Dio-candela

«Sappi che se cerchi in qualche modo il tuo utile, non troverai mai Dio, perché non cerchi soltanto lui. Tu cerchi qualcosa insieme a Dio, proprio come se facessi di Dio una candela con cui cercare qualcosa – quando si è trovata la cosa, si getta via la candela. Quel che cerchi insieme a Dio è il nulla, qualsia cosa sia – utile, ricompensa, interiorità, o che altro: tu cerchi il nulla, e perciò trovi il nulla. Che tu trovi il nulla, dipende solo da questo: che tu cerchi il nulla».

[Meister Eckhart]

Sull’insensatezza (e Bartleby)

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[Mi ero fatto alcune domande a proposito dell’insensatezza, tempo fa. Ne ho ritrovato traccia in quel che segue, una bozza rimasta chiusa a lungo in uno dei tanti cassetti virtuali del blog. E ripescata in seguito al rinvenimento della metafora della “catasta del significato”. Poi, in un altro cassetto, è saltato fuori l’inizio di un commento alla lettura di Bartleby lo scrivano di Melville. Non che la relazione tra i due frammenti costituisca di per sé un antidoto all’irrelatezza quale ingrediente essenziale dell’insensatezza, anche perché apparirebbe piuttosto come giustapposizione posticcia, gioco intellettualistico di rinvii; mi piace tuttavia considerarla come l’avvio di una riflessione organica – aiutata da sei giorni di passeggiate nella mia isola – sul concetto di relazione. Senza il quale nulla avrebbe senso. E il nulla, semplicemente, dilagherebbe]

Quando diciamo che una cosa è insensata? Che cos’è la mancanza di senso? Da che cosa viene originata?
Innanzitutto credo che l’insensatezza vada distinta dall’irrazionalità o dall’illogicità. Si tratta di situazioni diverse. Una cosa può essere insensata, ma non per questo irrazionale; a tal proposito ho qualche dubbio sul fatto che esista qualcosa come l’irrazionalità. Penso anzi che non vi sia nulla di irrazionale, se per irrazionale intendiamo ciò che non ha ragioni, dunque cause precise del suo esserci. Del resto non dico nulla di nuovo, già l’aveva sostenuto Hegel con la faccenda del reale-razionale.
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Guardando questo nulla

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“Guardando questo paesaggio, e questo nulla, ho capito che nel presente non c’è niente che meriti d’essere raccontato. Il presente è rumore: milioni, miliardi di voci che gridano, tutte insieme in tutte le lingue e cercando di sopraffarsi l’una con l’altra, la parola «io». Io, io, io… Per cercare le chiavi del presente, e capirlo, bisogna uscire dal rumore: andare in fondo alla notte, o in fondo al nulla”.

[Sebastiano Vassalli]

L’atroce gorgo del nulla

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È un racconto tra i più belli che abbia mai letto, questa Schachnovelle di Stefan Zweig: non solo per la costruzione formale, peraltro riuscitissima (l’autore ci tiene incollati dalla prima all’ultima riga), ma anche per la particolarissima convergenza di temi. Si potrebbe pensare che il gioco degli scacchi sia un pretesto, ed in parte lo è – anche se nell’economia del racconto costituisce il filo conduttore, dal principio alla fine. Ma nella narrazione, sospesa e misteriosa e beccheggiante (tanto più che ci troviamo su un piroscafo) si inserisce una seconda narrazione, un racconto nel racconto, che costituisce in realtà il nucleo essenziale della novella.
Ed è proprio questo controracconto a precipitarci inesorabilmente nel gorgo terribile nel nichilismo nazista, e poche altre volte credo sia stato descritto in tal senso – nichilismo allo stato puro – con tale precisione.
Il dottor B., l’insospettabile sfidante della gara di scacchi che si svolge febbrilmente sulla nave, sta fuggendo dalla sconvolgente esperienza di prigionia che gli è occorsa non già in un campo di concentramento, bensì in un albergo di Vienna: egli non è un perseguitato politico o un soggetto col triangolo sulla casacca da internare, ma un agiato borghese austriaco recluso per di più in un albergo lussuoso, che viene messo sotto torchio dalla Gestapo che vuole arraffare l’ingente bottino finanziario e bancario (specie ebraico), all’indomani dell’Anschluss austriaca.
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Se smonti questa classe qualcosa rimane sempre

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Sono ormai 8 anni (più o meno) che filosofo con i bambini.
E ogni volta non finisco di sorprendermi e di ringraziare gli dèi (in particolare quelli greci) e di esultare (discretamente, tra me e me) per le ore passate a veder scintillare quegli occhi e per aver ascoltato modi inauditi di dire cose antiche di millenni.
Qualche mattina fa, ad esempio, in sole 3 ore mi è passata davanti mezza storia della filosofia, senza che io nominassi un solo filosofo o una sola teoria filosofica. È bastato domandare, che dalle loro menti e bocche è uscito di tutto (ed anzi, una rigorosa comprensione del concetto del tutto):
-Eraclito (“ogni cosa cambia”)
-insieme a Parmenide e all’anànke, la ferrea necessità che incatena le cose (tutto è “tutto quello che c’è”, “non manca niente”, ma, soprattutto, “non ci può essere nient’altro” – qualcuno ha usato l’espressione “è troppo”)
-l’atomismo di Democrito (noi siamo polvere, particelle, “qualcosa che non può essere più piccolo, e che quindi è invisibile”)
-la sostanza di Spinoza, descritta con l’incredibile metafora del pongo, attraverso cui tutte le cose prendono forma
-l’idea hegeliana: se togliamo di mezzo e smontiamo questa classe resterà comunque qualcosa (visto che il nulla non esiste), sì, ma che cosa? Ovvio: la sua “forma” o “struttura”
-il nous (intelligenza) di Anassagora, descritto come “progetto” o “prototipi”
-persino il dibattito medievale tra nominalisti e realisti: come nascono i nomi?
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“Nella filosofia ho camminato così, per strade non dritte”

