Ho scelto di parlare di Leibniz in questo nostro percorso sulla coscienza e la natura umana, perché trovo che la sua filosofia – e forse la sua stessa biografia intellettuale ed esistenziale – siano indicative di un dramma cruciale che si svolge nel cuore della modernità – e che, anzi, è l’essenza stessa della modernità: l’avere cioè subodorato il pericolo di una cancellazione della peculiarità umana all’interno della natura, di una riduzione di tipo meccanico e materialista di una specie che si crede speciale. Il pensiero di Leibniz può cioè essere (anche) letto come la reazione ad una vera e propria espulsione dal mondo umano dello spirito, di Dio, dell’anima così come erano stati fino ad allora intesi.
Leibniz rappresenta il filosofo (e lo scienziato) più cosciente di questo “pericolo”, che assume come problema e tenta di annullare costruendo una vera e propria filosofia barocca di taglio spiritualista, in grado di unire il fronte meccanicista e quello finalista, la materia e lo spirito, la natura e Dio.
Ma vi è un convitato di pietra, un’ombra che incombe su tutta l’attività filosofica leibniziana: Spinoza, il filosofo che invece aveva portato alle estreme conseguenze l’idea di immanenza – ovvero la concezione per cui tutto sarebbe natura e noi umani non saremmo altro che corpi, ingranaggi, parti di un grande ed unitario meccanismo naturale.
[È questa, ad esempio, la tesi sostenuta (e, potremmo dire, drammatizzata) dal filosofo americano Matthew Stewart nel celebre saggio Il cortigiano e l’eretico]
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