Essendo precipitati in un tempo e in uno spazio ignoti, contrassegnati dall’invisibilità del “nemico”, si moltiplicano le metafore utilizzate dalla nuova santa alleanza politico-medica, sia per descrivere quel che accade sia per ordinare quel che dovrà accadere. Com’è noto, la retorica prevalente è quella militare, che avrà ricadute sociali pesanti. Si insinuano poi nei linguaggi dei virologi e dei politici altre metafore volte a costruire gli scenari futuri (le famose fasi 2 e 3): una ricorrente è la “patente di immunità” – anche se uno scienziato italiano qualche sera fa ha specificato che sarebbe meglio parlare di “foglio rosa”.
Queste immagini, che hanno l’apparente funzione di deviare o alleggerire l’asfissiante stato di emergenza, prefigurano in realtà pericolosi esiti di ingegneria sociale e di governo biopolitico della società. Intendiamoci: una società di massa è organizzata a priori per essere addomesticata, immunizzata e biotecnologizzata, e lo è ontologicamente, ovvero o si dà con quelle condizioni o non si dà. Le alternative sono comunque al di fuori dell’imperante logica hobbesiana dello stato (ovvero del decisore ultimo delle vite individuali nel nome di un interesse superiore di potenza collettiva). E al momento queste alternative – anche solo immaginate – sono ridotte pressoché a zero.
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7 parole per 7 meditazioni – 6. Spazio
Premessa inevitabile e contingente: stiamo sperimentando in questi giorni una forma molto particolare (e inaspettata) di spazio – quella della distanza di sicurezza, della misura che ci allontana dall’altro e ci protegge (o, viceversa, protegge l’altro) dal contagio.
Esiste dunque anche uno “spazio” e, addirittura, una “metafisica” della peste. Ne ha parlato, ad esempio, Sergio Givone in un bel saggio di qualche anno fa. Lo spazio, in questi termini, ci appare come uno “spazio vitale” (Lebensraum era parola terribile dell’ideologia nazionalsocialista) – lo spazio che ciascun vivente occupa e che non può essere condiviso con un altro vivente, il quale si deve tenere a debita distanza. Viviamo nell’epoca per antonomasia dell’immunizzazione e della biopolitica: lo stato istituisce e gestisce lo spazio vitale nel quale i corpi che lo compongono (vedi Hobbes!) devono essere sani e immuni. La cultura sembrerebbe non essersi poi così allontanata dalla natura.
D’altro canto lo strato sterile ed immunizzante che ci avvolge – l’igiene, il mondo artificiale, la tecnologia, le macchine, gli algoritmi – crea l’illusione di una separazione (e protezione) dalla natura e dai suoi pericoli. L’ecumene, lo spazio umano, sovrasta la biosfera, lo spazio naturale. Ma è sufficiente un virus – o un piccolo sommovimento della sfera terrestre – a sconvolgere le nostre certezze, e a riprecipitarci nell’angoscia originaria. Lo spazio torna a contrarsi, se non a sbriciolarsi.
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Succedanei delle patrie
1. Comunità
“Uscire dal ghénos” era un programma pratico-teorico che, ormai 15 anni fa, mi era parso convincente (e che oggi appare pretenzioso), in risposta alle spinte e alle forze militariste e di destra che si andavano riorganizzando contro il cosiddetto movimento no-global. Un movimento che, a sua volta, era l’abbozzo di una visione collettiva e comunitaria (ma insieme moltitudinaria, e dunque più libertaria che comunista) alternativa al liberismo con cui il secolo breve si chiudeva trionfante dopo le grandi cadute a Est.
Uscire dal ghénos – cioè da tutte le tribù e le gabbie identitarie dei secoli e millenni precedenti, mettendo in discussione ogni visione essenzialistica della natura umana – andava in direzione globalista ed universalista, esattamente la medesima direzione di marcia di quel liberismo trionfante. Primo paradosso.
