Filosofie della storia – 5. Post-moderno, fine della storia e messianismo

L’ultimo scorcio del Novecento sembra chiudersi filosoficamente con una sorta di resa della ragione che ha fondato la modernità: il filosofo francese Lyotard pubblica nel 1979 La condizione postmoderna, lo scritto con il quale si apre l’epoca della fine delle grandi narrazioni (le ideologie totalizzanti e unificanti, l’universale, l’assoluto, ecc.) – e però entra in crisi lo stesso asse portante del “moderno”, la moda e il modo dell’ora, del recente, del nuovo, l’ideologia del progresso infinito.
La medesima idea di filosofia della storia, di storia universale, di un’evoluzione storica unitaria entra in crisi: potremmo dire che si apre l’epoca della crisi per antonomasia interna al mondo occidentale (krisis è parola greca che indica un apice di forza e di tensione che occorrerà risolvere in un senso o nell’altro, ma che nella lotta che lo contraddistingue resta incerto nel suo esito).

A partire allora da questa irreversibile consapevolezza critica – e di disincanto – proveremo a mettere in scena alcune tesi di filosofia della storia elaborate nel corso del ‘900, secolo quantomai storico se non storiolatrico, le cui certezze però vanno in crisi proprio al suo volgere: il secolo forse più denso di storia che si sia mai dato, se non altro per le tragedie storiche che vi si sono svolte, e che non hanno precedenti, si chiude con un senso di totale irresolutezza riguardo al futuro.

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Contemporanea

Che cos’è, oggi, la filosofia? Quali sono le caratteristiche della filosofia contemporanea? Ma ancora più radicalmente: può esistere una filosofia contemporanea? Non è forse la filosofia una materia che trascende il tempo e che sfugge alla categoria della contemporaneità?
Hegel negherebbe con decisione: per lui la filosofia è la forma, lo “spirito dell’età in quanto esso pensa se stesso” e, così come ciascun individuo è figlio del suo tempo, “così anche la filosofia è il tempo di esso appreso in pensieri” – e come un individuo non può uscire dal suo tempo più di quanto possa uscire dalla propria pelle, così la filosofia è avvolta dalle spire del tempo, ciò che ne fa insieme un deposito delle memorie e un perenne movimento del pensiero – un divenire di se stessa.
Questa manfrina introduttiva mi serviva per dar conto del problema che mi si è posto quando ho immaginato come dovrà essere il 100° corto filosofico a chiusura del progetto social #lafilosofiain100corti che sto perseguendo ormai da 3 anni e mezzo (qui sulla Botte è in differita di un anno e mezzo circa) e che è finalmente giunto a conclusione.
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Liquida, anzi miasmica (con postilla sul papa e dichiarazione di voto)

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Alla fine di questo post (senza capo né coda, liquido esso stesso un po’ come la società e le categorie del sociologo Zygmunt Baumann), dichiarerò pure le mie intenzioni di voto al prossimo redde rationem del 24 febbraio – sempre che non si volatilizzino nel frattempo, confondendosi con i miasmi sociali, politici ed antropologici della nazione. Nazione incantata per una buona fetta, in queste incerte giornate di fine inverno, dal palco fiorito di una popolare manifestazione canora (una delle poche cose ancora solide, non affette da malefico relativismo). Insomma, sarà un post pseudodadaista.

Buttiamola subito in politica (anche se sarebbe meglio buttare la politica). Ma credo che in Italia non si possa più parlare di politica, quanto di cosche e consorterie che hanno messo le mani su ciò che è comune contendendoselo, e più spesso spartendoselo (non certo in misura eguale ed egualmente colpevole: troppo comodo berciare il ritornello da bar del “tanto sono tutti uguali”). Non è un’altra tangentopoli, quanto piuttosto il consolidamento di quel sistema e di quella crisi che non solo non ha trovato uno sbocco, ma si è fatta permanente. Tutte le uscite dalla politica (la cosiddetta antipolitica, peraltro politicissima ed ideologicissima) hanno paradossalmente consolidato il sistema: così è stato con il leghismo, poi con il berlusconismo, e c’è da temere che così avverrà anche per il grillismo.

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