7 parole per 7 meditazioni – 4. Persona

Il concetto di persona ci svela fin dall’etimologia il problema riguardante le teorie dell’individualità: persona è, letteralmente, maschera (dal greco prosopon mediato forse dall’etrusco phersu), termine teatrale che allude alla duplicità, se non addirittura alla doppiezza, o comunque alla stratificazione e molteplicità di quella parte di noi stessi che denominiamo “io”. Pare che il primo filosofo ad utilizzare “persona” sia stato lo stoico Panezio, nel II secolo a.C.: interessante notare come gli stoici concepissero il ruolo dell’individuo in termini di “parte” (moira) nel destino del mondo – un po’ come la maschera svolge un ruolo nella scena teatrale.
Già tutti questi termini – io, me stesso, individuo (non-diviso, equivalente latino del greco a-tomos), persona, cui possiamo aggiungere soggetto, anima, coscienza – non sono affatto sovrapponibili, ciascuno di essi allude a significati o sfumature diverse; in ogni caso, quando parliamo di noi stessi, la prima cosa che salta agli occhi è proprio questa molteplicità : io sono io, ho un’identità (il nome è già una definizione di singolarità), ma se vado poi a vedere che cosa c’è in questo contenitore individuale – cosa c’è dietro la maschera-persona – scoprirò una varietà di elementi, spesso contraddittori. Io sono vasto, contengo moltitudini, dice Walt Whitman.

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Fuga di solo a solo

Ribana Szutor - Fuga verso l'alto
Ribana Szutor – Fuga verso l’alto

Le Enneadi di Plotino si concludono con un grande inno all’ascesa dell’uomo divino, in fuga dal mondo, verso le altezze irraggiungibili della metafisica forse più potente dell’antichità. Si va, cioè, ben oltre le costruzioni aristoteliche o platoniche, oltre il nous, il mondo delle idee, le sfere celesti o il motore immobile, oltre l’anima del mondo – oltre addirittura lo stesso Essere: l’Uno li trascende tutti, e si erge alla distanza abissale della lontananza e dell’alterità assoluta. Quell’Uno che non è persona, non è creatore, non è emanazione, non è ragione, non è sostanza, non è principio – insomma, innanzitutto non è, o è al di là dell’essere e del non essere – confine estremo (ed opposto) di questa landa materiale da cui siamo afflitti che, qui in basso, confina con la notte del non essere, della materia in perenne disfacimento e dell’insensatezza.
E allora noi umani, che abbiamo evidentemente una scheggia di quell’Uno conficcata nelle carni, pur essendo innanzitutto corpo, possiamo eventualmente abbandonare questa valle di lacrime, e scegliere la via dell’elevazione, della contemplazione, dell’ascesi trascendente che, anziché al nulla delle tenebre, conduce al nulla della luce. Ma forse nemmeno questa opposizione è calzante, visto che Plotino evoca, forse per primo, un’ulteriorità che se non è irrazionale è sicuramente metarazionale: il filosofo-monaco, l’uomo divino, viene «quasi rapito o ispirato» per entrare «silenziosamente nella solitudine e in uno stato che non conosce turbamenti, e non si allontana più dall’essere di Lui, né più si aggira intorno a se stesso, essendo ormai assolutamente fermo, identico alla stessa immobilità».
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La soglia

Allüberal und ewig
blauen licht die Fernen!
Ewig… ewig…

[Ho scritto buona parte di queste note – note finali su un plotiniano inconsapevole asceso alle azzurre trasparenze mahleriane – domenica 28 maggio, durante il viaggio in treno – l’ultimo viaggio – che mi portava al feretro di mio padre nella sua e nella mia terra. Ma i pensieri che in quelle dolenti ore mi sovvenivano alla mente erano più in generale il frutto di anni di rielaborazione del rapporto con lui e, soprattutto, della sua (e della mia) crescente consapevolezza del declino dell’esistenza, dell’apoptosi di ogni essere e della sua ineluttabilità]

L’ultima immagine che voglio ricordare di mio padre – che rappresenta quest’ultimo tratto del suo viaggio sulla terra e che insieme mi addolora e mi fa tenerezza fino allo struggimento – è il vederlo andare sulle sue gambe incerte verso la sala operatoria (a questo punto, e a posteriori, il suo patibolo) dove gli avrebbero asportato la laringe, insieme alla voce (e a un pezzo d’anima). Era la mattina del 6 marzo di quest’anno. Le volte successive che l’ho visto – quasi sempre allettato, sofferente e implorante a gesti la morte, fin dal suo risveglio nella sala di rianimazione del Policlinico di Messina – le vorrei rimuovere dalla mia memoria. Tutte quante. E siccome mi è stata risparmiata l’agonia degli ultimi giorni (e ringrazio gli dèi che sia stata breve) – per me lui è ancora lì, incerto e malfermo sulla soglia, che dirige smarrito lo sguardo verso di me, che accanto a mia madre cerco di rassicurarlo, e poi va dritto verso il suo destino.

