Filosofie della storia – 5. Post-moderno, fine della storia e messianismo

L’ultimo scorcio del Novecento sembra chiudersi filosoficamente con una sorta di resa della ragione che ha fondato la modernità: il filosofo francese Lyotard pubblica nel 1979 La condizione postmoderna, lo scritto con il quale si apre l’epoca della fine delle grandi narrazioni (le ideologie totalizzanti e unificanti, l’universale, l’assoluto, ecc.) – e però entra in crisi lo stesso asse portante del “moderno”, la moda e il modo dell’ora, del recente, del nuovo, l’ideologia del progresso infinito.
La medesima idea di filosofia della storia, di storia universale, di un’evoluzione storica unitaria entra in crisi: potremmo dire che si apre l’epoca della crisi per antonomasia interna al mondo occidentale (krisis è parola greca che indica un apice di forza e di tensione che occorrerà risolvere in un senso o nell’altro, ma che nella lotta che lo contraddistingue resta incerto nel suo esito).

A partire allora da questa irreversibile consapevolezza critica – e di disincanto – proveremo a mettere in scena alcune tesi di filosofia della storia elaborate nel corso del ‘900, secolo quantomai storico se non storiolatrico, le cui certezze però vanno in crisi proprio al suo volgere: il secolo forse più denso di storia che si sia mai dato, se non altro per le tragedie storiche che vi si sono svolte, e che non hanno precedenti, si chiude con un senso di totale irresolutezza riguardo al futuro.

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Verità magnetica

“Che cosa è la verità? Per la massa è ciò che si legge e si sente dire continuamente. Qualche povero ingenuo può anche mettersi al tavolino e raccogliere principî onde definire la ‘verità’ – ma questa resterà la sua verità. L’altra verità, quella pubblica del momento, quella che soltanto importa nel mondo reale dell’azione e del successo, oggi è un prodotto della stampa. Ciò che la stampa vuole è vero. Chi controlla la stampa crea, trasforma, cambia le verità. Bastano tre settimane di lavoro di stampa e tutto il mondo conoscerà ‘la verità’.  Gli argomenti corrispondenti saranno inconfutabili finché vi sarà il denaro necessario per ripeterli ininterrottamente. Anche la retorica antica si basava sull’effetto e non sul contenuto oggettivo del discorso […] ma essa si limitava ad agire sui presenti e al momento. Il dinamismo della stampa moderna mira invece ad effetti durevoli. Essa vuole esercitare sulle menti una costante pressione. I suoi argomenti sono confutati soltanto nel punto in cui una più forte potenza finanziaria si mette dalla parte di chi afferma gli argomenti opposti dandogli modo di farli circolare più insistentemente degli altri. Allora l’ago magnetico della pubblica opinione si sposterà verso il polo più forte. Ognuno si convincerà subito della verità nuova: come se d’un tratto si destasse da un errore.”

(O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente)

MEMORIA, IMMEMORIALITA’, POLEMOS: note a margine della “verità terribile” di Eraclito

“Sia come si vuole, sulle acque mosse dall’Oceano
prese a svelarsi la faccia umana; il mare apparve
lastricato di innumerevoli facce rivolte ai cieli;
facce imploranti, irose, disperate; facce che
emergevano a migliaia, a miriadi, a generazioni”.
(De Quincey, Confessioni di un mangiatore d’oppio)

Ciò che in genere più colpisce del discorso sulla guerra è quel tratto di “immemorialità” (e implicitamente di “naturalità”) che si tende ad attribuirle: c’è sempre stata… da che mondo è mondo… se ne ha da sempre memoria... – e dunque, necessariamente, non avrà fine a meno che non abbia fine il mondo. Si fa cioè di un elemento storico e determinato della storia umana – la guerra essendo violenza organizzata, tecnica, strumentale, politica, e non semplicemente il continuum biologico dell’aggressività e della lotta intraspecifica – un dato ontologico immodificabile. Esiste cioè, e precisamente nella tradizione filosofica occidentale, una vera e propria cosmologia e metafisica della guerra che va ancora meglio indagata.
I pensatori greci, e su tutti Eraclito, fanno del pòlemos un vero e proprio elemento fondativo-generativo degli enti e delle loro differenze. Al che la domanda da farsi è duplice: la guerra è davvero un modo necessario ed ineliminabile di funzionamento del cosmo? Da cui segue, se così fosse, il quesito circa una distinzione di vitale importanza, quella cioè tra guerra (distruttiva delle differenze) e conflitto (che oppone ma rispetta le differenze mettendole in movimento).
Per rispondere a queste domande, anzi per verificare preliminarmente che si tratti di domande fondate e ben poste, si deve innanzitutto riprendere in mano il testo di Eraclito, sforzandosi di penetrare quella aura misteriosa e sacrale che li pervade, quell’intrico di immagini allusive e talvolta oscure, e, insieme a tutto questo, l’ormai spessa stratificazione di interpretazioni che vi si sono addossate (già le diverse traduzioni sono a loro modo delle interpretazioni) – ma ciò non toglie che si debba provare oggi ad interrogare ancora quei frammenti, anche perché appare evidente come non ci si sia granché spostati da lì, come se ci fossimo incistati e bloccati sulla soglia di quel domandare originario.

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