Metafisica dello smartphone

perfetti-sconosciuti

Adoro i film che mettono in scena cene o tavole spiazzanti (da Festen a Fanny e Alexander, dal Fascino discreto della borghesia alla Grande abbuffata) – proprio perché si tratta del luogo più familiare che invece diventa il più perturbante, e spesso più atto a far emergere scomode verità.
Ecco perché inseguivo da tempo Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, che ho finalmente visto nel miglior contesto possibile, ovvero all’interno dell’autorevolissimo e storico cineforum di Legnano, con inevitabile dibattito finale.
E in effetti è un film che si presta molto alla discussione, ma che occorrerebbe rivedere più volte per coglierne i molteplici aspetti – non solo dovuti alla perfezione della sceneggiatura, alla bravura superlativa degli attori, ma soprattutto al concorso di temi scottanti e di grande “attualità” (parola che non mi è mai chiaro, però, che cosa designi di preciso). Al punto che la citazione del Sorpasso di Risi da parte del relatore, mi ha suggerito l’idea che – esattamente come quel film lo fu per gli anni ’60, gli anni del boom economico – questo film potrebbe essere rappresentativo della nostra epoca, quale commedia amarissima della malata società italiana in particolare, ma tendenzialmente di quella globale (lo conferma il fatto che verrà distribuito in oltre 30 paesi, compreso un inconsueto remake del cinema americano).
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Berluskossimori

Oxùs moròs.
Acutostupido.
La cima insensata.
Come la guerra umanitaria.
La malattia e la cura.
Lupus autoimmune.
Conflitto permanente che si autofagocita.
Centripeto centrifugo.
La ballerina elefantiaca alla sbarra.
Concavo convesso – questo suole dirlo lui.
Come tu mi vuoi.
Così è se vi pare.
Ma non è una cosa seria.
Giano bifronte.
L’uomo più ricco al governo.
L’interesse sovrapposto al disinteresse.
La proprietà che occupa ciò che è comune.
Il privato che deborda nel pubblico.
Il pubblico che rifluisce nel privato.
L’odio per tutto ciò che è statale.
L’odio per tutto ciò che è comune.
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Di vita d’amore e di morte (ma anche di scuola e d’economia, e persino del tricolore)

Della patria e dell’Italia non me ne frega niente. Sono cosmopolita per natura: per caso son qui, per caso son cittadino italiano, per caso parlo questa lingua. Sarei potuto benissimo essere un cittadino tunisino o coreano od anche un alieno coplanetario del voltairiano Micromega.
In fatti come questi non c’è alcuna necessità metafisica – come del resto in tutti i fatti: e qui mi scopro profondamente humeano!
Dunque stiano ben lontani da me la retorica nazionalistica, le fanfare, l’amor di patria, i fratelli d’Italia (perché non le sorelle poi?), inni e bandiere.
Ciò non toglie che, contro ogni separatismo neocorporativo, neoetnico o neofeudale, rivendichi l’acquisizione del moderno concetto di cittadinanza come un punto di non ritorno. Una cittadinanza concreta e piena di cose, però, né formale né borghese né liberale. Una cittadinanza che mette al centro ciò che è comune e sociale.
Insomma un giro di parole per dire che oggi festeggerò a modo mio il mio essere un comunista della cittadinanza o un cittadino dell’internazionalismo comunista – anche se in salsa (e in lingua) italiana. E festeggerò incazzandomi un po’ (tanto per cambiare) e criticando l’attuale tentativo in corso di minare e far fuori uno dei documenti basilari di riferimento di questo mio essere cittadino qui e ora: la costituzione (in questo caso italiana) e la nozione di cittadinanza (un bel po’ più ampia e ariosa) che la fonda – motivo per cui lo scorso sabato 12 marzo ero in piazza, in una delle tante piazze italiane (una molto a nord, visto che mi trovavo a Sondrio).

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Comune

Nello spirito umano come nell’universo non vi è niente
sopra né sotto, tutto ha egual diritto a un centro comune,
che manifesta la sua segreta esistenza proprio nel
rapporto armonico di tutte le parti verso di esso.

(J.W. Goethe)

Comune è l’aria, l’acqua, la terra.
L’energia, il fuoco, la materia è comune.
Comune è il suolo, l’orografia, l’idrografia, le cime innevate.
La tavola degli elementi, l’intrico vegetale, la conflittuale varietà animale è comune.
Comune è la cultura, il linguaggio, l’intelligenza – koiné!
La bellezza, l’estasi, l’ardore è comune.
Comune è la società, il territorio, i territori – ecumene!
L’arte, l’urbanizzazione, il dissodamento delle terre è comune.
Comune è comunicare.
Comune è luogo comune, senso comune.
Comune è il punto di vista.
Comune è la relatività del punto di vista.
La resistenza all’appropriazione è comune. Continua a leggere “Comune”

La durevole dittatura della merda

Solo in un paese sottosopra può accadere che l’analisi politica più avanzata provenga da un comico (nella fattispecie una comica) e non dagli intellettuali di professione. Draquila, il film-documentario di Sabina Guzzanti, non si limita a raccontare alcuni fatti e a dare voce ai terremotati aquilani (sia ai delusi che agli illusi), non è soltanto l’atto di denuncia della corruttela e del marcio sistema di potere dell’epoca berlusconiana – ma si spinge un po’ più in là: connettendo quei fatti, affiancando cosa a cosa e stortura a stortura, la Guzzanti ci offre un’analisi lucida di quel che va accadendo in questo paese rovesciato e governato (come amaramente dice nel finale un intervistato) dalla merda e, insieme, dall’illusione che ciò che è fasullo e vuoto non possa durare, mentre invece sta durando e durerà.
Ma veniamo ai punti cardine dell’analisi: sono almeno tre, e da tempo li vado denunciando su questo blog, con la speranza che prima o poi una sollevazione (non solo morale) possa porre fine ad uno dei peggiori periodi della storia italiana.

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Proprietà, deiezioni, deviazioni

SerresNel suo breve e però densissimo saggio Il mal sano: contaminiamo per possedere? (Le Mal propre, edito in Italia dal Melangolo nel 2009), il filosofo francese Michel Serres delinea con il suo linguaggio tipicamente enigmatico-allusivo una sorta di fenomenologia umano-animale delle strategie di appropriazione. La domanda cruciale, per quanto antropomorficamente posta, è se gli esseri viventi, esistenti in quanto insediati in un luogo, sono di questo “proprietari” o “affittuari”. Naturalmente non sarebbe così fondamentale rispondervi se una specie animale non avesse sopraffatto tutte le altre proprio per quanto concerne le dinamiche di appropriazione e non si fosse messa così nella situazione di farsi domande vagamente apocalittiche. Resta però il fatto che quella specie, autodenominatasi Homo sapiens, si innesta originariamente nello spazio che ha poi via via integralmente occupato, attraverso modalità del tutto “naturali”: gli umani (specie maschi) marcano in origine gli oggetti, i territori, gli spazi, ed anche gli altri corpi (specie di donne e bambini), attraverso le secrezioni del corpo – dall’urina allo sperma, fino ad arrivare al sangue che inzuppa le terre delle nazioni in guerra.
Questo marcare (Serres, che è anche un linguista, ci apre spesso interessanti scenari etimologici), in origine “duro“, cioè secondo la terminologia utilizzata dall’autore attinente alle forze fisiche, all’energia, alla materia, si propaga lungo tutta la storia ominescente della specie fino alla modalità “dolce” dell’epoca attuale, una forma cioè eminentemente costituita da codici, segni, linguaggi – quelli ad esempio dei marchi pubblicitari, dei loghi, delle firme.

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