Si va sempre più diffondendo una narrazione falsa, artatamente costruita (così come questa fake-cover della rivista National geographic) a proposito di una fantomatica quanto pianificata sostituzione etnica (degli italiani, degli europei, dei bianchi, dei cristiani, ecc.). In realtà, più che di un presunto piano della plutocrazia (o dei “poteri forti” o della solita cricca ebraica) per la sostituzione etnica, occorre parlare di un processo in corso per la sostituzione sociale (se si vuole, della dignità sociale, visto il ritorno di moda di questo termine, senza però specificare cosa sia degno, quale lavoro, quali consumi e, soprattutto, quale vita).
Fin dagli anni ’80, ovvero dal chiudersi del ciclo di lotte operaie seguite al boom economico, si è aperta una fase di sostituzione dei processi produttivi e di integrale asservimento della forza lavoro (e del tempo sociale) alle logiche del profitto. Vi è stato, cioè, il compiersi di quella sostituzione antropologica profetizzata da Pasolini – da popolano a consumatore, da lavoratore-soggetto a sottomesso-assoggettato, flessibile e precarizzato, da uomo (e donna) nuovi, sociali, politicizzati a cliente privato di servizi privati, da attore a spettatore dei processi, e così via.
Anche lo stato sociale (largo e universale nei ’70) è stato sostituito da un welfare sempre più dimagrito e minimo e via via privatizzato: l’accesso alla sanità, alla scuola, all’università, alla mobilità, alla cultura viene facilitato per chi ha più reddito – qui le tutele sono decrescenti.
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Tag: neocolonialismo
La razza dei poveri
“Un tempo spezzavamo loro le reni, oggi le braccia”, così Radio Popolare di Milano stamattina, a ricordarci che c’è un passato coloniale rimosso in tutto quello che sta succedendo: gli sgomberati del palazzo di via Curtatone di Roma sono infatti etiopi ed eritrei, discendenti di quelli che un tempo gasavamo e schiavizzavamo. E non è certo bastata la carezza da “italiani brava gente” a edulcorare la nuda e cruda realtà: la testa calva di Minniti ricorda troppo quella del mascellone che sognava l’impero africano. E gli ordini che la polizia riceve sembrano ormai i tweet di Salvini – “Forza ragazzi: sgomberi, ordine, pulizia ed espulsioni, gli italiani sono con voi”. Io no, non sono con voi. Mi dissocio da questa volgare rievocazione degli anni ’30, dal clima da Manifesto della razza e da caccia ai poveri.
E se gli altri poveri e fragili, quelli con in testa lo slogan “prima gli italiani” (coniato dai privilegiati e da quelli che hanno il culo ben attaccato alla poltrona) avessero un briciolo di ragione, non ci cascherebbero e saprebbero da che parte stare e proverebbero a ripartire da quell’antica cosa chiamata solidarietà.
Migranti di tutti i paesi, unitevi!
La “questione migranti” (e/o profughi) revoca in dubbio in maniera radicale il senso stesso della comunità politica (sia essa europea, nazionale o transnazionale). Non solo: revoca ognuna delle questioni – politiche, sociali, economiche, antropologiche, etiche, simboliche.
Proverò ad allinearle per sommi capi, in un quadro sintetico e non certo esaustivo. Una sorta di promemoria, di memorandum (o meglio, di contromemorandum).
È però necessaria una premessa volta a sgombrare il campo da un equivoco linguistico (la lingua, com’è noto, non è mai neutra). Distinguere tra profughi e migranti, come se solo i primi fossero investiti da un’emergenza umanitaria, è del tutto insensato: ogni migrante è un pro-fugo, un umano, cioè, che cerca scampo, in fuga da una situazione che percepisce come pericolosa se non mortale per sé e i propri cari – siano esse guerra, scarsità di cibo, avversità climatiche, mancanza di libertà/possibilità. Gli umani sono animali costituenti la propria possibilità di vita – è questo il senso profondo del concetto aristotelico di zôon politikòn – e ogni qualvolta tale possibilità viene chiusa o negata, essi hanno necessità vitale di riappropriarsene – in qualunque altro luogo e modo.
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