SON DIECI ANNI! (Il blog ragazzino – di un io in declino – stretti tra il forse e il magari)

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“…in lui una sola attitudine certissima:
consumare [ogni cosa] e odiare qualsiasi cosa gli impedisca
uno smodato consumo di qualche cosa”
[A.M. Ortese]

Dieci anni sono passati, giusto oggi, dal primo articolo pubblicato su questo mio diario filosofico un po’ anomalo. Fin dall’inizio ho rilevato la stranezza del filosofare in rete: venendo dal secolo della carta, dal mondo dei libri, degli appunti presi a mano, della lenta fatica del pensiero – ho subito avvertito la contraddizione di riversare in un ambito così liquido, anzi aereo, tentativi di riflessione che tradizionalmente si servivano di altri canali comunicativi, e di consolidati linguaggi millenari.
Oggi mi fa un po’ sorridere questa considerazione, alla luce di quel che è avvenuto nel decennio trascorso con l’avvento dei social media, e a conti fatti quel che un tempo mi pareva uno strumento fin troppo veloce e “consumistico” (sia nei ritmi di pubblicazione che in quelli della discussione), mi appare oggi un angolo tranquillo e quasi paradisiaco. I guastatori e i narcisisti si sono nel frattempo spostati armi e bagagli su facebook, liberando così i blog da quell’insopportabile ansia di protagonismo, che se ne ha ridimensionato la portata webepocale ha anche restituito loro un ritmo più pacato e una dimensione più intima, che non mi dispiace affatto.
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Piccola apologia dell’opacità

[L’ideologia panottica del cerchio – L’ideologia “democratica” della rete – Trasparenza orizzontale,  opacità verticale – Privacy, profilazione e neovalorizzazione – Alétheia, ovvero dell’ossimoro fondante il concetto di verità – Rousseau essoterico: giù ogni maschera! – La metafisica digitale di Gorgia – Trasparenza seduttiva e securitaria – Trasparenza satura – Trasparenza emotivo-immaginifica – L’acritica (in)coscienza social – L’eterno riposo digitale]

274998941. Un sistema di disseminazione di microvideocamere pressoché invisibile, virtualmente esteso a tutto il pianeta, che lo renda visibile e trasparente a chiunque in ogni momento; un microchip sottocutaneo per ogni nuovo bambino nato che lo renda tracciabile e dunque al sicuro da malintenzionati, pedofili, orchi e quant’altro; un automonitoraggio continuo del corpo attraverso una sostanza ingerita che produce la visualizzazione di tutti i dati biometrici sulla pelle del braccio; l’assoluta trasparenza dei politici, attraverso la visualizzazione pubblica di ogni minuto della loro vita; l’assoluta trasparenza di ciascun individuo; l’assoluta trasparenza e condivisione obbligatoria di ciascuna opinione, desiderio, decisione politica…

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Una storia della filosofia in 100 tweet

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Parte oggi sul mio profilo twitter un esperimento un po’ ardito, ma che mi intriga molto. Pubblicherò infatti una microstoria della filosofia in 100 tweet (in verità 101, dato che ci sarà anche il tweet-pilota numero 0), al ritmo di uno al giorno.
Avrà senso? Servirà a qualcosa? Boh, non lo so. So solo che io mi sono divertito molto a concepirlo e spero che divertirà e/o incuriosirà qualche lettore della rete. Ovviamente è pura follia concentrare in 100×140 caratteri (circa) 2500 anni di pensiero. Ma ci vuole anche una certa dose di follia a filosofare, no?
Non poteva mancare l’hashtag, che sarà ‪#‎100SOFIA‬
Potrete seguire i tweet anche dal blog, in cima al blogroll qui accanto a destra, dove compariranno via via.

(È certo che se il me stesso di una decina di anni fa potesse leggere quel che ho scritto qui sopra, mi prenderebbe a sonore e luddistiche martellate!)

Rousseau è su Facebook! (e ci guarda)

Panopticon

Byung-Chul Han legge l’attuale società globale come pervasa dal mito della trasparenza.
Si attribuisce a questo termine, in genere, una caratteristica di positività: un potere trasparente, rapporti trasparenti tra le persone, maggiore trasparenza nell’agire pubblico dovrebbero in teoria giovare al buon funzionamento della società.
Salvo che, a ben vedere, La società della trasparenza (questo il titolo del suo recente saggio edito in Italia da nottetempo), proprio in quanto affetta da un eccesso di positività (tutto in evidenza, nulla in ombra, via ogni negativo) si trasforma in un dispositivo sociale quantomai oppressivo.
Han, com’è nel suo stile, abbozza molti argomenti senza approfondirli, esponendoceli in una serie di brevi capitoli per tesi e suggestioni. Sullo sfondo i concetti già esposti nel breve saggio La società della stanchezza (società della prestazione, iperpositività, autosfruttamento, ecc.).
Riprenderò qui alcuni riferimenti che potremmo definire “inquietanti” a proposito del concetto di trasparenza inteso come “far luce”, “illuminare”, “svelare”, significati tipici (se non archetipici) del pensiero filosofico da Platone in poi.
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Il paradosso della stanchezza

