Sull’insensatezza (e Bartleby)

bartleby

[Mi ero fatto alcune domande a proposito dell’insensatezza, tempo fa. Ne ho ritrovato traccia in quel che segue, una bozza rimasta chiusa a lungo in uno dei tanti cassetti virtuali del blog. E ripescata in seguito al rinvenimento della metafora della “catasta del significato”. Poi, in un altro cassetto, è saltato fuori l’inizio di un commento alla lettura di Bartleby lo scrivano di Melville. Non che la relazione tra i due frammenti costituisca di per sé un antidoto all’irrelatezza quale ingrediente essenziale dell’insensatezza, anche perché apparirebbe piuttosto come giustapposizione posticcia, gioco intellettualistico di rinvii; mi piace tuttavia considerarla come l’avvio di una riflessione organica – aiutata da sei giorni di passeggiate nella mia isola – sul concetto di relazione. Senza il quale nulla avrebbe senso. E il nulla, semplicemente, dilagherebbe]

Quando diciamo che una cosa è insensata? Che cos’è la mancanza di senso? Da che cosa viene originata?
Innanzitutto credo che l’insensatezza vada distinta dall’irrazionalità o dall’illogicità. Si tratta di situazioni diverse. Una cosa può essere insensata, ma non per questo irrazionale; a tal proposito ho qualche dubbio sul fatto che esista qualcosa come l’irrazionalità. Penso anzi che non vi sia nulla di irrazionale, se per irrazionale intendiamo ciò che non ha ragioni, dunque cause precise del suo esserci. Del resto non dico nulla di nuovo, già l’aveva sostenuto Hegel con la faccenda del reale-razionale.
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E la nave va

La nave dei folli_Bosch

Esistono metafore che escono da se stesse, fino ad autosfondarsi per fondare una realtà altra. D’altro canto è la radice stessa del verbo che regge la parola “metafora” ad avere un carattere transeunte ed uscente da sé: metaphero significa “trasporto, trasferisco”, ma anche “cambio, confondo, rivolgo, mi aggiro”. Metaforizzare è andare da un’altra parte – ma non è la parte dove si va quel che conta, quanto piuttosto il portarsi da quella parte, il trasferirsi, l’andare per l’andare, il cambiare di posto – un luogo che è collegato a tutti i luoghi.
Ecco perché i romanzi di Cormac McCarthy, tanto per fare un esempio di un autore che amo molto, pur utilizzando la strada come metafora della vita, finiscono per confondere i piani, e la metafora è la cosa stessa – e d’altro canto la vita è la strada dei viventi così come la strada è la scena essenziale della vita (degli umani in particolare). Ma quel che più conta è che è la vita stessa ad essere metafora di se stessa, poiché si autorappresenta (ed autofonda) come svolgimento, mutazione, movimento, perenne trasferimento di senso da sé a sé. E il senso – così come l’essenziale funzione simbolica della specie umana – funziona proprio così: si tratta in verità di una rete di significati, di simboli, di metafore, dove ogni luogo ed ogni parte richiama l’intero dispositivo (ciò che dis-pone le parti e i luoghi). Ogni cosa è cioè in relazione ad altro, e dunque, paradossalmente, è se stessa solo in quanto significa, allude, transita verso l’alterità. Ogni cosa è metafora ed ogni metafora è cosa.

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(In)utilità della filosofia

[Riporto la traccia del mio intervento all’ultimo incontro del Gruppo di discussione filosofica, presso la biblioteca di Rescaldina. I Lunedì filosofici riprenderanno in autunno]

 

“La filosofia è quella cosa con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale”.
“La nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo”.
Due frasi – una dal sapore popolaresco e canzonatorio, l’altra corrucciata dalla serietà hegeliana – che giungono ad una medesima conclusione: la filosofia come qualcosa di inutile, cioè privo di uno scopo determinato (non ha importanza qui il contenuto dello scopo; ciò che importa è che vi sia una finalizzazione dell’attività: faccio questo per ottenere quest’altro, purché mi sia utile, cioè vantaggioso, che mi apporti dei benefici – anche se poi esistono scopi reconditi, eterogenesi dei fini, beni che si rivelano mali, insomma una casistica esageratamente varia).
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Vita sgombra

(pubblico qui la traccia del mio intervento introduttivo all’incontro del ciclo dei “Lunedì filosofici” dedicato al silenzio e alla meditazione; alcune riflessioni in proposito erano già apparse in precedenza su questo blog)

