Retrospettiva pasoliniana

[Ho rivisto tutti i film di Pasolini, in ordine cronologico. Man mano ho scritto degli appunti, che ho raccolto qui]

Accattone (1961) è ancora vivissimo: le camminate dialoganti sullo sfondo delle borgate, il coro dei ragazzi al bar che sottolinea i passaggi del dramma del protagonista, l’invivibilità dei luoghi, ma soprattutto le riprese dei corpi, dei volti, degli occhi del sottoproletariato romano (niente attori professionisti!) – sono un vero e proprio manifesto estetico, etico ed antropologico, derivante ovviamente dalle sue precedenti prove letterarie e dai suoi “ragazzi di vita” (e meno male che Pasolini non padroneggiava la tecnica – come ebbe a dire Fellini, che infatti non gli produsse il film).
Ma è sulle figure femminili che, questa volta, ho concentrato l’attenzione: Maddalena la prostituta reietta, la moglie di Accattone e, soprattutto, l’innocente Stella. Sono le donne, per lo più, a lavorare e a dover sbarcare il lunario – mentre l’eroe sottoproletario, libero dalla fatica del lavoro, non riesce a sottrarsi al suo destino tragico: “ora sto bene”, dice morente contro il marciapiede.
Accattone è vivissimo, ma solo una dozzina di anni dopo Pasolini avrebbe detto che non sarebbe stato più possibile girarlo: il “genocidio” di un’intera cultura si era già compiuto.

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È, dunque, la violenza!

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Ho letto di recente Il caso Eddy Belleguele, che pare abbia spopolato in Francia. Qualche tempo fa avevo letto, di John Williams, Nulla, solo la notte. Un accostamento improprio, data la lontananza geografica, culturale, tematica, stilistica. Eppure: sarà che ultimamente vedo e percepisco straniamenti ovunque, trovo che entrambi questi brevi romanzi – oltre al contenuto della violenza che li lega – siano caratterizzati proprio dalla loro forma straniante.
Nel caso dello scrittore americano, in maniera praticamente dichiarata ed oltranzista (come del resto era già avvenuto in Stoner): il sogno con cui il racconto di Williams si apre, è una lenta messa a fuoco del fenomeno straniante per eccellenza, un riconoscimento solo a posteriori che la figura al centro della scena non è un altro, ma io – eppure è come se fosse un altro, e “io” e “altro” si equivalgono proprio in questa fuoriuscita e deflagrazione del senso. Irrelatezza e separatezza – “guardandola, fu assalito di nuovo dalla coscienza dell’evidente ed essenziale separatezza di tutte le persone” – sono la cifra esistenziale dominante, in tutto quel che accade al giovane Maxley in una qualsiasi giornata californiana, dall’alba a notte inoltrata (i termini temporali della narrazione, che sono però i termini di una vita insensata ed irrelata).
Ma è il giovane scrittore francese Èdouard Louis Continua a leggere “È, dunque, la violenza!”

JJR 3 – Rousseau reazionario

“Commencez par resserrer vos limites
(J.J.Rousseau, Sur le gouvernement de Pologne)

Accanto ad un Rousseau rivoluzionario (quello del secondo Discorso e di alcune idee contenute nel Contratto Sociale) c’è un Rousseau altrettanto convintamente reazionario. Se ne trovano tracce un po’ in tutta la sua produzione filosofica e letteraria – ma direi che il testo che più rappresenta questo suo aspetto è il romanzo epistolare Giulia o la Nuova Eloisa, che fu tra l’altro un vero e proprio best seller per l’epoca.
Al di là della vicenda (abbastanza noiosa) ci viene descritta una comunità che nella mentalità di Rousseau assume caratteristiche archetipiche: quello di Clarens è un vero e proprio modello insulare di convivenza e di risoluzione delle controversie umane. A metà strada tra il naturalismo sauvage e il familismo patriarcale, Rousseau pare qui alludere al sogno di una convivenza fuori del tempo, autarchica, più Gemeinschaft (comunità, appunto) che Gesellschaft (società atomizzata), un idillio più che un progetto politico, una presa di distanza dalle affollate ed insensate capitali per immergersi nella ciclicità della vita rurale. Proprio per questo occorre un rigido ordine gerarchico: ruoli, riti sociali, differenza di genere, apologia del lavoro – tutto comporta una quotidianità pacificata, ed una tonalità reazionaria talvolta imbarazzante.
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Umano, troppo umano

