I decisori della guerra

Come già per la pandemia, la guerra e la crisi internazionale che stiamo vivendo comportano innanzitutto una enorme sfida cognitiva per ciascuno di noi: il paradosso degli eventi che ci sommergono (al punto da ingoiarci) è che richiederebbero molto tempo per essere studiati e analizzati, e però il loro incedere veloce ed inarrestabile richiede decisioni, scelte di campo, azioni immediate.
Leggevo qualche giorno fa l’incipit di un articolo di Pierluigi Fagan, uno studioso di geopolitica e complessità che seguo con interesse da tempo, che si chiedeva “é il momento di farci una domanda: che domanda dovremmo farci?”. Come a dire che anche la produzione di domande (non solo di risposte) è spesso (quando non sempre) predeterminata ed eterodiretta, specie in situazioni emergenziali – che sono ormai la norma da tempo – e se tutto ciò non viene scoperchiato ed analizzato, ed eventualmente smontato, da un punto di vista critico e gnoseologico, qualunque decisione o scelta libera ed informata è del tutto impossibile.
Di nuovo il paradosso è che per poter decidere occorrerebbe studiare e mettere la testa quantomeno in una serie di materie che di solito non si studiano su google – dalla geopolitica alla storia, dalla psicologia sociale alla macroeconomia, dalla strategia alla teoria dei giochi e chissà che altro ancora.
Ecco perché l’assottigliarsi dello spazio della politica (e della coscienza che l’accompagna) è sempre pericoloso: in uno dei suoi scritti sulla guerra, Simone Weil citava molto opportunamente Mussolini che aveva scritto una prefazione all’opera di Machiavelli: «Anche nei paesi dove questi meccanismi [della democrazia] sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda più nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si strappano le corone cartacee della sovranità – buone per i tempi normali – e gli si ordina senz’altro o di accettare una Rivoluzione o una pace o di marciare verso l’ignoto di una guerra. Al popolo non resta che un monosillabo per affermare e obbedire». Il duce guerrafondaio conclude irridendo gli strumenti del referendum democratico, buono solo per decidere dove collocare una fontana, non certo quando sono in gioco quelli che chiama pomposamente gli interessi supremi di un popolo: e col cavolo che i governi democratici lasciano questo potere al popolo-bue.
Dunque, nel mentre ci si scervella ed arrovella cognitivamente ed eticamente – per lo meno per chi lo fa – i decisori vanno alla guerra, fottendosene della volontà popolare e dei dubbi dei filosofi, si chiamino Putin, Biden o Draghi.

I bagni caldi e il poema della forza

Sempre la guerra incombe sugli umani. E sempre li trasforma in cose, meccanismi, strumenti inerti – nelle mani di altri. La guerra pietrifica, raggela – tiene lontana la vita da ogni forma di calore. Dedico queste parole altissime di Simone Weil, tratte da Iliade, il poema della forza (1940), ai costretti e stritolati dalla guerra, affinché possano ritrovare presto il calore che è stato loro sottratto.

Il granello di senape

Ho finalmente visto l’ultimo film di Terrence Malick, La vita nascosta (A Hidden Life). Non esito a definirlo, insieme a La sottile linea rossa e a The Tree of Life, tra i capolavori della cinematografia del XXI secolo.
Sono due le parole che utilizzerei come filo conduttore: turbamento (ciò che provoca in noi spettatori), forza (il motore segreto che muove i protagonisti).
Il film si ispira alla vicenda di Franz Jägerstätter, contadino austriaco che dopo l’Anschluss (per la quale fu l’unico del suo villaggio a votare no), decide di obiettare al servizio militare e di opporsi al regime nazista, fino ad essere ghigliottinato a Berlino il 9 agosto 1943.
La sua scelta è radicale, ispirata dalla fede (che condivide fortemente con la moglie Franziska), e che non cede alle pressioni sociali, né all’ostracismo della comunità e nemmeno alle mediazioni ecclesiastiche. Di fronte a quello che riconosce come il male assoluto, Franz è intransigente e sceglie il martirio (verrà poi beatificato nel 2007).
Ora, di fronte ad una vicenda così drammatica e complessa, Malick non si sottrae e investe tutte le sue energie, il suo inconfondibile stile cinematografico, lo scavo interiore espresso dalla voce fuori campo, il linguaggio dei volti e dei corpi, l’estetica dell’immersione naturalistica, il suo profondo antimilitarismo e amore per la vita – al fine di costruire un’intensa rappresentazione insieme visiva e filosofica, per parlarci della responsabilità di fronte a cui ogni umano sempre si trova quando deve scegliere tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, il vero e il falso.
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Adattamenti

resilienza

Partiamo dall’evidenza storica e sociologica dell’assoluta prevalenza del collettivo sul personale – che, come dice Simone Weil, è un fatto meccanico, come la prevalenza del chilogrammo sul grammo di una bilancia.
Ma, appunto, si tratta di una prevalenza quantitativa, di un fenomeno materiale, non spirituale. Per quanto l’anima bella non possa nulla contro il corso del mondo, salvo autoeliminarsi e confermare una volta di più la propria ininfluenza, vi sono forme e gradi diversi di “resistenza” (o “resilienza” come è ora di moda dire) che attengono a tattiche o strategie di adattamento.
Adattamento è diverso da adeguamento o conformazione-conformismo – è un gesto di un maggior grado di coscienza, e se è vero che il suo ambito specifico è quello della biologia, in ambito sociale ha la forma di una resa vigile e provvisoria con diverse tipologie di manifestazione: dall’attesa alla sospensione del giudizio (epoché) fino alla soluzione estrema del rifiuto di Bartleby.
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Apolidia

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Scrive Simone Weil nel 1943: «Le ‘radici’ dell’essere umano stanno nella sua partecipazione attiva e naturale all’esistenza di una comunità capace di conservare i tesori del passato accanto a una qualche visione del futuro» – e lo scrive in piena epoca di sradicamento.
Quasi 80 anni dopo, la domanda rimane identica: c’è una qualche forma di comunità – e di ‘tesori’ – cui il singolo sente di appartenere insieme ad una visione futura?
Io fatico a vederle.

