(Ho quasi paura di quello che sto per scrivere. Ma sento che Auschwitz – e altri con me lo sentono – è di nuovo alle porte. È accaduto e sta accadendo di nuovo)
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Nicht sein kann, was nicht sein darf
Il problema della shoah è la sua irrappresentabilità.
Già lo aveva scritto Primo Levi a chiare lettere ne I sommersi e i salvati, quando sosteneva come fosse pressoché impossibile testimoniare, perché i testimoni integrali – i “mussulmani” del campo, i non-morti, i definitivamente “sommersi”, gli “uomini stremati”, coloro che hanno visto la Gorgone – rimangono irrimediabilmente muti. I superstiti parlano in loro vece, ma per delega. Ed oggi che i superstiti vanno scomparendo, chi parlerà in vece dei supplenti? Le voci si fanno sempre più esili, fantasmatiche, la memoria s’assottiglia, l’ignoranza di ciò che fu dilaga.
Ciò nonostante la pubblicistica sull’argomento – memoriale o di “fiction” che sia – brulica ogni anno di nuovi titoli, in verità non sempre sinceri o degni di attenzione, con qualche fondato sospetto (commerciale) di voler pescare nel torbido. E non so se ciò sia meno peggio di certe inqualificabili operazioni negazioniste.
Nel frattempo qualche cineasta coraggioso prova, ancora, ad affacciarsi in punta di piedi là dove è quasi impossibile immaginare quel che è stato, ovvero sulle soglie percettive dei campi di sterminio. Lo ha fatto ad esempio, di recente, il regista ungherese Làszlò Nemes, con il film Il figlio di Saul. Un’opera, com’è giusto che sia, ai limiti della tollerabilità visiva, terribile, atroce, che forza lo spettatore a guardare da un punto di vista ancor più estremo, visto che il protagonista è un appartenente al Sonderkommando, ovvero quel “corpo speciale” su cui Levi, giustamente, sospende il giudizio. Ebrei-becchini (i “corvi neri” del campo) facenti parte di quella “zona grigia” – la manovalanza dell’orrore – che costituisce per certi aspetti la definitiva vittoria delle SS e del nazismo nel processo di sistematica disumanizzazione (peraltro annunciata fin dal Mein Kampf): “aver concepito ed organizzato le Squadre – scrive Levi – è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo”, un “abisso di malvagità” nel quale il carnefice ha voluto far sprofondare insieme a sé anche le vittime.
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