Les feuilles mortes

La mia e l’altrui morte…
Pensavo ieri sera – mentre vedevo cadere tutt’attorno foglie morte o morenti, ovvero quel fenomeno naturale ciclico detto apoptosi – che non c’è alcuna ragione di avere paura della propria morte. Che la mia morte è semplicemente una meta, un approdo, un porto sicuro, a voler ben vedere l’unica sicurezza che abbiamo, dopo quella di esser nati. E che il dramma, semmai, sta nel mezzo, nei segmenti dolorosi di quel viaggio, nel segmento più doloroso di tutti che è la decadenza, la malattia, di nuovo l’apoptosi, la perdita di sé. E che la morte è un bene rispetto a tutti questi mali prima o poi inevitabili, ne è la naturale soluzione.
Tutt’altro discorso riguarda invece la morte degli altri, dei propri cari, degli amici, di coloro che si amano. Questa sì che fa paura, perché non la si percepisce affatto come una meta, ma come una sottrazione, un taglio secco di legami inestricabili, la più atroce ed insopportabile delle amputazioni. La mia morte, la meta che mi attende, impedisce che si compia la mia dissoluzione, mi lascia paradossalmente integro, salvo che ci si voglia accanire conservando una forma di vita invivibile – laddove l’altrui morte ci annienta prima del tempo.
Pensieri tetri e insieme leggeri, come le foglie che cadono.

“L’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte”

(traccia dell’incontro del Gruppo di discussione filosofica del 10 gennaio 2022)

Nonostante Canetti dica in maniera tranchant che la filosofia non ha nulla a che spartire con la morte (semmai la religione), fin dagli inizi i filosofi non hanno fatto altro che misurarsi con la morte e la finitezza umana. Lo hanno fatto nelle maniere più diverse: sostenendo che meditare la morte sia utile al fine di prepararsi ad affrontarla, oppure che sia meglio non pensarvi affatto e rimuoverla dal nostro animo, oppure identificandola come il senso profondo dell’esistenza umana. Ho individuato 7 filosofi (meno uno che non lo è di professione) per 7 idee sulla morte, che ci danno conto di questa varietà di vedute e di sensibilità. Il primo paradosso è che sette morti ci dicano qualcosa sulla morte – e la dicano proprio a noi che non potremo mai saperne nulla, essendo vivi. Per ora. La morte è una soglia che sfugge del tutto alla nostra comprensione.

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“La morte, stratagemma per ottenere molta vita”

XAM66129 Death and Life, c.1911 (oil on canvas) by Klimt, Gustav (1862-1918); 177.8×198.1 cm; Private Collection; Austrian, out of copyright

(traccia dell’incontro del Gruppo di discussione filosofica del 13 dicembre 2021)

Ci sono due modi fondamentali di considerare la morte: diciamo, per semplificare, uno oggettivo ed uno soggettivo. Il primo guarda la morte da lontano, come un fenomeno naturale, nel suo intreccio necessario con la vita e con il variare delle sue forme (ciò di cui ci siamo occupati la volta scorsa). È un guardare la morte come se non ci riguardasse: è una finzione consentita proprio dalla nostra facoltà cognitiva, dalla capacità di astrarre. Anche dal modo di funzionare della coscienza, dalla sua capacità di duplicazione – di scindere se stessa dal mondo, io dal non-io. In verità è un atteggiamento tipico della filosofia, ereditato poi dalla scienza nell’epoca moderna. Vedremo stasera come la filosofia degli inizi, in particolare quella dei presocratici, si occupò della morte in questi termini, come un elemento dialettico del divenire e dei processi naturali.
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Leggerezza

La “leggerezza” di cui parla il nostro primo concittadino ammesso ad usufruire del diritto – sancito dalla Corte costituzionale, ma non da un pavido Parlamento – di suicidio assisitito, non è certo una forma di leggerezza “leggera” o frivola. Ed anche la leggerezza che sento io, insieme a molte altre persone – e che in teoria dovrebbero sentire tutti – è una leggerezza pensosa. Come quella di cui parlava Calvino.
È piuttosto la liberazione da un vicolo cieco nel quale la società ipertecnologica e medicalizzata, che pure ci allunga la vita, ci fa talvolta finire. Perché occorrerà pur decidere qual è il confine tra corpi e macchine – o tra coscienza e tecnica. E se ciò che un tempo si diceva “naturale” sia definitivamente sussunto sotto la specie “culturale”.
So anche che esistono cose e casi indecidibili in etica – com’è possibile decidere una buona morte per qualcuno che non può nemmeno comunicarci la sua intenzione? La stessa autodeterminazione e sacrosanta indisponibilità a delegare ad altri (medici, stato, preti) il proprio destino biologico, non può non tener conto della rete sociale, amicale, affettiva nel quale si è da sempre implicati. La vita è appiccicosa, ma la morte è quanto di più solitario ci sia.
Ma per tornare alla leggerezza: c’è nella morte una sorta di “leggiadria del disfacimento”, per usare una modalità espressiva tipica di Lucrezio, che dovrebbe stornare dai nostri occhi il terrore, e lasciarci sereni e sazi di giorni. Pietosi verso l’altro che muore, che anticipa la nostra stessa morte.