Nonostante – o forse proprio grazie a – la mia radicale e irreversibile scristianizzazione, rimango sempre molto colpito dalla passione di Gesù Cristo. E non solo per la passione in sé – quel patire estremo, che è un lungo percorso di condivisione del dolore e della morte, ciò che ha reso interessante e popolare la religione cristiana, proprio perché profondamente umana – ma perché la narrazione evangelica di quella passione raccoglie in sé una sorta di summa delle passioni umane, una vera e propria passione delle passioni, un catalogo degli affetti da far quasi invidia a Spinoza.
Prendo ad esempio il vangelo secondo Matteo, cui sia Pasolini che Bach si sono ispirati per restituirci, in forma diversa, visiva e sonora, delle rappresentazioni mirabili di quella narrazione. La vicenda ha naturalmente un suo fascino (come tutte le tragedie) perché termina con un necessario spargimento di sangue: tutto è pre-scritto e corre verso il precipizio, ogni attore ed ogni elemento vi concorre (il sinedrio, il potere romano, il tradimento, il processo, le masse aizzate, l’offrirsi come vittima innocente, ecc.). Ma al di là di questo, trovo forse ancor più interessante il continuo palesarsi delle passioni che muovono i vari protagonisti.
Me ne sono reso conto per la prima volta ieri, rileggendo i capitoli 26 e 27, giusto per prepararmi all’ascolto dell’omonima Passione di Bach, un vero gioiello della musica barocca, di scena tutti gli anni (alternata a quella secondo Giovanni) all’Auditorium di Milano.

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Meritarsi le lucciole

Il cielo stellato sopra di me
e la legge morale dentro di me

(I. Kant)

La bellezza fa spesso capolino, ci passa accanto ogni giorno, talvolta ci sguazza attorno e ci sovrasta, e noi manco ce ne accorgiamo.  Forse non ce la meritiamo. Lei si mostra generosa, persino procace, mentre noi rimaniamo inerti e incasellati nelle nostre ore dense di impegni, cose e affanni.
Oppure non è così, e quella che chiamiamo “bellezza” è in realtà un concetto ambiguo, solo una chimera, un abbaglio; o magari la sensazione fugace di una perdita irreparabile. Un nòstos del tutto precluso.
Ma ecco che cosa può succedere in una qualsiasi sera d’estate…

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Viseità e labbra cucite

Donne con labbra cucite, come quelle di Najova, segregata nel Cie-lager di Bologna.

Donne con labbra siliconate, come quelle dei tele-visi modificati, denunciati da Lorella Zanardo.

“Dei quarantacinque muscoli facciali, a parte quelli necessari per masticare, baciare, odorare, soffiare, tutti gli altri servono per esprimere emozioni. Più articolato e complesso sarà il carattere, intendendo per carattere la nostra essenza più profonda, più individuale sarà l’espressione del volto. Cosa stanno nascondendo questi volti? […] Il volto esprime la nostra autenticità. Anzitutto, c’è la sua esposizione diretta, senza difesa, nella quale appare la sua nudità dignitosa. E’ proprio il volto che inizia e rende possibile ogni discorso ed è il presupposto di tutte le relazioni umane. […]
Il volto dell’Altro, dunque, mi coinvolge, mi pone in questione, mi rende immediatamente responsabile. La faccia umana reca un messaggio: vulnerabilità assoluta. Ed è per questo motivo che viene camuffata, nascosta, decorata, modificata chirurgicamente? […]
La vulnerabilità è però il maggior fascino del volto. Pier Paolo Pasolini aveva capito in anticipo che la televisione stava per distruggere la poetica potenzialmente espressa dal volto umano. Pasolini aveva un senso acuto della realtà del volto umano, come luogo d’incontro di energie ineffabili che esplodono nell’espressione, cioè in qualche cosa di asimmetrico, di individuale, di impuro, di composito, insomma il contrario del tipico.
Che ne è del volto delle donne? E del femminile espresso da ogni volto nella sua unicità?”

La questione maschile bis

A metà tra il divertito e il seriamente preoccupato per le reazioni a dir poco irritate (e in qualche caso francamente ridicole) di alcuni maschietti al mio precedente post sull’argomento, rilancio con la proposizione di un video che da tempo circola in rete, e che sicuramente molte e (spero) molti hanno già visto. Il corpo delle donne (visibile per intero all’interno del blog omonimo) è un sonoro schiaffone dato simultaneamente agli uomini e alle donne. Ad entrambi i generi in quanto colpevoli, seppure in diversa misura, correi e complici, anche con il silenzio. Va da sè che quando parlo di “uomini” e “donne” sto designando categorie che, data la loro generalità, rischiano di non voler dire nulla. Ma il punto è proprio questo: il rapporto tra categorie, tra la loro produzione storica e i singoli (cui magari, nonostante ne siano il prodotto, quelle categorie stanno strette).
Ma restringiamo il campo (anche se la televisione è uno degli enti condizionatori di massa più incisivi e invasivi della nostra epoca). Il documentario in questione (che è fatto da una donna, Lorella Zanardo, e da un uomo, Marco Malfi Chindemi), in poco più di venti minuti riesce a dar conto in modo esaustivo  della rappresentazione televisiva ed essenzialmente pornografica della donna, sottolineando in particolare i seguenti aspetti:

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