Nel contempo, al di fuori del campo occidentale, si andavano articolando altri progetti – di cui l’11 settembre è stata una prima drammatica tappa – volti a disarticolare non tanto il campo capitalista-liberista, quanto la supremazia imperiale occidentale (anglo-americana e francese, in particolare, dopo che l’Urss era crollata e si stava leccando le ferite di una crisi di lungo corso). Di tutto questo sommovimento, che smentiva plasticamente la tesi della “fine della storia”, quel che più ha fatto le spese, oltre alle ideologie tradizionali, sono state le antiche forme politiche, in particolare gli stati-nazione (o meglio, gli stati sociali che su quegli agglomerati parabiologici della modernità avevano istituito le forme più avanzate di compromesso della lotta di classe del secondo dopoguerra – from the cradle to the grave, come recitava il welfare inglese prima dell’avvento del thatcherismo).
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Sulla mia pelle
Il film sugli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi è importante, non solo per la ricostruzione verosimile di quella che è stata una tragedia (evitabile) frutto di un’ingiustizia assurda, di un’anomalia o del malfunzionamento della macchina statale e giudiziaria, che anziché proteggere un suo cittadino fragile lo stritola e lo getta via come un oggetto inutile – ma perché ci dice qualcosa di essenziale, ben oltre la pelle o la superficie, sia del potere sia della china pericolosa che il clima sociale va prendendo in questo paese.
Il dramma di Cucchi preannuncia, cioè, con alcuni anni di anticipo la precipitazione cui la paranoia securitaria può portare un’intera società in assenza di conflitto e di diffuse istanze libertarie e di emancipazione (del resto lo si era già visto a Napoli e a Genova nel 2001, e che qui si sia trattato di un fatto “privato” e non politico non cambia di una virgola la sostanza dei processi in corso).
Stefano Cucchi appare cioè come una figura sociale scomoda e marginale, del tutto sacrificabile sull’altare dell’ordine borghese da ristabilire – insieme a tutta la consimile feccia sociale, siano essi drogati, vagabondi, rom, poveri, immigrati, profughi e sbandati vari. Chi è al governo oggi, e non parlo solo della Lega ma anche dell’anima più forcaiola dei suoi alleati pentastellati, si è nutrito di questo risentimento sociale, del livore e del fastidio per i diversi.
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Solitudine 2.0
Scrive Spinoza nel capitolo 5, articolo IV del Trattato politico: «Quello Stato, inoltre, in cui la pace deriva dall’inerzia dei sudditi, che sono guidati come pecore perché imparino unicamente a servire, può essere detto più correttamente solitudine anziché Stato». È questo lo Stato dov’è assente la libertà della moltitudine, dove il potere governa con la paura (e non con la speranza), dove vige il terrore (o “una pace terrificante”, per dirla con l’ultimo De Andrè).
Ma a chi attribuisce, Spinoza, la condizione di solitudine? A chi detiene il potere o al suddito-schiavo? Direi ad entrambi – è lo Stato nel suo insieme ad essere una solitudine. Uno Stato del genere non può che essere sommamente impolitico e privo di ragione: Spinoza aveva non a caso aperto il capitolo ricordando quanto affermato precedentemente, e cioè che l’uomo si autodetermina (è soggetto a se stesso) in quanto è in sommo grado guidato dalla ragione – e in ciò è sommamente potente. Ad uno Stato guidato da ragione corrisponde un cittadino guidato da ragione, e non da passioni tristi o da sofismi privi di fondamento. E là dove ciascuno si autodetermina, non può esservi solitudine né paura – ma una comunità che si autodetermina. Una pòlis, uno stato, una comunità politica. Non un popolo-gregge.
Se però la moltitudine è costituita da solitudini – magari da atomi sociali iperconnessi alla rete e sconnessi dalla materialità dell’esistenza – ben presto un padrone busserà alla porta.
Zoon politikon – 3. Lo stato-leviatano
Occorrerebbe affrontare questo tema innanzitutto da un punto di vista storico, per cercare di capire come la forma politica muta (ammesso che se ne possa identificare una privilegiata, ovvero la pòlis greca da cui siamo partiti, scegliendola come invenzione vincente dell’organizzazione sociale): in particolare com’è che si è passati da realtà politiche locali (le città-stato) ad organismi enormi come gli imperi (quello alessandrino, quello romano, poi le strutture politiche medievali, complicate dalla “città di Dio”).
