare l’altro-straniero (addirittura il nemico, come in Omero), ma con sfumature molto ampie che ricomprendono anche la figura dell’ospite: xenìa indica infatti il vincolo di reciproca ospitalità. Quasi che in questa parola si accenni alla condizione universale di estraneità che può colpire in qualsiasi momento gli umani costretti a lasciare, per qualsiasi ragione, la loro casa, la loro terra, il loro paese, e che trovano confortante l’idea che da qualche parte ci sia uno straniero-ospite pronto ad accoglierlo (molto interessante a tal proposito l’ambivalenza della parola “ospite”, che indica sia il soggetto che ospita che quello ospitato).

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Luce insolita

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«Infatti non vedo la totalità di alcunché. Né riescono a vederla coloro che promettono di mostrarcela. Di cento membra e volti che ciascuna cosa possiede, ne scelgo uno, talora per lambirlo soltanto, talora per sfiorarlo, e a volte per arrivare fino all’osso. Do una stoccata per penetrarvi non il più ampiamente ma il più profondamente possibile. E mi piace per lo più coglierlo in una luce sempre insolita» (Montaigne, Saggi, I, 50, 490)

Seduti sul nostro culo

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«Saper godere del nostro essere così com’è è una forma di perfezione assoluta, e quasi divina. Noi cerchiamo condizioni diverse perché non siamo capaci di fare buon uso della nostra, e usciamo fuori di noi perché non sappiamo vedere quel che c’è dentro. Se pure saliamo sui trampoli, dovremo comunque camminare con le nostre gambe. E anche sul più alto trono del mondo saremo sempre seduti sul nostro culo».

È questo un quasi-testamento di Montaigne, posto com’è a conclusione dei suoi Saggi, e con cui sembra dirci che è meglio vivere «senza mirabilia e senza stravaganze» (queste le espressioni da lui usate) – cioè in una condizione piuttosto anti-filosofica e anti-straniata. In sé, non fuori di sé – che è quasi un senza sé. Essere confuso con-essere. Filosofare è allora piuttosto ritornare dal viaggio straniante di una vita, al punto di partenza, al grembo naturale – pur sapendo che quel grembo e quella natura non sono più innocenti, edenici, intoccati.
Tuttavia ripiombare di tanto in tanto col culo a terra non può che farci bene…

Una compenetrazione di anime

«Quando nel linguaggio corrente parliamo di amici e amicizie, in realtà alludiamo a frequentazioni e dimestichezze, allacciate o per un caso fortuito o per una qualche utilità, per mezzo delle quali le nostre anime comunicano. Nell’amicizia di cui parlo io le anime si mischiano e si confondono l’una nell’altra, compenetrandosi in modo così completo da cancellare e non trovare più traccia della cucitura che le ha unite. Se qualcuno si ostinasse a chiedermi perché lo amavo, sento che per spiegarlo non potrei rispondere altro che: Perché era lui, perché ero io» (M. Montaigne, Saggi, I, 27)

[Il lui a cui si riferisce Montaigne, è Étienne de La Boétie, amico che ricalca alla perfezione la definizione aristotelica di heteros autos, l’amico come altro se stesso]