Quando Benedetto XVI giunse al soglio pontificio, ricordo che una mia cara amica laicissima e illuminista lo soprannominò papa Natzinger. Non solo per le parole e il programma – peraltro ampiamente annunciato nei decenni di stretta collaborazione con Wojtyla, un papa nuovissimo per ragioni di “marketing” e quantomai reazionario per ideologia – ma anche per la gestualità e per quel sorriso forzato, un po’ pastore tedesco un po’ sepolcro imbiancato. Certo, un giudizio quantomai tranchant, ai limiti del lombrosiano, che oggi verrebbe guardato storto dal fiume di retorica corrente.
Ma la guerra del nuovo papa contro il relativismo, la sua visione tradizionalista ed assolutista, forse inevitabile a ridosso dell’epoca della “guerra di civiltà” e della discussione europea sulle “radici cristiane”, non poteva che infastidire qualunque progressista. Oggi che più di ieri il progressismo è un concetto abusato e problematico (ma del resto il Pasolini del discorso sul “sacro” e una schiera di filosofi novecenteschi ci avevano avvertiti), possiamo non tanto rivedere ma ricollocare quel giudizio nel nuovo contesto, etico, antropologico e geopolitico.
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Liquida, anzi miasmica (con postilla sul papa e dichiarazione di voto)
Alla fine di questo post (senza capo né coda, liquido esso stesso un po’ come la società e le categorie del sociologo Zygmunt Baumann), dichiarerò pure le mie intenzioni di voto al prossimo redde rationem del 24 febbraio – sempre che non si volatilizzino nel frattempo, confondendosi con i miasmi sociali, politici ed antropologici della nazione. Nazione incantata per una buona fetta, in queste incerte giornate di fine inverno, dal palco fiorito di una popolare manifestazione canora (una delle poche cose ancora solide, non affette da malefico relativismo). Insomma, sarà un post pseudodadaista.
Buttiamola subito in politica (anche se sarebbe meglio buttare la politica). Ma credo che in Italia non si possa più parlare di politica, quanto di cosche e consorterie che hanno messo le mani su ciò che è comune contendendoselo, e più spesso spartendoselo (non certo in misura eguale ed egualmente colpevole: troppo comodo berciare il ritornello da bar del “tanto sono tutti uguali”). Non è un’altra tangentopoli, quanto piuttosto il consolidamento di quel sistema e di quella crisi che non solo non ha trovato uno sbocco, ma si è fatta permanente. Tutte le uscite dalla politica (la cosiddetta antipolitica, peraltro politicissima ed ideologicissima) hanno paradossalmente consolidato il sistema: così è stato con il leghismo, poi con il berlusconismo, e c’è da temere che così avverrà anche per il grillismo.
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