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“L’unica misura del pensare è la stanchezza”
(M. Sgalambro)

“Esiste una stanchezza dell’intelligenza astratta ed è la più terribile delle stanchezze. Non è pesante come la stanchezza del corpo, e non è inquieta come la stanchezza dell’emozione. È un peso della consapevolezza del mondo, una impossibilità di respirare con l’anima”
(F. Pessoa)

Sono venuto a conoscenza del saggio La società della stanchezza del filosofo coreano-tedesco Byung-Chul Han tramite la rete (per la precisione facebook), e ciò, per quanto casuale, non è indifferente in ordine al ragionamento che intendo fare, e che svolgerò in due mosse: la prima di ordine oggettivo, mentre la seconda avrà un risvolto psicobiografico.

1. Il saggio in oggetto è stato egregiamente recensito da Riccardo Panattoni, sul sito Doppiozero, cui rinvio senz’altro. Condivido con questa recensione il grande interesse per i temi trattati nel saggio da Han, se si vuole affrontare con spirito critico l’assetto dei dispositivi che ordinano le società nelle quali viviamo (e che inevitabilmente pre-ordinano i nostri stili di vita, i linguaggi, la mentalità).
Fatta questa premessa elogiativa, passo invece alle riserve. In generale ho trovato fin troppo sbrigativi ed ellittici alcuni passaggi: il testo (che è breve e si legge in meno di due ore) sembra procedere per tesi, piuttosto che per ragionamenti argomentati. Il rischio è l’apodittica lapidarietà con cui esse vengono sostenute, specie quando lo fanno negando o sostenendo di superare tesi di altri pensatori. Come quando, ad esempio, l’autore si confronta con le teorie immunitarie e biopolitiche di Esposito o di Agamben, oppure con l’analisi di Hanna Arendt in Vita activa, o ancora con la società disciplinare di Foucault o le molteplici interpretazioni della figura di Bartleby. È vero che tutto ciò potrebbe essere letto come una creativa e dialettica Aufhebung – ma occorrerebbe argomentare in maniera un po’ più articolata, anche perché ci troviamo spesso di fronte a snodi (o dispositivi) di grande complessità socioanalitica.
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Petite Poucette

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Trovo quantomeno strana, e talvolta disdicevole, l’abitudine di alcuni editori italiani di tradurre (e tradire) il titolo di un testo di un’altra lingua, così da darne una presentazione in alcuni casi fuorviante. Se è vero che il titolo è un frammento del testo, allora non si capisce perché anziché Pollicina (Petite Poucette), il breve pamphlet di Michel Serres sulle nuove generazioni nativo-digitali sia stato tradotto Non è un mondo per vecchi, scimmiottando malamente il romanzo (poi film) di Cormac McCarthy.
Detto questo, il testo di Serres è una scorribanda alla velocità della luce (e in salsa francese) della rottura epocale che le nuove tecnologie digitali stanno generando nel mondo della cultura: cambio di paradigma dell’oggetto cognitivo, liberazione dei corpi dalle caverne del sapere, superamento dell’ordine concettuale (addirittura!), fine della dittatura della pagina e dell’ordine libresco, e così via.
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L’eco della cinciallegra

(Da qualche tempo mi frulla per la testa l’associazione tra filosofia e teatro: la discussione filosofica come drammatizzazione teatrale; il dilemma circa la verità come gioco di ruolo e delle parti; l’illusione puramente rappresentata di giungere a una qualche verità – ovverosia, la sua messa in scena; l’uscita da teatro come un ritorno filisteo alla vita che mediamente arranca; ed infine la vita stessa, come la filosofia, che è sogno. Teatro nel teatro…)

Mi ritrovo a Bose, senza sapere chi e di che cosa si parlerà. Mi ci ha trascinato un amico, che c’era stato tempo fa, il quale ha evidentemente ritenuto che dovessi andarci almeno una volta.
Massimo Cacciari era l’ospite d’onore – il grand’attore della messa in scena – invitato a parlare del senso epocale del cristianesimo (e dunque della sua possibilità). Enzo Bianchi, il generoso padrone di casa (il regista, suppongo).

