Scegliere o sciogliersi

David Quammen conclude il suo profetico Spillover con il capitolo intitolato “Dipende…”, nel quale racconta una storiella, un fenomeno biohorror che riguarda i bruchi: nel 1993, in Montana, vi fu un’esplosione (un outbreak) di Malacosoma disstria, che nel mese di giugno defogliò gran parte degli alberi.
Subito dopo furono gli stessi bruchi in sovrannumero a scomparire misteriosamente. L’entomologa ecologista canadese Judith Myers e l’ecologo matematico Greg Dwyer scoprirono che cos’era successo: un nucleopoliedrovirus (NPV) aveva attaccato i bruchi, facendo loro fare una fine orribile. In sostanza il virus attaccava e svuotava dall’interno il lepidottero facendolo sciogliere: i bruchi facevano letteralmente splash!
Moriremo tutti? si chiede infine Quammen. Le sue conclusioni sono le medesime di Harari, che – onde evitare letali pandemie – raccomanda di presidiare attentamente i confini delle specie animali (essendo noi una delle specie implicate, e non una specie a parte), a maggior ragione vista l’esplosione demografica degli ultimi due secoli.
Ma qui entra in gioco il “dipende” che dà il titolo al capitolo: molto probabilmente non faremo la stessa fine di Malacosoma, perché rispetto ai bruchi abbiamo una carta in più: possiamo decidere altrimenti. Soprattutto possiamo “differire in innumerevoli modi, soprattutto a livello comportamentale” – mentre i bruchi ingoiano istintivamente le foglie insieme ai pacchetti-trappola dei virus che gli si aprono poi in corpo.
A questo punto mi sono chiesto qual è l’organo, l’istituzione, il dispositivo, la parte di noi che ci fa differire, fare altrimenti, scegliere (e non sciogliere): l’intelligenza? l’etica? la politica? il bene comune? la coscienza? la libertà?
Tutte queste cose insieme o c’è dell’altro? E siamo sicuri che le stiamo coltivando quanto basta?

Le parole del contagio

La morte – come da un’alta vetta –
riformula i criteri di giudizio
e ciò che non credemmo
ora scorgiamo chiaro
(Emily Dickinson)

«Non ho visto, pertanto, nient’altro da fare che provare, come chiunque altro, a sequestrarmi a casa mia e nient’altro da dire che esortare chiunque altro a fare lo stesso», così scrive Alain Badiou.
E alla domanda: “Che cosa possiamo imparare dal virus?”, Massimo Cacciari risponde seccamente: Nulla. A stare fermi un po’. Cosa volete imparare? Basta con questa retorica che dalle difficoltà si esce migliori. Il nostro cervello è lo stesso di 100.000 anni fa…

Qualcuno si sarà senz’altro chiesto che cosa può dire o fare la filosofia di fronte ad un evento come quello che stiamo vivendo, così violento e inaspettato (uno dei problemi è anche quello della sua definizione e qualificazione). Hanno ragione Badiou e Cacciari: la filosofia non può nulla. La filosofia non può modificare il corso degli eventi, la filosofia non può prevenirli, la filosofia non può nemmeno consolare gli animi. Ciò che forse può fare la riflessione filosofica è aiutare le menti ottenebrate degli umani a vedere con maggior chiarezza quel che hanno davanti (o sotto i loro piedi o alle loro spalle o dentro di loro), anche se in un senso radicalmente diverso da quello della scienza. Ecco, la scienza può provare a prevenire, modificare, curare, salvare (anche se non è detto che ci riesca), la filosofia no. La religione può provare a consolare, confortare, rasserenare, ma non la filosofia. Compito della filosofia è solo quello di dire il vero, o di provarci. La verità, una parola che può anche svelare cose che non vorremmo né vedere né sapere.
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Tentazioni irresistibili per i microbi

«Abbiamo aumentato il nostro numero fino a 7 miliardi e più, arriveremo a nove miliardi prima che s’intraveda un appiattimento della crescita. Viviamo in città super affollate.
Abbiamo violato e continuiamo a farlo le ultime grandi foreste e altri ecosistemi del Pianeta distruggendo l’ambiente e le comunità che vi abitavano. A colpi di sega e ascia ci siamo fatti strada in Congo, in Amazzonia, nel Borneo, in Madagascar, in nuova Guinea e nell’Australia nordorientale.
Facciamo terra bruciata in modo letterale e metaforico. Uccidiamo e mangiamo gli animali di quegli ambienti. Ci installiamo al posto loro, fondiamo villaggi, campi di lavoro, città, industrie estrattive, metropoli.
Esportiamo animali domestici che rimpiazzano gli erbivori nativi. Facciamo moltiplicare il bestiame allo stesso ritmo con cui ci siamo moltiplicati noi allevandolo in modo intensivo in luoghi dove confiniamo migliaia di bovini, suini, polli, anatre, pecore e capre — e anche centinaia di ratti del bambù e zibetti. In tali condizioni è facile che gli animali domestici e semi domestici siano esposti a patogeni provenienti dall’esterno si contagino tra di loro. In tali condizioni i patogeni hanno molte opportunità di evolvere e assumere nuove forme capaci di infettare gli esseri umani tanto quanto le mucche o le anatre… Viaggiamo in continuazione… Diamo da mangiare agli animali, tocchiamo tutto, diamo la mano ai simpatici abitanti del luogo, poi risaliamo su un bel aereo e torniamo a casa. Siamo punti da zanzare e zecche, cambiamo il clima del globo con le nostre emissioni di anidride carbonica, spostiamo le latitudini in cui le suddette zanzare e zecche vivono. Siamo tentazioni irresistibili per i microbi più intraprendenti perché i nostri corpi sono tanti e sono ovunque».