
Non vorrei che passasse per un’autocelebrazione. Vi prego di credermi: non lo è. Anche perché non c’è proprio nulla da celebrare, né in pubblico né tantomeno in privato. Se proprio si vuole attribuire un senso alla cosa, diciamo che si tratta di un velato auspicio, di una timida allusione. Del resto non potevo nemmeno passare sotto silenzio una ricorrenza numerica così ghiotta. I numeri, si sa, sono oggetti potenti, dal grande impatto simbolico (proprio ieri, guarda caso, un’amica insegnante mi ha invitato in una sua classe a parlare di numeri e di Pitagora…).
Questo qui, poi, è bello tondo e rimbalza mentre lo si scandisce, quasi volesse tornare indietro o incastrarsi tra denti e palato. Se si prescinde poi dalla fonazione e si guarda solo al lato astratto-seriale, si può notare come sia preceduto e seguito da due numeri primi, che ora poi vanno molto di moda (nulla di strano si dirà, visto che succede anche al 18, o al 42 o al… no, al 52 non succede) – e comunque si tratta di due numeri un po’ insipidi, inodori e incolori. Il primo è già passato (per fortuna), ma l’altro addavenì (se verrà).
E comunque, tanto per continuare a dar numeri: 17 era troppo presto, a 68 manca un bel po’, 89 sarà troppo tardi, mentre lui – 48 – è qui e ora, è la summa dei miei anni, e devo dire che mi piace. Quarantotto è rivolta, confusione, subbuglio, baccano, caciara, bordello, casino – curiose associazioni – mettere a soqquadro e sottosopra. E poi mica tutti i numeri hanno una voce nei dizionari (gli insipidi 47 e 49 di solito non ce l’hanno).
Certo, si tratta di numeri scorticati, quasi sradicati dai loro secoli: si dice, appunto, 48, non 1848, 17 non 1917, 68 non 1968, 89 non 1789. Questo stratagemma un po’ ce li avvicina, anni e numeri per antonomasia – come a dire che se per caso nel 2017 dovesse scoppiare una qualche rivoluzione, beh allora sì che sarebbe un bel problema. Non potremmo più dire il 17. E succederebbe un altro 48.
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