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La transplendenza del sublime

Fortunatamente non rientro nella categoria analizzata da Edoardo Camurri – e cioè I filosofi che si autopubblicano – in un articolo comparso qualche settimana fa su La lettura, inserto domenicale del Corriere della sera, prima di tutto perché faccio fatica ad autodefinirmi “filosofo”, e poi perché vi si parla di self-publishing on-line, ovvero di e-book, e dunque di libri in formato digitale. Insomma, per ora l’ho scampata bella. Certo che se un giorno sul mio blog dovessi scrivere frasi come la seguente: “Essere sublime che ci incontra e si eventui, si getta nell’Essere così come nell’Esserci, per abitarvi con la transplendenza del sublime o dell’Essere sublatione sublime, o per abitare poeticamente le insenature sublimi di Kalipso“; o se dovessi solo accennare a cose come la “macrofilia”, le capre parmenidee e i culi planetari – vi prego fin d’ora di smettere di leggermi, di avvertirmi, di lanciarmi almeno un pietoso segnale.
Camurri conclude con elegante ironia, ricordandoci come l’incomprensibilità di un testo filosofico – pubblicato anche seguendo i canoni tradizionali – non sia mai stato un problema per il suo eventuale successo, visto che Heidegger diventò celebre scrivendo cose come “il mondo mondeggia”. Ciò non toglie – aggiungo io – che tali sublimi forme di scrittura o linguaggi starebbero più a loro agio nel limbo della gettità

Profanare i dispositivi

“… e nel farsi comandare
ha trovato la sua nuova libertà”
(G. Gaber)

“Portare alla luce quell’Ingovernabile, che è l’inizio e, insieme, il punto di fuga di ogni politica” – con tale auspicio Giorgio Agamben conclude la sua lezione-saggio intitolata Che cos’è un dispositivo? Non posso qui dilungarmi nell’analisi (di tipo genealogico) del concetto di dispositivo, utilizzato da Foucault fin dagli anni ’70, alle cui spalle c’è il concetto hegeliano di positività e, prima ancora, la latina dispositio e l’oikonomia teologica – anzi, premetto subito che questo risulterà forse un post piuttosto denso ed ellittico, ma qualche esempio addotto qua e là potrà renderlo più comprensibile (ad ogni modo, il testo di Agamben è stato pubblicato nel 2006 da Nottetempo nella collana “I sassi“, quella serie di libretti a 2-3 euro che ricorda un po’ i vecchi e geniali Millelire di Stampalternativa).
Intanto comincio con il riassumere brevemente il significato di dispositivo – prima con le parole di Agamben: “qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi”; – e poi con la mia personale sintesi: il già-dato-e-prodotto tendenzialmente automatico e meccanizzato della rete sociale (una vera e propria ontologia sociale, così come esiste un già-dato dell’elemento biologico) che non solo avviluppa gli individui, ma che soprattutto ne produce (o destruttura) le soggettività. A tal proposito Agamben ipotizza addirittura una partizione ontologica tra due vere e proprie classi: gli esseri viventi e i dispositivi. Nel mezzo i soggetti, quali prodotti del “corpo a corpo” tra le due classi.
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Bioliste

(Un post al giorno, per tre giorni, su cose “biografiche”. Sull’ombelico. Su quanto siamo autocentrati. Io io io. Solo in seconda battuta – il mondo, gli altri, il non-io. Tutta colpa di René. Del Cristianesimo. E della Biologia. Tanto per fare un primo elenco).

Oggi, per l’appunto, si stilano liste. L’altr’ieri ho letto la lista di Roberto Saviano sulle “cose per cui vale la pena vivere”. Ieri mattina alla mia radio preferita ho ascoltato le liste (ridotte all’osso per motivi di programmazione) dei radioascoltatori sul medesimo tema. Dopo di che mi sono detto: voglio redigere anch’io la mia bella lista! Le 10 cose per cui (finora) è valsa la (mia) pena di vivere.
(Di nuovo mi sorprendo per l’indebita interpolazione del termine pena nella lista delle gioie, che sempre mi riprometto di indagare, magari prima o poi lo farò).
Siccome è mia ed è pena, il risultato non potrà che essere stucchevole (aggettivo spesso utilizzato da un ironico e caro amico fuggito in montagna – beato lui!). E dunque, chi non vuole farsene ammorbare, tediare, nauseare – stuccare – salti pure il seguito (certo non me ne dorrò), e, se poi gli garba, attenda con fiducia e legga l’aforisma di domani e il narcisismo numero 3 di posdomani…

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