In questi due anni si sono andate affermando, specie nella infosfera, una serie di figure che hanno costruito spazi informativi piuttosto accurati sulla pandemia: dati, statistiche, raccolta di informazioni, studi scientifici, predizioni, ecc. In alcuni casi si tratta direttamente di ricercatori e scienziati, in altri di divulgatori o “influencers”, talvolta singoli, talaltra gruppi o collettivi.
Spesso in competizione tra di loro, hanno costruito una vera e propria figura dello spirito dei tempi, una sorta di general intellect pandemico, con tanto di pubblico e tifoserie. (A tal proposito, vista anche la funzione che il “cervello sociale” ha nell’analisi marxiana della società capitalistica, sarebbe interessante operare una critica di tali nuove figure dell’informazione scientifica).
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Apolidia
Scrive Simone Weil nel 1943: «Le ‘radici’ dell’essere umano stanno nella sua partecipazione attiva e naturale all’esistenza di una comunità capace di conservare i tesori del passato accanto a una qualche visione del futuro» – e lo scrive in piena epoca di sradicamento.
Quasi 80 anni dopo, la domanda rimane identica: c’è una qualche forma di comunità – e di ‘tesori’ – cui il singolo sente di appartenere insieme ad una visione futura?
Io fatico a vederle.
Si mettono in campo di continuo i concetti, che appaiono opposti e sempre più divaricati, di individuo e comunità, libertà e regole comuni: in una situazione di emergenza sanitaria, si dice, o in quelle a venire climatiche, ecosistemiche ed ambientali, l’individuo non può essere libero di decidere, è la comunità a dover decidere innanzitutto, perché qualunque atto del singolo genera a catena conseguenze che riguardano tutti i componenti della comunità.
Il problema è che già prima non esisteva (o meglio, era in profonda crisi) una comunità, laddove lo stato sociale recedeva per mantenere esclusivamente la governamentalità, il potere coercitivo, la garanzia degli interessi economici di una parte.
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