“L’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte”

(traccia dell’incontro del Gruppo di discussione filosofica del 10 gennaio 2022)

Nonostante Canetti dica in maniera tranchant che la filosofia non ha nulla a che spartire con la morte (semmai la religione), fin dagli inizi i filosofi non hanno fatto altro che misurarsi con la morte e la finitezza umana. Lo hanno fatto nelle maniere più diverse: sostenendo che meditare la morte sia utile al fine di prepararsi ad affrontarla, oppure che sia meglio non pensarvi affatto e rimuoverla dal nostro animo, oppure identificandola come il senso profondo dell’esistenza umana. Ho individuato 7 filosofi (meno uno che non lo è di professione) per 7 idee sulla morte, che ci danno conto di questa varietà di vedute e di sensibilità. Il primo paradosso è che sette morti ci dicano qualcosa sulla morte – e la dicano proprio a noi che non potremo mai saperne nulla, essendo vivi. Per ora. La morte è una soglia che sfugge del tutto alla nostra comprensione.

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Filosofia della leggerezza

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Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini,
avrà spostato tutte le pietre di confine;
esse tutte voleranno in aria per lui,
ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola
– “la leggera”.
(F. Nietzsche)

PRIMA PARTE – IL PENSIERO DELLA LEGGEREZZA

«Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite».

Italo Calvino scrive queste parole durante l’estate del 1985, poco prima di morire – parole che si possono ritenere un lascito, un vero e proprio testamento culturale.
Si trovano nella prima delle sei Lezioni americane, quella dedicata alla “Leggerezza”, e ritengo possano ispirare il discorso che vorrei articolare a proposito del passaggio (o se si preferisce della dialettica) tra gravità e leggerezza. Calvino sembra qui alludere ad una visione millenarista, uno snodo epocale, augurandosi che la ruggine materiale e spirituale del Novecento venga abbandonata al suo destino, e auspicando un salto nella dimensione di una categoria – la leggerezza – che va meglio chiarita.

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Dopo-follia

Nel corso degli anni ’50 negli Stati Uniti ci fu una corsa per sconfiggere la poliomielite che colpiva migliaia di bambini, specie d’estate: le scoperte di due diversi vaccini anti-polio da parte di Jonas Salk e Albert Bruce Sabin furono salutate dal giubilo popolare e da una grande mobilitazione collettiva. I bambini vennero sottoposti ad una sperimentazione di massa, che finì per metterli in sicurezza. Entrambi gli scienziati rinunciarono al brevetto: Salk rispose a un giornalista che gli chiedeva chi ne fossero i detentori, con la celebre frase «Le persone, direi. Non c’è un brevetto. Puoi forse brevettare il sole?»; e Sabin lanciò provocatoriamente il suo vaccino, che poi venne preferito a quello di Salk, nel blocco sovietico, in piena guerra fredda.
Che cosa è cambiato dopo 70 anni? Come mai non ci sono state manifestazioni di gioia, esultanza, sollievo, alla notizia delle scoperte dei vaccini anti-Covid, in un tempo peraltro molto breve, che non ha avuto precedenti nella storia della medicina?
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Il biopunto in 11 punti: il virus come iper-oggetto

[Sommario: Il peso dell’incompreso – La forma del virus – Iperoggetti – Le tesi biopolitiche di Foucault – Masse biologiche e masse psichiche – Corpi sani, corpi potenziati – Homme-machine – Riduzionismo: ta stoicheia – Limite, Hybris, Aidos – Meccanizzazione  e addomesticamento – Pesantezza della tecnica – Bioetica ristretta e Bioetica generale – In bilico]

1. Non avrei voluto scrivere più nulla sul virus e sulla pandemia, almeno per qualche tempo, dato che già lo sento come un peso che grava quotidianamente, ma l’impulso a riflettere, pensare, scrivere, e così facendo liberarsi dei pesi dell’incompreso (o almeno provarci) non è controllabile, viene e basta, e occorre obbedirgli. E poi il primo anniversario poteva anche essere un’occasione buona per fare il punto sulla situazione. Cosa che risulta non meno problematica oggi di un anno fa, quando marciavamo verso l’ignoto, mentre ora ci viene detto che si sta per uscire dal tunnel e che l’immunizzazione arrecata dai vaccini sarà la luce che ci salverà.
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Relatezza