1.
Il concetto di silenzio (ammesso che designi qualcosa di definito ed oggettivo) deve essere analizzato da punti di vista molto diversi tra di loro: fisico-scientifico, ambientale, sociale, urbanistico, religioso-mistico, psicologico, estetico, ecc. Uno sguardo quantomai multidisciplinare, difficilmente riconducibile ad una sintesi unitaria, e che rischia comunque di non esaurirne le molteplici implicazioni.
Vi è anche un “silenzio della politica”, ma di questo parlerò solo al termine.
E poi – da non dimenticare e però di tutt’altro genere rispetto a quello che tratteremo qui – un silenzio negativo o imposto.
Noi proveremo a scavare un po’, e ad andare alla ricerca di un silenzio più essenziale, radicale, filosofico.

2.
Per cominciare ci serviremo di una divagazione e di un esempio.

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Il punto in 18 punti

[Pensieri di fuoco nascono dai ghiacci. Almeno a me capita così. Sia il mulinare della neve – che apre inusitate prospettive filosofiche – sia le lande ghiacciate, sortiscono nella mia mente effetti stranianti e febbrili.
Camminavo, appunto, sui ghiacci di fine dicembre, in un paesaggio lombardo che ricordava vieppiù la tundra o la taiga, quando mi sovvennero pensieri urgenti con pressanti richieste di fare il punto. E così, un po’ come capitò con le 19 tesi di qualche anno fa, ecco una breve summa del punto filosofico a cui sono ora giunto. Un punto che è solo la fine provvisoria di un nuovo inizio].

1. Tutto sta nella correlazione originaria. Qualcosa (qualunque cosa) è connesso a qualcos’altro (qualunque altra cosa) e pare spingere in direzione di un fondamento – un ab-solutus – quasi a bramarlo come suo proprio completamento; ma può una correlazione – dunque un rinvio da un capo all’altro – fondare ultimativamente qualcosa?

2. Eppure la questione ab origine si presenta in siffatta guisa: un io che pensa, da una parte e, dall’altra, un pensato che è un essere-totalità-indistinzione da cui l’io ha la pretesa di distaccarsi. Senonché “io” è punta acuminata di un corpo (un indivi-duo), che è già da sempre immerso, sommerso, conficcato entro una corporeità diffusa – un essere, un tutto, una nebulosa di corpi, di enti, di oggetti, di viventi.

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Sazio di giorni: visione

Prefigurare la sazietà. Immaginarmi vecchio, ma non cadente.
Sotto un ulivo, l’amaca a dondolare l’ultima fertile lettura.
La collezione di grasse sculture vegetali,
decenni di cura di cui andar fieri.
La collezione di memorie con pochi rimpianti.
I chiaroscuri inevitabili, le ferite che bruciano
– lasciarle bruciare, che è giusto.
La vasta collezione di volti e di gesti e di affetti.
Una musica diversa ad ogni tramonto
eco di tutte le canzoni cantate, di tutte le sinfonie ascoltate.
Un bagno all’alba sotto la torre Saracena, per lavar via la malinconia.
E camminare risalendo il torrente, anche se le gambe dolorano.
E pensare, pensare il più possibile, pure se la mente brucia.
Lasciarla bruciare, male non fa.
Poco cibo, l’essenziale, senza scorticare troppi viventi.
Lasciare il mondo su binari più diritti di un tempo.
Con qualche seme e qualche giovane mente in più in circolazione.
Lasciare alcuni scritti (pochi ed essenziali)
parole che scavano e che s’innalzano (poche ma essenziali)
incise su pietre che il vento e la pioggia scalfiranno
– ma solo tra un po’.
Ed un corpo scolpito da bellezza e avversità
esposto al lavorìo del tempo, senza coprire cicatrice alcuna.
Avere amato altri corpi altre anime,
ma alla fine aver lasciato indietro tutti.
Perché di fronte al gorgo si è soli.
Sazi e soddisfatti, sereni ma non felici,
oh! sarebbe così bello!
Il gorgo non sarebbe poi così male.
Vi si scivolerebbe piano fino in fondo
come fosse un antro fresco e odoroso.
E io, sazio di giorni.

