Filosofia della leggerezza

magritte

Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini,
avrà spostato tutte le pietre di confine;
esse tutte voleranno in aria per lui,
ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola
– “la leggera”.
(F. Nietzsche)

PRIMA PARTE – IL PENSIERO DELLA LEGGEREZZA

«Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite».

Italo Calvino scrive queste parole durante l’estate del 1985, poco prima di morire – parole che si possono ritenere un lascito, un vero e proprio testamento culturale.
Si trovano nella prima delle sei Lezioni americane, quella dedicata alla “Leggerezza”, e ritengo possano ispirare il discorso che vorrei articolare a proposito del passaggio (o se si preferisce della dialettica) tra gravità e leggerezza. Calvino sembra qui alludere ad una visione millenarista, uno snodo epocale, augurandosi che la ruggine materiale e spirituale del Novecento venga abbandonata al suo destino, e auspicando un salto nella dimensione di una categoria – la leggerezza – che va meglio chiarita.

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Apologia (sonora) della notte

Mi ha sempre affascinato (e un po’ inquietato) la chiusura della Settima Sinfonia di Mahler: una poderosa, talvolta chiassosa e triviale ascesa verso la gioia più luminosa, che prima di assestare il colpo finale dell’orchestra evoca un’ombra sonora su tutte le cose, come a dire: non illudetevi, c’è luce e gioia, ma le tenebre e il dolore incombono, e con ogni probabilità saranno loro a dire l’ultima parola!
Del resto questa è la sinfonia mahleriana più “notturna”: sono ben tre le sezioni dedicate alla notte – le due Nachtmusiken (secondo e quarto movimento) che circondano lo Scherzo centrale, una danza macabra e grottesca, un vero e proprio sabba nel cuore della notte – che per certi aspetti è il vertice della sinfonia. Il primo movimento era stato un crescendo funesto e funebre (connesso senz’altro all’andamento emotivo della precedente sinfonia, la “Tragica”). Poi la lunga notte. Ed infine l’incedere della luce, che però richiama inevitabilmente l’ombra sul finale.
Nulla di nuovo nella concezione sinfonica mahleriana, che è essenzialmente dialettica, e che intreccia vita e morte e tutte le contrastanti e divenienti forme dell’essere: dalla Terza – sinfonia della creazione e della metamorfosi, dove la Natura sta ancora al centro della scena – fino alla Nona e a Das Lied von der Erde, i grandi canti del cigno, del congedo e della dissolvenza.
Ma torniamo alla notte: proprio mentre mi preparavo ad un nuovo ascolto della Settima sinfonia all’Auditorium di Milano, diretta dalla bravissima Zhang Xian, mi è capitato tra le mani un piccolo libro intitolato Elogio alla notte, un “inno a occhi socchiusi” di Claudio Marucchi.
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Psicosofie estive – 7. Repetita iuvant

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Già una volta mi ero meritato le lucciole.
Però non credevo che una cosa del genere si sarebbe potuta ripetere.
Certo, non è mai la stessa cosa. Trattasi degli ossessionanti indiscernibili leibniziani: perché mai dovrebbero esistere due cose identiche?
E di fatti: niente lucciole, tre anni di più, una maggiore stanchezza che grava sulle membra accaldate e sprofondate nella sedia a sdraio, qui sul balcone. Il crepuscolo promettente in arrivo non è sufficiente a farmi muovere.
Poi succede che… quel refolo d’aria fresca… quella striscia rosata di una certa nuvola… quel battito d’ali delle mie due amiche nottole… insomma, un concorso di banali concause, ed ecco che, come un automa, mi trovo catapultato sul solito viottolo di campagna, al limitar del bosco.
Se non altro, è fresco. Lo percorro mentre la luce si disfa e le tenebre faticano a prenderne il posto.
Decido che è meglio tornare, sto già crollando, e poi domattina… d’un tratto la vedo: ma quella? possibile che lei sia lì per me? quella forma, quella rotondità (invero smussata, anzi smangiata), quel suo sporgere inaspettata dalle robinie nerastre, quel colore inaudito: una lampada accesa sulla linea dell’orizzonte…
E così i pensieri si accendono dello stesso colore; la frase, scurrile, che si presenta è «ma che cazzo di dèi adorano gli umani, se io sono l’unico inginocchiato qui, su questo sentiero polveroso?».
E allora decido di farlo: ma non è un ululato, è un urlo che mi squassa il petto, e che spero squassi anche l’aria e la distanza che corre tra me e lei. Lei che, ne son sempre più certo, stava lì ad aspettarmi. Con quella faccia rosarancio mai vista, là dietro l’intrico dei rami e i profili scuri dei vegetali dai quali vorrebbe liberarsi. E sopra i quali, tra poco, sorgerà.
Mi spolvero le ginocchia e mi sovviene un ultimo pensiero: però qualcuno degli amici e delle amiche, qualcuno tra i viventi o tra gli essenti di questo pianeta, una qualunque anima sperduta come la mia, l’avrà pur notata, e come me si sarà inginocchiato ad adorarla e magari le avrà pure urlato qualcosa, o si sarà limitato ad accarezzarla, o a sognarla o… o a immaginarne forma e colore, come Kandinsky.
Lui, la luna e quei cerchi.
Segni e graffi, sulla tela nera ed immensa di questa notte muta e senza stelle.