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Un filosofo di cui non so nulla (tranne del suo sodalizio con Battiato) e di cui non ho mai letto nulla (tranne i testi delle canzoni tra cui, bellissima, svetta La cura). Ed è proprio il nulla – lo sfacelo, la disgregazione emotiva postbellica, la destructio e le rovine di cui parla nella frase che riporto qui sotto, tratta dalla sua ultima intervista – che magari, prima o poi, mi farà incrociare qualche suo scritto. Non lo andrò a cercare, diciamo che dovrà capitare – anch’io, come lui, “devoto al caso” –  e a quel punto, come sempre, non mi sottrarrò…

«Erano loro [Croce e Gentile] che occupavano tutto lo spazio culturale, ma io non mi ritrovavo affatto in quei sistemi complessi e completi, dove ogni cosa era già stata incasellata. Per me pensare era una destructio piuttosto che una constructio: ero uno che notava le rovine, piuttosto che la bellezza. Questo era un po’ scomodo, e non certamente accademico…»

Perché sì, c’è e basta!

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La domanda filosofica più drammatica, lei scrive, è “perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?”. Non le sembra che sia forse la più oziosa tra le domande?

Visto che se la sono posta pensatori che non avevano tempo da perdere, non dovrebbe essere oziosa. Il problema è perché qualcuno se la sia posta (o forse senza rendersene conto se la pone ciascuno di noi). Non è una domanda a cui possiamo dare risposta, ovvero la cui risposta è il fatto stesso che ce la possiamo porre. Voglio dire che se la pone solo qualcuno che in qualche modo c’è. Per dirla con parole grosse, noi viviamo nell’Essere e possiamo porci la domanda perché ci sia dell’essere solo perché c’è dell’essere. Se ci fosse solo il nulla non potremmo porci la domanda, ma la questione è che il nulla non esiste.

Perciò è irrilevante.

No. Il fatto che ci sia dell’essere è la ragione per cui siamo portati a porre la domanda e pertanto la domanda ha una sola risposta: “Perché sì”, Continua a leggere “Perché sì, c’è e basta!”

La peste di Tadzio

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Chi volesse cimentarsi in una sorta di “esperienza estetica totale”, potrebbe ad esempio passare un’intera giornata in compagnia di un precipitato artistico che nel Novecento ha avuto pochi eguali: cominciare al mattino leggendo La morte a Venezia di Thomas Mann; ascoltare – possibilmente dal vivo – la Quinta Sinfonia di Mahler (con particolare attenzione al celebre Adagietto), ed infine compiere l’opera con la visione del film di Luchino Visconti Morte a Venezia (se non ricordo male l’omissione dell’articolo non fu casuale). Se poi al malcapitato fruitore dovesse restare tempo, potrebbe anche provare a dare un occhio al melodramma di Britten – ma credo che già così la sopportazione estetico-percettiva avrebbe raggiunto il livello di guardia. E quella che si annunciava come una straordinaria esperienza estetica volgerebbe ben presto in un asfittico incubo estetizzante.
(Un mio amico filosofo, a tal proposito, soleva dire che, insieme a psicologismo e narcisismo, l’estetismo è uno dei grandi mali che affliggono la nostra epoca – e tutti e tre questi -ismi confluiscono nel male più grande di tutti, che è poi il solito nichilismo. Io non so se avesse ragione, ma certo di alcune morbose manifestazioni socioantropologiche occorre tener conto).
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Il punto in 18 punti

[Pensieri di fuoco nascono dai ghiacci. Almeno a me capita così. Sia il mulinare della neve – che apre inusitate prospettive filosofiche – sia le lande ghiacciate, sortiscono nella mia mente effetti stranianti e febbrili.
Camminavo, appunto, sui ghiacci di fine dicembre, in un paesaggio lombardo che ricordava vieppiù la tundra o la taiga, quando mi sovvennero pensieri urgenti con pressanti richieste di fare il punto. E così, un po’ come capitò con le 19 tesi di qualche anno fa, ecco una breve summa del punto filosofico a cui sono ora giunto. Un punto che è solo la fine provvisoria di un nuovo inizio].

1. Tutto sta nella correlazione originaria. Qualcosa (qualunque cosa) è connesso a qualcos’altro (qualunque altra cosa) e pare spingere in direzione di un fondamento – un ab-solutus – quasi a bramarlo come suo proprio completamento; ma può una correlazione – dunque un rinvio da un capo all’altro – fondare ultimativamente qualcosa?

2. Eppure la questione ab origine si presenta in siffatta guisa: un io che pensa, da una parte e, dall’altra, un pensato che è un essere-totalità-indistinzione da cui l’io ha la pretesa di distaccarsi. Senonché “io” è punta acuminata di un corpo (un indivi-duo), che è già da sempre immerso, sommerso, conficcato entro una corporeità diffusa – un essere, un tutto, una nebulosa di corpi, di enti, di oggetti, di viventi.

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