Mezzo secolo

“Chi corre, chi s’appiatta
per ingannare il Tempo, belva attenta e funesta…”
(C. Baudelaire)

È così bello, esserci!
Anche perché così casuale…

È da qualche giorno che sto cercando di scrivere qualcosa di sensato su quell’insensatezza assoluta che è lo scorrere del tempo, il passare degli anni, il consumarsi del (mio) bìos. Che di per sé (o meglio in sé) sono fenomeni del tutto indifferenti, parte di una megamacchina cosmica che segue imperturbabilmente il suo corso, glaciale, muta e misteriosa come un cielo d’inverno trafitto di stelle. Ma che per me devono pur significare qualcosa. E tutto sommato se ne potrebbe concludere che altro senso non ha la vita (vista da una parzialissima e finitissima mente umana) se non quello di essere narrata (dalla medesima mente) attribuendole un senso, un verso, un capo e una coda – quali essi siano. Che è poi una autoattribuzione. Ma veniamo al dettaglio, scendendo dall’algido in sé al bruciante per me

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Filosofia della contingenza – 3

Il tempo è un bambino che gioca coi dadi:
di un bimbo è il regno.
(Eraclito)

[Sommario: 1. La freccia del tempo – 2. Sassi vaganti – 3. Di nuovo: natura e cultura – 4. Parentesi ontologica: la crisi del fondamento – 5. Etica della contingenza – 6. Ancora una filosofia della storia? – 7. Due dilemmi a chiudere – La stoffa delle stelle]

1. Dalla teoria – corroborata da una serie di fatti – che la vita non ci avrebbe previsti (a rigore non avrebbe previsto nessuna delle sue creature o evoluzioni – ma, conseguentemente, essa stessa sarebbe del tutto contingente, cioè poteva benissimo non esserci), Telmo Pievani inclina verso una radicale filosofia della contingenza, ed ecco il motivo del titolo di questa serie di post.
La storia naturale è essenzialmente contingente poiché priva di alcun progetto a priori, ogni specie ed ogni storia di ciascuna specie essendo unica e contraddistinta da serie causali indipendenti la cui congiunzione ha prodotto, a posteriori, quel determinato risultato storico. Il nastro di ciascuna storia non è riavvolgibile, e la freccia del tempo evolutivo corre in una determinata direzione mossa da molteplici serie causali che si congiungono in modo improbabile, inaspettato ed univoco, e non c’è alcuna ragione perché debbano farlo sistematicamente o necessariamente. Questi sarebbero, tra l’altro, gli ingredienti non ancora metabolizzati della rivoluzione darwiniana, che finiscono per storicizzare quel che di solito si pensa sia immutabile: la natura e le sue leggi. Non solo la natura scorre, scorrono anche le sue leggi – e questo scorrimento, come abbiamo già annotato nel post precedente, non è uno svolgimento necessario e predeterminato,  ma un fluire radicalmente contingente.
Questo, tra l’altro, sembrerebbe non valere solo per la vita (tutto sommato un fenomeno minuscolo nell’economia del tutto) ma addirittura per il cosmo o i cosmi, l’universo o i poliversi. La domanda metafisica essenziale fa qui capolino – pure nel bel mezzo di un diluvio bioscientista – e fa risuonare la sua flebile (ma inflessibile) voce: perché, allora, l’essere e non il nulla?

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Introduzione alla filosofia – 1. Gli inizi

(Pubblico qui, a beneficio dei miei “allievi”, la prima delle tracce del corso propedeutico alla filosofia che sto tenendo presso la biblioteca di Rescaldina. È un ciclo di sei lezioni – dunque la programmatica impossibilità di trattare esaurientemente uno qualsiasi dei pensatori, concetti o problemi della storia della filosofia. Diciamo che si tratta di un “aperitivo filosofico” per palati a digiuno, ma affamati e motivati dal desiderio di conoscere. Magari qualche lettore del blog, pur avendo ormai consumato parecchie cene, può trovarle utili o interessanti. Naturalmente saranno un po’ insapori e incolori, inevitabilmente “prosciugate” in favore della sintesi, oltre che prive del variegato gusto dell’oralità, delle digressioni, delle domande, del dialogo, dell’interazione tra le persone – insomma, più “lettera” che “spirito”).

***

1.
Di fronte al “mostro sacro”.
Già solo a sentir nominare la parola “filosofia”, si è portati a pensare a qualcosa di troppo difficile (se non incomprensibile), di astratto (se non astruso), lontano dalla realtà, per pochi, inutile…
C’è del vero, ma anche del falso in questi “luoghi comuni” (e così ci abituiamo fin da subito ad una delle specialità filosofiche: i paradossi!).
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