“L’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte”

(traccia dell’incontro del Gruppo di discussione filosofica del 10 gennaio 2022)

Nonostante Canetti dica in maniera tranchant che la filosofia non ha nulla a che spartire con la morte (semmai la religione), fin dagli inizi i filosofi non hanno fatto altro che misurarsi con la morte e la finitezza umana. Lo hanno fatto nelle maniere più diverse: sostenendo che meditare la morte sia utile al fine di prepararsi ad affrontarla, oppure che sia meglio non pensarvi affatto e rimuoverla dal nostro animo, oppure identificandola come il senso profondo dell’esistenza umana. Ho individuato 7 filosofi (meno uno che non lo è di professione) per 7 idee sulla morte, che ci danno conto di questa varietà di vedute e di sensibilità. Il primo paradosso è che sette morti ci dicano qualcosa sulla morte – e la dicano proprio a noi che non potremo mai saperne nulla, essendo vivi. Per ora. La morte è una soglia che sfugge del tutto alla nostra comprensione.

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7 parole per 7 meditazioni – 4. Persona

Il concetto di persona ci svela fin dall’etimologia il problema riguardante le teorie dell’individualità: persona è, letteralmente, maschera (dal greco prosopon mediato forse dall’etrusco phersu), termine teatrale che allude alla duplicità, se non addirittura alla doppiezza, o comunque alla stratificazione e molteplicità di quella parte di noi stessi che denominiamo “io”. Pare che il primo filosofo ad utilizzare “persona” sia stato lo stoico Panezio, nel II secolo a.C.: interessante notare come gli stoici concepissero il ruolo dell’individuo in termini di “parte” (moira) nel destino del mondo – un po’ come la maschera svolge un ruolo nella scena teatrale.
Già tutti questi termini – io, me stesso, individuo (non-diviso, equivalente latino del greco a-tomos), persona, cui possiamo aggiungere soggetto, anima, coscienza – non sono affatto sovrapponibili, ciascuno di essi allude a significati o sfumature diverse; in ogni caso, quando parliamo di noi stessi, la prima cosa che salta agli occhi è proprio questa molteplicità : io sono io, ho un’identità (il nome è già una definizione di singolarità), ma se vado poi a vedere che cosa c’è in questo contenitore individuale – cosa c’è dietro la maschera-persona – scoprirò una varietà di elementi, spesso contraddittori. Io sono vasto, contengo moltitudini, dice Walt Whitman.

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Quinta parola: libertà

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[Sommario: Libertà e filosofia – L’uomo-misura di Protagora – Socrate eroe classico della libertà – Diogene hippy e cosmopolita – Il giardino di Epicuro – La catena degli stoici – Il libero arbitrio di Agostino – L’uomo proteiforme di Pico della Mirandola – Necessità e libertà in Spinoza – Stato e individuo: il liberalismo – Libertà, natura e spirito – L’oltreuomo nietzscheano – Sartre e l’esistenzialismo: libertà come possibilità – Libertà moltitudinaria – Responsabilità, alterità e libertà]

Il concetto di libertà è piuttosto sfuggente e, soprattutto, cangiante: epoche e culture diverse intendono questo termine in maniere inevitabilmente diverse. Ma senza voler entrare nella molteplicità dei significati e delle sfumature, evocare la libertà nel campo filosofico significa evocare nello stesso tempo una delle condizioni essenziali del pensiero: di libertà i filosofi hanno bisogno come l’aria, senza libertà di pensiero non ci può essere filosofia.
Ma di che cosa realmente parliamo quando parliamo di libertà? Da che cosa (o di che cosa) siamo (o dobbiamo) essere liberi? E poi: possiamo davvero esserlo, o si tratta di una pura illusione?
Ci faremo queste domande scorrendo velocemente il pensiero di alcuni filosofi o correnti filosofiche, dalla grecità all’epoca contemporanea.

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Secondo lunedì: éros e agàpe

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[Quella che segue è la traccia del mio intervento al Gruppo di discussione filosofica tenutosi lo scorso lunedì 18 novembre, cui è seguito il contributo dell’amico e teologo Marco Paleari. Che ci ha consegnato una visione tutt’altro che eterea dell’amore cristiano – éros come un uscire da sé e andare verso l’altro – che affonda le proprie radici in una complessa tradizione religiosa e spirituale non riducibile a quella occidentale o al cattolicesimo, con interessanti riferimenti all’arte, all’iconografia, al misticismo e ad un pensiero teologico più propenso ad indicare che a prescrivere, decisamente più comprensivo che moraleggiante. È stata una serata ricca di spunti, con una partecipazione davvero straordinaria – fin nel numero di presenze, che ha superato le 30 persone, ma che ha scontato l’ovvio limite dell’ampiezza del tema e della pochezza del tempo a disposizione: troppa carne al fuoco, insomma, anche se preferirei un’altra metafora, visto il mio vegetarianesimo…]

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Cominciamo dalle parole e dai loro significati originari. Ne metto in gioco tre, tutte della lingua greca:

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(in verità quest’ultima è pochissimo usata, ed entrerà nel vocabolario religioso quando si tratterà di tradurre in lingua greca il concetto dell’amore di Dio nei confronti degli uomini).
Questo il significato delle due parole più utilizzate:
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Socrate a San Diego