Covid, scienza, filosofia

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Tra le molte fratture createsi nel corso della Pandemia da Covid-19, c’è anche quella tra scienza e filosofia. In verità si tratta di una ruggine antica, nonostante i buoni propositi di parte degli scienziati e parte dei filosofi affinché si stabiliscano spazi di dialogo anziché di divaricazione. Ma il Covid sembrerebbe aver spazzato via anche queste buone intenzioni, tanto più che di fronte al virus appare dominante sulla scena l’apparato tecnoscientifico. “Ci pensiamo noi”, col sottinteso “è meglio se voi state zitti” – questo sembra lo slogan ricorrente, insieme all’erezione del rigore dei dati e delle evidenze come unico strumento valido non solo ad affrontare praticamente ma anche a comprendere l’epidemia.
Ora, è chiaro che i filosofi – mi riferisco in particolare a quelli nostrani, nella fattispecie alle filostar – non hanno brillato in questi 20 mesi. D’altro canto la logica concorrente è stata quella delle nascenti e performanti virostar, ed evidentemente non c’era gara.
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Interdetto sulla morte

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Ho appena riletto La morte di Ivan Il’ di Tolstoj, dopo aver scoperto un piccolo scritto di Sciascia intitolato “La medicalizzazione della vita”, contenuto nella raccolta Cruciverba, edita da Einaudi nel 1983.
Sciascia ne parla a proposito della propria esperienza vissuta di un passaggio cruciale del Novecento, che ha avuto ritmi diversi a seconda dei luoghi e dei contesti culturali, ovvero “il ricordo del passaggio da un’idea della morte all’interdetto sulla morte” – e paragona questo passaggio a quello dal lume a petrolio alla luce elettrica, quando aveva provato un vero e proprio senso di inondazione.
La medicalisation de l’idée de la vie è evocata dal medievista francese Philippe Ariès, e Sciascia la vede realizzarsi in Sicilia tra gli anni ‘30 e ‘40 – così come ne vede i primi chiari segni proprio nel racconto di Tolstoj (la stesura definitiva è del 1886). Sono due gli elementi essenziali su cui vorrei qui riflettere: in primo luogo questa nuova figura dell’interdetto sulla morte che nel racconto si presenta fin nelle prime pagine, con il sentimento di fastidio provato dai sopravvissuti (in primis dalla moglie del protagonista) nei confronti di quella morte che aveva osato incrinare l’ordine e il decoro borghese; e in secondo luogo sulla sovrapposizione delle figure del giudice e del medico.
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(Ir)rilevanza

Uno dei cortocircuiti di quest’epoca schizofrenico-pandemica, è la percezione della rilevanza statistica. Questione tipica ed annosa delle società di massa, che però ha raggiunto ora vertici parossistici.
Da una parte ci si dice che ogni vita ha valore, e che dunque quella che Canetti definiva come scandalosa “conta dei morti”, è inaccettabile. Dall’altra si sente il ritornello della ricorrenza statistica e del rischio calcolabile, e della comparazione dei rischi – com’è ad esempio il caso della vaccinazione di massa (in particolare nel caso del Covid, ovvero di una sperimentazione di massa senza precedenti nella storia).
La nostra è una società essenzialmente fondata sul valore del singolo, che viene prima del collettivo – salvo scoprire che è solo un collettivo brutale a proteggere il singolo dalle crisi estreme, come abbiamo di recente sperimentato.
Dunque, sentire che si è comunque un numero, una probabilità, una ricorrenza statistica genera un profondo malessere – soprattutto quando la ricorrenza non è astratta, il “prossimo”, ma sono io o uno dei miei cari.
Occorre infine ricordare che è nella natura delle società di massa essere trattate come “popolazione” – ce lo ricorda Foucault – e che dunque “io” sono uno dei numeri e delle variabili della popolazione, né più né meno. E che una pandemia – da questo punto di vista – non uccide dei singoli, ma modifica le statistiche demografiche, abbassando l’aspettativa di vita.
Infine, elemento più brutale e duro da accettare: in quanto nati (e finiti e fragili e limitati) siamo sempre esposti al rischio, a prescindere dalla sua calcolabilità, prevedibilità, e da tutte le strategie protettive o di profilassi messe in campo – anche nel più efficiente degli stati sociali. Siamo mortali. Destinati a morte certa. Inutile rimuoverlo.