L’unica risposta all’insensatezza è la relatezza.
Ho parlato qua e là in questo blog di irrelatezza, come causa essenziale del male umano: credersi sciolti da ogni legame (dagli altri, dalla natura, dalla società, dalla memoria storica, persino da se stessi), e per ciò stesso dire “io” senza alcuna relazione con ciò che è altro da sé, con il non-io. Io è già in sé l’altro – perché è tutti gli altri che scorrono simultaneamente.
Derivo quindi relatezza dal rovescio di irrelatezza, ragion per cui non la chiamo relazione o correlazione o connessione, perché per come la intendo vorrei fosse un’apertura ad ampio spettro, uno sguardo differente (che non deriva dall’io ma dal non-io, o da un sentirsi prima di tutto non-io), una rete di relazioni, un intrico inestricabile di contatti con ogni cosa, ente, vivente. Un puntiforme essere in relazione. Relatezza come modalità di essere al mondo, di esistere.
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Utile comune

«L’uomo guidato dalla ragione è più libero nello Stato [in civitate], dove vive secondo il decreto comune, che nella solitudine dove obbedisce soltanto a sé stesso».
Nel passaggio dal corpo individuale (mosso dai propri desideri) al corpo sociale, Spinoza si chiede come rendere la schiavitù degli affetti una forza comune.
Come cioè smentire l’assunto di Hobbes (homo homini lupus) e rovesciarlo nella massima “l’uomo è un Dio per l’uomo” [hominem homini Deum esse].
Ciò può essere fatto solo con la guida della ragione e della conoscenza, in grado di trasformare l’utile individuale in utilità comune:
«Gli uomini cioè non possono desiderare per la conservazione del proprio essere niente di più eccellente se non che tutti concordino in tutto, in modo che le Menti e i Corpi formino una sola Mente e un solo Corpo, e tutti si sforzino insieme, per quanto possono di conservare il proprio essere, e tutti insieme cerchino per sé l’utile comune».
Spinoza immagina che si possa, anzi si debba, desiderare per l’altro il bene che si appetisce per sé.
Direi che dopo 350 anni non ci siamo mossi da lì. Anzi, quei dilemmi si sono fatti ancora più urgenti.

7 parole per 7 meditazioni – 3. Morte

Per gli uomini che son morti sono pronte cose che essi non sperano né immaginano.

Il frammento di Eraclito, da alcuni interpreti ritenuto oscuro, a me pare invece sia leggibile come una critica radicale al modo tradizionale di intendere la morte – soprattutto alla modalità mitico-religiosa, e non illuminata dal logos, l’unico piano che ci rende comprensibile (se non accettabile) la morte: gli uomini, allora, non potranno aspettarsi premi, castighi o vite immaginarie oltre la morte. Non c’è niente oltre la morte – c’è solo qualcosa oltre la vita, questa vita, non un’altra.
L’unica prospettiva possibile (prefigurabile ma non descrivibile con chiarezza) è quella della metamorfosi e della ricongiunzione con la physis, la natura. La soglia della morte porta dunque a una dissoluzione che, forse, allude ad una ricomposizione – ad un un vero e proprio mutare dialettico di forme: questo sembra il punto di vista di Eraclito, al di là dell’oscurità del suo dire.

Fatta questa premessa, il problema della morte – dell’angoscia che genera e della sua accettazione – è senz’altro uno dei temi-cardine della filosofia, fin dalle origini, in continuità, ma anche in difformità, con il discorso religioso: ovvero, se la religione (ma più in generale tutto l’apparato spirituale, mitico, culturale, rituale) appare come un grande dispositivo per gestire il fenomeno della morte, la filosofia lo fa attraverso l’unico strumento di cui dispone, ovvero il logos, la ragione.
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Deus absconditus

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Qualche sera fa ho aperto una conferenza scientifica facente parte di un ciclo che ha l’intento di illustrare in che modo è cambiato in Occidente il modo di guardare il cielo. La scommessa è di integrare diversi punti di vista – filosofico, antropologico, fisico-matematico, estetico – mostrando come si è andata modificando la percezione di sé e del proprio posto nel cosmo da parte dell’essere umano. La seconda puntata era dedicata all’epoca moderna, da Copernico a Newton. Ho aperto inevitabilmente con la data simbolo del 1543 – anno di pubblicazione del De revolutionibis orbium coelestium – e con l’impatto che la “rivoluzione copernicana” ha avuto sui pensatori e gli scienziati dei decenni e secoli successivi.
Tre in particolare le parole-chiave di questa trasformazione (e radicale rotazione del punto di vista):
1) Legge. Telesio scrive nello stesso secolo di Copernico il De rerum natura iuxta propria principia, sostenendo che la natura deve essere conosciuta attraverso se stessa, i principi interni e propri che la ordinano – e non con categorie a lei estranee (magiche, mitiche, divine, extranaturali). Ma tale legge non può più avere un ordine qualitativo (altrimenti torneremmo a Mileto): Galileo farà un passo in più, e conierà la celebre metafora del mondo da intendersi come libro aperto, scritto in linguaggio matematico, e dunque chiaro alla nostra mente.
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