Spettri digitali

[avevo cominciato a scrivere questo post, a metà tra la recensione e la riflessione, un anno fa, subito dopo aver letto il bel libro di Davide Sisto, filosofo e “tanatologo”, come lui stesso ama definirsi; lo riprendo e concludo in questi giorni, mentre mi dedico ad una meditazione sulla morte, nonostante il divieto spinozista, in vista del prossimo incontro del gruppo di discussione filosofico – al centro del quale ci sarà Il libro contro la morte di Elias Canetti]

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Lo psichiatra Eugène Minkowski sostiene che la morte è il suggello della vita, ciò che dà senso alla biografia, altrimenti sfilacciata e insensata  (Pasolini parlava della morte come  di un “fulmineo montaggio”): è a partire da questa angolazione apparentemente paradossale – oltre che dalla considerazione di una epocale rimozione della morte – che Davide Sisto avvia la sua interessante analisi sulla nuova configurazione del rapporto morte/vita (morti/sopravviventi dolenti) nell’epoca dei social, di Facebook e di Instagram.
Facebook, in particolare, col suo dilagare dalla vita on line a quella off line (e viceversa), sembra quasi orientare questo elemento ri-costruttivo della morte: proprio perché si è degli spettri digitali lo scopo è una narrazione il cui senso sia dato dalla morte a venire, dal compimento. Ma, vien da aggiungere, la stessa vita viene ri-orientata e riplasmata da questo perenne montaggio virtuale.
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I selfie del potere, la pancia del popolo (e la stupidità della sinistra)

Sto cercando di decifrare questa immagine, scattata durante i funerali pubblici per le vittime del crollo del ponte di Genova. Credo sia importante decodificarne il significato, anche se può sembrare marginale rispetto al compito primario di interrogarsi sul perché periodicamente questo scellerato paese debba fare i conti con le sue fragilità e debolezze endemiche: geologiche, strutturali ed infrastrutturali, economiche, istituzionali, culturali… l’elenco potrebbe continuare a lungo, a conferma di quel che un tempo si diceva di un’Italia insieme pre-moderna e post-moderna (e forse mai modernizzata davvero).
C’è qui una relazione immediata (o apparentemente tale) tra il sovrano e il suddito, che vengono amorevolmente ritratti insieme, laddove un tempo i potenti si facevano ritrarre in perfetta solitudine, a distanze siderali dal popolino (o dal popolaccio) – che in genere ricambiava detestandoli. Perfetta rappresentazione di quel che oggi viene definito “populismo”, peraltro quasi sempre con una certa sufficienza e approssimazione analitica.
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La piazza dell’intimità

[ricevo e volentieri pubblico questo testo di Giovanni Capurso, docente di Filosofia e storia nei licei baresi e scrittore, quale contributo a quel filone di riflessione che da tempo questo blog affronta, ovvero la trasformazione socioantropologica, il narcisimo e la “pornografia emotiva” indotti dai social media]

Gli stoici dicevano che ci si deve applicare a se stessi, “ritirare in se stessi e lì dimorare”. In tal senso lo scrivere assume un ruolo quasi terapeutico: annotare riflessioni su se stessi da tenere per sé e rileggere in seguito, scrivere trattati e lettere agli amici per aiutarli, tenere taccuini allo scopo di riattivare nel tempo la verità di cui si aveva bisogno erano tutti strumenti fondamentali per tenere viva la propria interiorità. Tra questi gli stoici Seneca e Marco Aurelio ne sono una dimostrazione lampante.
Lo scrivere a mano, cancellare e rivedere è lento, e quella lentezza inevitabilmente favorisce il fluire dei pensieri, li accompagna, li plasma meglio. Più che farci evadere, esso ci rende più profondi. Nel tempo ci ha permesso di avere un’immagine più chiara di noi: che siamo esseri stratificati, che la nostra prerogativa è il mutamento pur mantenendo sempre qualcosa di immutato. E la solitudine ne era un ingrediente indispensabile.
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Smartossici