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Nel celebre ritratto – plastico ed antioleografico – che Hegel ci consegna di Socrate nelle sue Lezioni berlinesi, il filosofo tedesco parla ad un certo punto di “raffinata urbanità attica”. Quell’espressione ha sempre stuzzicato il mio immaginario, tanto da cercare di rappresentarmi praticamente (non solo teoreticamente) a cosa alludesse Hegel e se ciò corrispondesse o meno alla realtà ateniese del V secolo a.C.
A sentir lui, si tratterebbe della «capacità di muoversi liberamente nelle relazioni più libere, una loquacità aperta ma sempre vigile che, mentre ha una sua intima universalità, allo stesso tempo sa cogliere il giusto vivo rapporto con gli individui e con la situazione, in cui essa si muove». I dialoghi socratici sarebbero pertanto «da annoverarsi tra i modelli più perfetti di questa cultura fine e socievole» (Lezioni sulla storia della filosofia, La Nuova Italia, vol. 2, p. 52).
Ora, io non so se gli americani siano capaci di “raffinata urbanità” o di “intima universalità”, ma certo non si può dire che manchino loro gentilezza e socievolezza.
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Sazio di giorni

(endiadi mortuaria, ma per nulla necrofila ed anzi vitalissima)

L’amica filosofa Nicoletta Poidimani, durante la presentazione all’ex-Cuem autogestita della Statale di Milano del libro Corpo e rivoluzione – raccolta di contributi sul pensiero di Luciano Parinetto – dice innanzitutto che gli manca. Cosa ovvia, potrebbe rispondere chi abbia conosciuto il loro rapporto, non solo filosofico ma anche “umano” (così si suol dire, come se la filosofia fosse disumana).
Ma il senso di questa mancanza va meglio indagato. Lei dice che le manca soprattutto l’intreccio con i pensieri, le parole e i giudizi della persona che è assente e, ora, muta. E fa alcuni esempi: “mi chiedo che cosa direbbe su questo, che battuta farebbe su quell’altro”, e così via. Eppure, paradossalmente, è proprio quel che meno dovrebbe o potrebbe mancare, questo lato di un’alterità assente. Ciò che manca una volta per tutte è il suo corpo – la configurazione di parti che con la morte semplicemente si decompone, lasciando che ogni atomo o parte segua altre strade e dia vita ad altri corpi o composizioni.
Certo, noi sappiamo spinozianamente che quella configurazione è eterna (non immortale) – la sua comparsa sulla scena dei modi della sostanza è per sempre, e non potrà mai più recedere dal cerchio dell’apparire (ma qui non vorrei impelagarmi nel linguaggio severiniano, oltre al fatto che tale certezza appaga forse la ragione, ma per nulla il cuore).
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Introduzione alla filosofia – 2. I “giganti”: Socrate, Platone, Aristotele

Noi siamo come nani sulle spalle di giganti
così che possiamo vedere più cose di loro
e più lontante, non certo per l’altezza del
nostro corpo, ma perché siamo sollevati
e portati in alto dalla statura dei giganti

(Bernardo di Chartres)

Socrate non è una dottrina, è una vita
(A. Banfi)

Mi tremano le vene dei polsi se penso che dovrò parlare, in poco più di un’ora, di Socrate, Platone, Aristotele – cioè delle tre figure più influenti, nel bene e nel male, di tutta la filosofia occidentale.
Comunque ci piazzeremo comodamente come nani sulle spalle dei tre “giganti”: la celebre metafora, che risale al filosofo medioevale Bernardo di Chartres, illustra chiaramente la situazione nella quale ci troviamo quando ci confrontiamo con la tradizione (sia essa quella di artisti o pensatori, così come della specie più in generale). Rispetto, riverenza, imbarazzo, persino impotenza (hanno già detto, fatto e pensato tutto loro!) – ma, anche, la capacità di essere fortunati e di poter guardare più lontano. Oltretutto è un’immagine particolarmente calzante per i tre filosofi di cui parleremo, dato che gran parte delle questioni filosofiche e dei relativi termini, l’idea stessa di discussione filosofica, una certa figura di filosofo, nascono proprio con loro.

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Berluskocrate

Leggo e ascolto in questi giorni – anche se distrattamente – analisi varie sulla resistenza ad indignarsi da parte degli italiani a proposito del loro amorale presidente del consiglio. A parte l’antico familismo altrettanto amorale di tanta parte del belpaese (insieme a un bel po’ di ipocrisia gesuitico-papista), mi è inavvertitamente passata per la testa una iperbolica ed irriverente spiegazione di tale deprecabile italico immobilismo.
Sentite un po’ qua: in realtà gli italiani nella stragrande maggioranza non s’indignano, poiché riconoscono nel loro attuale ducetto (come già nel precedente) un immorale ed anarcoindividualista novello Socrate. Tesi strampalata, direte voi. Eppure, provate a cimentarvi in qualche paragone…

A Socrate piacevano i “giovinetti”. A Berlusconi pure (vabbé, “giovinette”, ma sempre di carne fresca si tratta).
Socrate partecipava molto volentieri ai simposi. Anche il festaiolo Berlusconi non ne perde uno.
Socrate venne accusato di avere corrotto i giovani ateniesi. Berlusconi ha fatto molto di più: ha corrotto un intero paese.
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