Antropocene 3 – Leibniz vs Spinoza (o delle umane macchine barocche)

Ho scelto di parlare di Leibniz in questo nostro percorso sulla coscienza e la natura umana, perché trovo che la sua filosofia – e forse la sua stessa biografia intellettuale ed esistenziale – siano indicative di un dramma cruciale che si svolge nel cuore della modernità – e che, anzi, è l’essenza stessa della modernità: l’avere cioè subodorato il pericolo di una cancellazione della peculiarità umana all’interno della natura, di una riduzione di tipo meccanico e materialista di una specie che si crede speciale. Il pensiero di Leibniz può cioè essere (anche) letto come la reazione ad una vera e propria espulsione dal mondo umano dello spirito, di Dio, dell’anima così come erano stati fino ad allora intesi.
Leibniz rappresenta il filosofo (e lo scienziato) più cosciente di questo “pericolo”, che assume come problema e tenta di annullare costruendo una vera e propria filosofia barocca di taglio spiritualista, in grado di unire il fronte meccanicista e quello finalista, la materia e lo spirito, la natura e Dio.
Ma vi è un convitato di pietra, un’ombra che incombe su tutta l’attività filosofica leibniziana: Spinoza, il filosofo che invece aveva portato alle estreme conseguenze l’idea di immanenza – ovvero la concezione per cui tutto sarebbe natura e noi umani non saremmo altro che corpi, ingranaggi, parti di un grande ed unitario meccanismo naturale.

[È questa, ad esempio, la tesi sostenuta (e, potremmo dire, drammatizzata) dal filosofo americano Matthew Stewart nel celebre saggio Il cortigiano e l’eretico]

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Leibniziana 3 – Il labirinto del continuo

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(riprendendo il filo da troppo tempo interrotto…)

4. Egualmente, non è da temersi che una sostanza semplice possa dissolversi, e neppure è concepibile che possa estinguersi naturalmente.

5. Per la stessa ragione non v’è alcun modo, per cui una sostanza semplice possa avere un’origine naturale, poiché essa non potrebbe sorgere per composizione.

Una sostanza semplice sfugge alle leggi naturali della dissoluzione (della morte), così come della composizione (nascita): cioè né composizione né scomposizione, proprio perché non si tratta di corpi, o di figure materiali.

6. Cosicché può dirsi che le monadi non possono cominciare e finire che d’un colpo: cominciare cioè per creazione e finire per annientamento, mentre ciò che è composto, comincia e finisce per parti.

La conseguenza è che la monade si dà… d’un colpo! Creazione e annientamento… ma ciò sfugge non solo alle leggi fisiche, bensì anche a quelle logiche: come può qualcosa uscire dal nulla o ritornarvi?
La conclusione di questo ragionamento sta nella celebre metafora delle monadi senza finestre, su cui torneremo, che ha anche la funzione di respingere le antiche tesi scolastiche su percezione, accidenti e sostanze.

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Ottavo (ed ultimo) lunedì: arte e bellezza oltre le scissioni

Partirò per la mia analisi da una delle scissioni fondative (probabilmente la madre di tutte le scissioni) della natura umana, cioè del nostro modo di concepire il mondo e noi stessi: l’opposizione con l’animalità.
Sta proprio qui – nell’opposizione originaria con l’animale, se si vuole il corpo stesso della nostra base biologica – il fondamento di tutta la nostra produzione culturale, spirituale, e dunque artistica ed estetica.
La mia tesi è che la maledizione della scissione – il vivere sempre come decentrati, in altro, al di là e fuori di noi stessi, come straniati – rechi con sé tanto il frutto velenoso dell’alienazione, dell’insoddisfazione, della noia e dell’angoscia, del desiderio mai sopito e realizzato (il nostro essere incompleti, mancanti, la nostra non accettazione della finitezza e della mortalità), quanto il sogno della bellezza e della perfezione.

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Symphonia sive natura

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Die Welt ist tief,
und tiefer als der Tag gedacht
(F. Nietzsche)

La rappresentazione della totalità è un antico sogno, e non solo delle filosofie o delle religioni. La filosofia greca nasce evocando il tutto, e cercando di individuarne senso ed origine. E, tutto sommato, da lì non si è più mossa nei successivi 2500 anni. Anche le religioni, con la geniale e consolatoria invenzione di dio, evocano un ente sommo che riconduca a sé tutte le cose, altrimenti frante, irrelate ed incomprensibili.
Tuttavia è evidente come il tutto o la totalità (che, tra l’altro, sono concetti con sfumature semantiche diverse) non siano mai esperibili, se non in termini di immaginazione (che è base ineludibile dell’astrazione). Il tutto non si presenta mai qui e ora – poiché è ovunque e sempre. È insomma uno di quei concetti-limite soggetti ai continui alambicchi e rovelli della ragione (un po’ come il nulla, l’essere, il tempo, il divenire), su cui da sempre si discute e, presumo, sempre si discuterà in maniera pressoché inconcludente.
C’è però una modalità di accedere al tutto che trovo interessante e forse più soddisfacente di quella speculativa: le sue elaborazioni ed espressioni estetiche. Mahler è certo uno di quei musicisti che aveva ben chiaro il progetto, perseguito lungo tutta la sua vita, di dare alla propria musica (che in verità non è mai “propria”) tale respiro universale e totalizzante. E se c’è una sua opera che tenta di assurgere alla dimensione di opera-totale, quella è propria l’immensa Terza Sinfonia – non a caso la più lunga della sua produzione. Una sinfonia che si propone di rappresentare la natura nella sua totalità – nientemeno!
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