Sempre più lo smartphone sta diventando l’oggetto principale – il dispositivo universale – che scandisce il tempo di milioni, anzi di miliardi di umani. Si è diffusa una vera e propria smartdipendenza, che ha creato schiere di smartossici e nuove forme di alienazione metropolitana. Da tempo osservo questi processi, che paiono ineluttabili, con un misto di incredulità e di stupore. Naturalmente ci sarà qualcuno che nel frattempo starà specularmente osservando me, mentre a mia volta ne faccio uso. Nessun’altra dipendenza come quella da smartphone è mai stata così rapida, virale, invasiva e… speculare-speculativa, quasi che ci si trovi ormai in presenza di un sostituto evolutivo dei neuroni-specchio.
Il paradosso maggiore che si genera in questa grande smartbolla nella quale siamo immersi – un paradosso ormai ampiamente digerito nonostante la sua evidenza – è l’illusione di essere in contatto col vasto mondo, proprio mentre si perde il contatto col  mondo – con quel che fisicamente e socialmente era il mondo, ritenuto a torto o a ragione troppo piccolo, fino a qualche decennio fa. Si obietterà che questo accade (o accadeva) anche con la lettura dei libri, con la radio e la tv, con l’ascolto della musica in cuffia, e con la dislocazione in un altrove da essi favorita. Ma lo smartphone è infinitamente più potente di un libro o di qualsiasi altro contenitore di suoni e immagini: esso è un borgesiano libro dei libri, e molto, molto di più. È immagine, parola, suono, voce, medium, desiderio, astrazione, specchio delle mie brame – ma soprattutto rappresenta l’apertura potenziale ad ogni cosa, un vero e proprio oggetto metafisico universale, allusivo e simbolico come pochi altri oggetti. Ogni app, da questo punto di vista, è come una formula o una bacchetta magica.
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Fenomenologia delle serie tv

Già in qualche occasione avevo segnalato l’alto tasso filosofico di alcune serie televisive (basti pensare a Six feet under oppure a Lost o anche a Breaking Bad, The walking dead, House of cards, e l’elenco potrebbe continuare): un po’ perché il loro livello qualitativo è enormemente cresciuto da qualche decennio a questa parte, un po’ perché l’esplorazione del mondo – ma anche dei mondi possibili – da parte degli autori si è fatta sempre più sofisticata e sorprendente. Del resto la meraviglia di fronte al mondo (o agli infiniti mondi) non è una delle qualità essenziali del filosofare? Ricordo ad esempio che rimasi per anni fulminato da X-Files, forse per quel voler vedere quel che gli altri non vedevano – o non volevano vedere – e per gli effetti stranianti e per la messa in discussione della verità ufficiale, con quel paranoico I want to believe di Mulder, e poi lo scientismo e lo scetticismo dell’agente Scully – insomma, i fondamentali della gnoseologia e della ricerca filosofica.
In verità su questo blog si è insistito di più sul cinema, forse perché più semplice da recensire, o più immediatamente identificabile con alcune tematiche filosofiche forti. D’altro canto, parallelamente al diffondersi della mania seriale televisiva, abbiamo assistito all’uscita di saggi che analizzano il fenomeno, dai Simpson a Lost, dal Dottor House fino addirittura all’orripilante Peppa Pig – anche se forse la bibliografia più ampia la detiene ancora Matrix, per quanto non si tratti di serie televisiva, ma cinematografica.
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Rousseau è su Facebook! (e ci guarda)

Panopticon

Byung-Chul Han legge l’attuale società globale come pervasa dal mito della trasparenza.
Si attribuisce a questo termine, in genere, una caratteristica di positività: un potere trasparente, rapporti trasparenti tra le persone, maggiore trasparenza nell’agire pubblico dovrebbero in teoria giovare al buon funzionamento della società.
Salvo che, a ben vedere, La società della trasparenza (questo il titolo del suo recente saggio edito in Italia da nottetempo), proprio in quanto affetta da un eccesso di positività (tutto in evidenza, nulla in ombra, via ogni negativo) si trasforma in un dispositivo sociale quantomai oppressivo.
Han, com’è nel suo stile, abbozza molti argomenti senza approfondirli, esponendoceli in una serie di brevi capitoli per tesi e suggestioni. Sullo sfondo i concetti già esposti nel breve saggio La società della stanchezza (società della prestazione, iperpositività, autosfruttamento, ecc.).
Riprenderò qui alcuni riferimenti che potremmo definire “inquietanti” a proposito del concetto di trasparenza inteso come “far luce”, “illuminare”, “svelare”, significati tipici (se non archetipici) del pensiero filosofico da Platone in poi.
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