Partiamo, come sempre, dalle origini, dal costituirsi dei significati all’interno dello spazio originario della politica (e della “democrazia”) nel mondo greco.
È Platone il filosofo che, forse più di ogni altro, si è cimentato nell’opera di definire la “repubblica ideale”: una delle sue opere più celebri porta, non a caso, questo nome (La Repubblica, che in greco suona con Politeia, pressoché intraducibile, ma che è riconducibile alle concezioni che riguardano l’ordinamento politico, lo spirito della città e la partecipazione politica del cittadino – forse “comunità politica” può rendere l’idea).
Ed è proprio in quel contesto (che è però una summa del suo pensiero: teoria delle idee, teoria della conoscenza, estetica, ecc.) che troviamo una frase che senz’altro può ben ispirare il nostro lavoro di ricerca sulle origini dello spirito utopico:
«Comprendo, disse; ti riferisci a quello stato di cui abbiamo discorso ora, mentre lo fondavamo: uno stato che esiste solo a parole, perché non credo che esista in alcun luogo della terra. – Ma forse nel cielo, replicai, ne esiste un modello, per chi voglia vederlo e con questa visione fondare la propria personalità. Del resto non ha alcuna importanza che questo stato esista oggi o in futuro, in qualche luogo, perché l’uomo di cui parliamo svolgerà la sua attività politica solamente in questo, e in nessun altro». (Repubblica, IX, 592 a,b)
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La storia è sogno
Nel leggere l’ultimo romanzo di Giuseppe Lupo, si ha la netta sensazione di stare in bilico tra la storia e il sogno – e di fatti l’autore scrive nella nota finale: «I fatti narrati in questo romanzo sono figli dell’immaginazione e della verità, sia pure camuffata di finzione. Più che nella menzogna della letteratura, credo nell’utopia o nel sogno della storia».
Di storia ce n’è molta ne I viaggiatori di nuvole: siamo alla fine del XV secolo, nel corso di un passaggio cruciale della storia europea: la nascita dell’epoca moderna annunciata dalla rivoluzione della stampa e dai viaggi oltreoceano (oltre che, ahimé, dalle nuove tecnologie militari). E proprio il viaggio, la scrittura, la guerra sono tre elementi portanti della narrazione.
Il viaggio è evocato fin nel titolo (e l’autore ce ne ha svelato la genesi, durante l’interessante presentazione tenutasi lo scorso sabato 7 dicembre nella biblioteca di Rescaldina) e del resto la trama del romanzo proprio ad un viaggio è “riducibile”: il protagonista, Zosimo Aleppo, un giovane apprendista stampatore di Venezia di origini ebraiche, viaggerà per un anno alla ricerca di alcune misteriose pergamene, che il suo padrone vuole far stampare, con la promessa (o il miraggio) di un veloce arricchimento. La dritta viene da un certo Lionardo di passaggio a Milano in quegli anni. Ma non è certo il denaro la molla essenziale degli eventi che andranno accadendo.
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La schizofrenia ontologica – Oltrepassare Severino 2
Leggendo il libro di ricordi di Emanuele Severino – che com’è giusto che sia mescola esistenza e filosofia, affetti e ragionamenti, biografia e ontologia – si ha tuttavia l’impressione di una schizofrenia di fondo. Uso il termine nel suo significato originario (“divisione della mente”), senza dunque alcuna connotazione psichiatrica, per sottolineare una vera e propria Trennung filosofica, una scissione che non è soltanto quella convenzionale tra l’io e il mondo, l’individuo e la società, la finitezza della mia mente e l’intero universo nel quale quella mente si sente sperduta, ma che attiene al discorso filosofico essenziale di Severino. Lo esemplifico con due metafore da lui utilizzate nel testo:
la prima allude all’altalenante condizione del sogno e della veglia nella quale ci troviamo immersi, un tema che da Eraclito a Calderon de la Barca ha una lunga tradizione, ma che in Severino pare caricarsi di una inaudita radicalità: il sogno (“la terra isolata dal destino”) essendo la nostra condizione fondamentale, da cui emerge la via della veglia (e dunque della verità), che solo in quanto porta alla luce il sapere che l’apparire di quell’apparire non è un sogno, può indicare il “destino”, cioè lo stare assolutamente incondizionato;
la seconda metafora, di ascendenza evangelica, è quella del campo dove crescono il loglio e il grano: lo spazio dell’uno o dell’altro delimita rispettivamente quel che è proprio dell'”esser uomo” (quell’uomo errante che è Emanuele Severino), e quel che invece è “testimonianza del destino”, un Io-destino infinitamente altro dall’io-Severino. Il merito che Severino pare attribuirsi è quello che nel “suo” campo (ma è “suo”? e che cos’è il campo? – è lui stesso a chiederselo) è via via andato crescendo il grano, confinando il loglio in spazi sempre più ristretti.
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Il pane e i gelsomini
Oggi nasce il nuovo uomo arabo, la nuova donna araba
– e questo gli occidentali se lo devono ficcare in testa!
(un giornalista egiziano)
Questa fu dunque una splendida aurora. Tutti gli esseri pensanti
hanno celebrato concordi quest’epoca.
Dominò in quel tempo una nobile commozione,
il mondo fu percorso e agitato da un entusiasmo dello spirito,
come se allora fosse finalmente avvenuta
la vera conciliazione del divino col mondo.
(un filosofo tedesco)
1. Venti anni dopo la “fine della storia” con il “crollo del comunismo” (ma da qualche parte c’era stato?); dieci anni dopo la fine della fine della storia con l’attacco alle Torri di New York; dopo il tentativo imperiale di esportare a suon di bombe la democrazia, finito piuttosto male; dopo la scoperta tardiva da parte dell’Occidente che non era più l’ombelico del mondo, ma che là fuori c’era una realtà multipolare e irriducibile ad unità; dopo l’avvio del secolo cinese; nel bel mezzo di questo processo ancora in divenire di eterna uscita dal Novecento, ben poco chiaro nella direzione che prenderà – ecco esplodere un bel quarantotto là dove gli occhi dell’Europa si posavano solo per esotiche vacanze o ataviche paure – gestite da amichevoli e però infidi tiranni…
Der Abschied
Il filosofo della musica Quirino Principe definisce azzurre quelle musiche, cariche di mistero, “che non ci hanno ancora svelato né mai ci sveleranno l’orizzonte ultimo del loro destino né lo spettro imprigionato nel loro cuore”. Musiche quantomai spettrali, dunque. Come Das Lied von der Erde di Gustav Mahler. Una vera e propria sinfonia (anche se spuria rispetto alla lista delle dieci ufficiali), che assegna alla voce e alla poesia – oltre che alle armonie e disarmonie sempre più rarefatte e misteriose dell’ultimo periodo del grande compositore mitteleuropeo – il compito di disegnare i suoni che quell’azzurro siano in grado di rappresentare.
Non posso non notare, da questo punto di vista, come appaia stridente quel titolo – Il canto della terra – nei confronti dell’allusività trasognata all’infinito e al suo colore più tipico. Quasi il segno della necessità di un abbandono e di un tramonto (si veda il lunghissimo Addio, il canto finale che occupa metà della composizione), da parte di quella creatura che nella/alla terra ha fin troppo confidato e affidato i propri desideri. Mentre è preferibile che quei desideri diventino sogni (“Ogni desiderio ora vorrebbe sognare”) e che si tingano d’azzurro.
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