Per gli uomini che son morti sono pronte cose che essi non sperano né immaginano.
Il frammento di Eraclito, da alcuni interpreti ritenuto oscuro, a me pare invece sia leggibile come una critica radicale al modo tradizionale di intendere la morte – soprattutto alla modalità mitico-religiosa, e non illuminata dal logos, l’unico piano che ci rende comprensibile (se non accettabile) la morte: gli uomini, allora, non potranno aspettarsi premi, castighi o vite immaginarie oltre la morte. Non c’è niente oltre la morte – c’è solo qualcosa oltre la vita, questa vita, non un’altra.
L’unica prospettiva possibile (prefigurabile ma non descrivibile con chiarezza) è quella della metamorfosi e della ricongiunzione con la physis, la natura. La soglia della morte porta dunque a una dissoluzione che, forse, allude ad una ricomposizione – ad un un vero e proprio mutare dialettico di forme: questo sembra il punto di vista di Eraclito, al di là dell’oscurità del suo dire.
Fatta questa premessa, il problema della morte – dell’angoscia che genera e della sua accettazione – è senz’altro uno dei temi-cardine della filosofia, fin dalle origini, in continuità, ma anche in difformità, con il discorso religioso: ovvero, se la religione (ma più in generale tutto l’apparato spirituale, mitico, culturale, rituale) appare come un grande dispositivo per gestire il fenomeno della morte, la filosofia lo fa attraverso l’unico strumento di cui dispone, ovvero il logos, la ragione.
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