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Ottavo fuoco: la bellezza

La-nascita-di-Venere-Botticelli

Avevamo parlato due anni fa dell’arte. Ora è il turno della bellezza, cui inevitabilmente questa rinvia. Ma se l’arte è il fronte oggettivo, visibile, espressivo del mondo estetico, la bellezza ne è lo sfuggente lato soggettivo, legato al gusto e al piacere individuali.
Arte (e natura) si stagliano – sterminati e muti – di fronte a noi, laddove è il sentimento della bellezza in noi a scuoterci. Ma donde viene questo sentimento? Come si è formato? Cos’è?
È questa la domanda – che possiamo volgere anche nella forma classica, e un po’ abusata, del bello in sé o bello per noi: è bello perché ci piace o è bello perché lo è in se stesso?
Già la formulazione di questa domanda richiede un chiarimento terminologico tra piacere e bellezza, ma ci torneremo tra poco.
Cominciamo col dire che i filosofi hanno risposto in modi diversi al quesito, e che solo da un paio di secoli e mezzo è nata quella disciplina filosofica denominata Estetica, che si occupa di bellezza, di gusto, di arte in maniera sistematica, cercando di fare ordine e chiarezza in questo campo, sia a livello percettivo che formale.
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Introduzione alla filosofia – 3. Cinici, stoici, epicurei: la filosofia come stile di vita

Potremmo sottotitolare questo incontro con l’espressione “la filosofia come stile di vita” (che è poi il titolo di un interessante libro scritto anni fa da Màdera e Tarca). Ci occuperemo cioè questa sera di quelle correnti filosofiche della tarda filosofia greca (siamo a cavallo tra il IV e il III secolo a.C.), che mettono al centro la questione etica e la libertà dell’individuo – in estrema sintesi è questa la domanda che ci porremo: come possiamo vivere saggi e felici in questo mondo? Domanda piuttosto impegnativa, visto che il mondo fa di tutto per distrarcene (o per darci delle risposte pronte, preconfezionate e spesso a loro volta infelici).

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Madeleines filosofiche

Qualche giorno fa, passeggiando in un parco, mi è venuta in mente la Scienza della logica di Hegel. Qualcuno penserà: “ma questo è proprio pirla! con tutte le cose belle che possono venire in mente passeggiando in un parco (a maggio poi!), proprio il testo più arcigno della storia della filosofia è andato a scegliere…”. In realtà non è stato un caso (né, evidentemente, una scelta), si è trattato di una vera e propria madeleine filosofica, anche perché è successa in quel parco con quei profumi e quei colori – dove molti anni fa avevo sudato sette camicie sull’essere e il nulla, la qualità, la quantità, la misura, l’uno e il molteplice, l’essenza, l’apparenza, il concetto…
Non voglio qui nemmeno cominciare ad indagare la base neurologica di quel complesso fenomeno che Proust aveva descritto rievocando il sapore di una madeleine – “conchiglietta di pasta, così grassamente sensuale” –  inzuppata nel té della zia Leonie, nella prima parte della sua immensa Recherche. Del resto non è detto che la biochimica della rimembranza debba per forze di cose essere più precisa e rigorosa, da un punto di vista causale e descrittivo, rispetto alla fenomenologia estetica consegnataci dalla letteratura. Tanto più che un neuroscienziato della levatura di Damasio è costretto ad ammettere che “l’esistenza, nel cervello, di configurazioni neurali dinamiche (o mappe) corrispondenti a un oggetto o un evento, è una base necessaria ma non sufficiente per spiegare le immagini mentali di quell’oggetto o di quell’evento”, confessando con tutta onestà una grave lacuna nel meccanismo che spiega il passaggio dalla materia cerebrale a quella mentale – ignoranza che tuttavia non contraddice “l’assunto che le immagini siano processi biologici, né nega la loro fisicità” (cfr. Alla ricerca di Spinoza, pp.236-7).  Ipse dixit nell’anno 2003, e chissà, magari qualcosa in più ora sappiamo. (Con questo non voglio certo sminuire l’importanza dell’osservazione degli affascinanti segreti del nostro cervello: anzi, credo fermamente che anche la biochimica abbia un suo lato poetico e meraviglioso…). Ma torniamo alla madeleine.

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SAUVAGERIE (con alcune divagazioni su Spinoza, Plotino e l’assoluto)

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“Happiness is real only when shared”

Non capita spesso di uscire dalla visione di un film intimamente scossi e, nel contempo, eccitati dal punto di vista intellettuale. Mi è capitato l’altra sera con Into the wild, film di Sean Penn tratto dal libro Nelle terre estreme di Jon Kracauer (per chi non l’avesse visto, c’è una scheda esaustiva su Wikipedia, ma naturalmente sarebbe preferibile vederlo). Il rito del cineforum, che, almeno in provincia, non passa di moda, può indurre esperienze del genere (visione unita alla discussione), oltre al fatto che, a prezzi molto modici, consente di recuperare film persi nella stagione precedente (talvolta perché poco o punto distribuiti), godendoseli in compagnia di persone di solito piacevoli e intelligenti, e non sui cuscini solitari e soporiferi del proprio divano di casa.

Fatta questa (quasi inutile) premessa, torno all’oggetto. E l’oggetto è un film profondamente filosofico, che verte nientemeno su temi quali l’opposizione (di nuovo i contrari!) tra libertà e necessità, natura e cultura, vita e morte, e così via. Parto però dalla fine, e (giusto per non smentire la premessa) dall’intelligente considerazione di Celeste, l’acuto e cinefilo commentatore che imperversa nelle nostre piacevoli serate al cineforum, il quale ha osservato giustamente come la scena-chiave del film sia forse quella in cui il protagonista, poco prima di morire schiantato dalla necessità naturale, incontra l’orso: Christopher ha attraversato molte tappe del suo percorso di iniziazione, crescita e liberazione, fino a raggiungere il limite estremo (reso metaforicamente dalle terre selvagge dell’Alaska); si è liberato della “cultura” (in termini di cose, società, relazioni), ma forse anche della “natura”. L’orso che gli passa accanto, nota Celeste, lo annusa e se ne va, non riconoscendo in lui né qualcosa di “sociale” (che avrebbe potuto aggredire) né qualcosa di “naturale”, con cui interagire. Estraneità totale, dunque. Ma dove si trova allora Chris? In che luogo del cosmo si è andato a collocare? Sarà che in questo periodo mi sento un po’ “spinozista”, ma a me sono venuti in mente due concetti: assoluto, intuizione intellettuale.

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