Si mettono in campo di continuo i concetti, che appaiono opposti e sempre più divaricati, di individuo e comunità, libertà e regole comuni: in una situazione di emergenza sanitaria, si dice, o in quelle a venire climatiche, ecosistemiche ed ambientali, l’individuo non può essere libero di decidere, è la comunità a dover decidere innanzitutto, perché qualunque atto del singolo genera a catena conseguenze che riguardano tutti i componenti della comunità.
Il problema è che già prima non esisteva (o meglio, era in profonda crisi) una comunità, laddove lo stato sociale recedeva per mantenere esclusivamente la governamentalità, il potere coercitivo, la garanzia degli interessi economici di una parte.
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Impersonale

Ciò che in questo anno e mezzo ha del tutto squilibrato la percezione di sé e del collettivo – della tradizionale dialettica tra libertà individuale e pressione sociale – sta tutto nel termine “popolazione” indicato a suo tempo da Foucault.

Io/noi sono ridotti nelle società di massa avanzate a popolazione, cioè a dati e variabili statistiche relativi alla mera potenza biologica, alla malattia, alla mortalità. Non conti tu, non conta la società, contano solo i numeri. Gli individui e i loro referenti comunitari spariscono, vengono inghiottiti dalle tabelle e dai grafici. Ed è questo che spiazza di più. Le epidemie mutano la percezione di sé e della comunità, a prescindere dal peso dei termini relativi, in qualcosa di terribilmente impersonale: la mera sopravvivenza biologica ben rappresentata dall’ordine della sanità pubblica. Popolazione che si autogoverna. In Foucault era intuizione teorica, ora è percezione plastica.

In una situazione “normale” il singolo potrà sempre eccepire, dirsi libero, rifiutare di obbedire, vivere una classica dialettica di conflitto con lo “stato” precedente, in vista di uno “stato” nuovo. È la storia così come ce la immaginiamo (anche se non è detto che sia così).
Quel che stiamo vivendo ora annulla del tutto i termini di quella dialettica (pur immaginaria). Io e noi sono governati da forze ben più necessitanti. Quasi fosse un ritorno allo stato di natura.

Il pericolo che vedo all’orizzonte è che la dialettica conflittuale su cui la modernità politica si è costituita, venga azzerata e sostituita da mere potenze governamentali. Un impersonale che non è il <<bello, giusto, vero, eguale>> di Simone Weil, la risoluzione della logica spartitoria io/collettivo – ma l’anonimo meccanismo che si limita a replicare e conservare le nostre banalissime vite. Immuni e interminabili.

Sono forse un po’ uscito dal tema iniziale, ma il focus del mio intervento sta in questo: tutte le discussioni su che cosa sia libertà, su dove cominci o finisca, vanno sempre messe in relazione a che cosa intendiamo per società e bene comune. Senza questa correlazione, la libertà è un concetto che gira a vuoto.

Filosofia della leggerezza

magritte

Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini,
avrà spostato tutte le pietre di confine;
esse tutte voleranno in aria per lui,
ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola
– “la leggera”.
(F. Nietzsche)

PRIMA PARTE – IL PENSIERO DELLA LEGGEREZZA

«Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite».

Italo Calvino scrive queste parole durante l’estate del 1985, poco prima di morire – parole che si possono ritenere un lascito, un vero e proprio testamento culturale.
Si trovano nella prima delle sei Lezioni americane, quella dedicata alla “Leggerezza”, e ritengo possano ispirare il discorso che vorrei articolare a proposito del passaggio (o se si preferisce della dialettica) tra gravità e leggerezza. Calvino sembra qui alludere ad una visione millenarista, uno snodo epocale, augurandosi che la ruggine materiale e spirituale del Novecento venga abbandonata al suo destino, e auspicando un salto nella dimensione di una categoria – la leggerezza – che va meglio chiarita.

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La forza del pensiero

«La collettività è più potente dell’individuo in tutti gli ambiti, salvo uno solo: il pensare. La collettività è per definizione più forte dell’individuo: il “diritto” dell’individuo contro la società è altrettanto ridicolo del “diritto” del grammo verso la tonnellata. L’individuo non ha che una forza: il pensiero. Ma non come l’intendono i piatti idealisti – coscienza, opinione, ecc. Ilpensiero costituisce una forza e dunque un diritto unicamente nella misura in cui interviene nella vita materiale». 

Così estrapolata dal contesto, questa frase di Simone Weil tratta dai suoi Quaderni (vol. I), può essere interpretata sia come una apologia del collettivo (l’individuo conta come un grammo), sia come il suo esatto rovescio: l’unico modo di cui l’individuo dispone per evitare di essere assorbito e schiacciato dal collettivo, è il suo essere pensante. Dal che potrebbe derivare che il collettivo non pensa (nemmeno attraverso la categoria marxiana di general intellect, o quella averroistica di intelletto attivo, filogenetico e comune a tutti gli umani). Ma l’individuo non è forse un prodotto del collettivo? Da dove sgorga il pensiero, se non da una lunga storia, e da una perenne dialettica tra individuo e comunità, fatta per lo più di rotture, deviazioni, negazioni?

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