Le parole del contagio

La morte – come da un’alta vetta –
riformula i criteri di giudizio
e ciò che non credemmo
ora scorgiamo chiaro
(Emily Dickinson)

«Non ho visto, pertanto, nient’altro da fare che provare, come chiunque altro, a sequestrarmi a casa mia e nient’altro da dire che esortare chiunque altro a fare lo stesso», così scrive Alain Badiou.
E alla domanda: “Che cosa possiamo imparare dal virus?”, Massimo Cacciari risponde seccamente: Nulla. A stare fermi un po’. Cosa volete imparare? Basta con questa retorica che dalle difficoltà si esce migliori. Il nostro cervello è lo stesso di 100.000 anni fa…

Qualcuno si sarà senz’altro chiesto che cosa può dire o fare la filosofia di fronte ad un evento come quello che stiamo vivendo, così violento e inaspettato (uno dei problemi è anche quello della sua definizione e qualificazione). Hanno ragione Badiou e Cacciari: la filosofia non può nulla. La filosofia non può modificare il corso degli eventi, la filosofia non può prevenirli, la filosofia non può nemmeno consolare gli animi. Ciò che forse può fare la riflessione filosofica è aiutare le menti ottenebrate degli umani a vedere con maggior chiarezza quel che hanno davanti (o sotto i loro piedi o alle loro spalle o dentro di loro), anche se in un senso radicalmente diverso da quello della scienza. Ecco, la scienza può provare a prevenire, modificare, curare, salvare (anche se non è detto che ci riesca), la filosofia no. La religione può provare a consolare, confortare, rasserenare, ma non la filosofia. Compito della filosofia è solo quello di dire il vero, o di provarci. La verità, una parola che può anche svelare cose che non vorremmo né vedere né sapere.
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7 parole per 7 meditazioni – 3. Morte

Per gli uomini che son morti sono pronte cose che essi non sperano né immaginano.

Il frammento di Eraclito, da alcuni interpreti ritenuto oscuro, a me pare invece sia leggibile come una critica radicale al modo tradizionale di intendere la morte – soprattutto alla modalità mitico-religiosa, e non illuminata dal logos, l’unico piano che ci rende comprensibile (se non accettabile) la morte: gli uomini, allora, non potranno aspettarsi premi, castighi o vite immaginarie oltre la morte. Non c’è niente oltre la morte – c’è solo qualcosa oltre la vita, questa vita, non un’altra.
L’unica prospettiva possibile (prefigurabile ma non descrivibile con chiarezza) è quella della metamorfosi e della ricongiunzione con la physis, la natura. La soglia della morte porta dunque a una dissoluzione che, forse, allude ad una ricomposizione – ad un un vero e proprio mutare dialettico di forme: questo sembra il punto di vista di Eraclito, al di là dell’oscurità del suo dire.

Fatta questa premessa, il problema della morte – dell’angoscia che genera e della sua accettazione – è senz’altro uno dei temi-cardine della filosofia, fin dalle origini, in continuità, ma anche in difformità, con il discorso religioso: ovvero, se la religione (ma più in generale tutto l’apparato spirituale, mitico, culturale, rituale) appare come un grande dispositivo per gestire il fenomeno della morte, la filosofia lo fa attraverso l’unico strumento di cui dispone, ovvero il logos, la ragione.
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Spettri digitali

[avevo cominciato a scrivere questo post, a metà tra la recensione e la riflessione, un anno fa, subito dopo aver letto il bel libro di Davide Sisto, filosofo e “tanatologo”, come lui stesso ama definirsi; lo riprendo e concludo in questi giorni, mentre mi dedico ad una meditazione sulla morte, nonostante il divieto spinozista, in vista del prossimo incontro del gruppo di discussione filosofico – al centro del quale ci sarà Il libro contro la morte di Elias Canetti]

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Lo psichiatra Eugène Minkowski sostiene che la morte è il suggello della vita, ciò che dà senso alla biografia, altrimenti sfilacciata e insensata  (Pasolini parlava della morte come  di un “fulmineo montaggio”): è a partire da questa angolazione apparentemente paradossale – oltre che dalla considerazione di una epocale rimozione della morte – che Davide Sisto avvia la sua interessante analisi sulla nuova configurazione del rapporto morte/vita (morti/sopravviventi dolenti) nell’epoca dei social, di Facebook e di Instagram.
Facebook, in particolare, col suo dilagare dalla vita on line a quella off line (e viceversa), sembra quasi orientare questo elemento ri-costruttivo della morte: proprio perché si è degli spettri digitali lo scopo è una narrazione il cui senso sia dato dalla morte a venire, dal compimento. Ma, vien da aggiungere, la stessa vita viene ri-orientata e riplasmata da questo perenne montaggio virtuale.
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