Bisognerebbe anche discutere delle basi giuridiche dello stato moderno, cioè di quella forma politica che si affaccia in Europa chiaramente a partire dal XVI-XVII secolo: vi è tal proposito un grande dibattito in ambito filosofico-politico – con il cosiddetto giusnaturalismo – che tenta di spiegare la nascita dello stato a partire dal concetto-limite dello stato di natura.
Vi è poi – e credo sia l’elemento cruciale – la demografia, in stretta connessione con le trasformazioni economiche e produttive (e, più di recente, con quelle tecnoscientifiche e mediche): nella forma dello stato diventa cioè sempre più preponderante l’elemento del popolo, della nazione, dell’identità collettiva – praticamente invenzioni della modernità (anche se l’idea di patria è senz’altro più antica).
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Statolatria
«Il mondo attuale è suddiviso in una molteplicità di Stati che si fronteggiano. Per i figli della nazione, che sin dalla nascita hanno condiviso l’ottica statocentrica, ancora ben salda e dominante, lo Stato appare un’entità naturale, quasi eterna. La migrazione è allora devianza da arginare, anomalia da abolire. Dal margine esterno il migrante rammenta allo Stato il suo divenire storico, ne scredita la purezza mitica. Ecco perché riflettere sulla migrazione vuol dire anche ripensare lo Stato».
(Donatella Di Cesare, Stranieri residenti. Per una filosofia della migrazione)
Intransigenza
Premesso che
1) sono molto rispettoso delle credenze e delle fedi di chicchessia
2) chiedo reciprocamente a chicchessia di esserlo del mio ateismo (anzi non-teismo) e del mio materialismo radicale
3) sono incline al relativismo piuttosto che all’antirelativismo
– non transigo tuttavia (e dunque su questo non sono per nulla relativista) sul principio illuministico, laico e libertario dell’assoluta neutralità statuale e politica per quanto concerne le suddette fedi e credenze (e ciò vale anche per le ideologie e le filosofie, naturalmente). Che dunque chicchessia può liberamente professare (se lo crede), ma senza imporle alle leggi e ai fondamenti dello Stato, né tantomeno agli altri cittadini. Su questo non transigo e sono disposto a fare le barricate: lo Stato deve rimanere non religioso, non etico, non morale, non teista, non ideologico. Senz’arte né parte. Senz’amore né sapore (nun avi né amuri né sapuri, dice il detto siciliano).
Poiché la globalizzazione impone convivenze e mescolanze forzose tra diversi, in assenza e però in attesa di future, sperabili ed utopiche armonie – molto meglio una società di cittadini che siano “stranieri morali” ma che non si facciano la guerra.
Verità minori
Già filosofi meno pretenziosi e umili come Lessing dichiaravano di accontentarsi di verità minori a fronte dell’Unica Verità Maggiore (e a Lessing mi ha fatto pensare l’apologo della compianta Franca Rame, narrato postumo dal suo compagno di una vita). L’Unica Verità Maggiore appare poi risibile, ma soprattutto inutile (come per sua natura non può non essere), accanto a verità minori – ma dovute e necessarie – quali quelle richieste da un corpo martoriato di un giovane concittadino che entra vivo ed esce morto dalle spire dello Stato. E la cui verità (sempre minore) esce ora di nuovo stritolata e negata dalla kafkiana Macchina della Giustizia.
Resta il fatto che l’immagine quantomai vera e vivida del volto tumefatto e devastato di Stefano Cucchi – che però non mi sono sentito di esporre – è lì ad interrogarci.
Ho un problema
Ho un problema –
(e non vorrei averne in un giorno come questo, che è l’unico dell’anno, insieme al primo maggio, che sul mio calendario è segnato in rosso, rosso sangue per la precisione).
Ho un problema –
con lo stato e con le istituzioni nate dalla Resistenza (ovviamente il problema non ce l’ho con la Resistenza).
Ho un problema con i partiti che derivano da quelli che la Resistenza l’hanno fatta (mentre con gli altri, quelli che non, non ho nessun problema, il problema semmai ce l’hanno loro).
Ho un problema con il capo dello stato.
Ho un problema con il parlamento.
Ho un problema con la magistratura.
Avrò un problema con il governo, chiunque sarà a presiederlo.
Ho un grossissimo problema con quel che rimane della sinistra.
Ho un problema con questa repubblica. E con tutti gli adulti e vaccinati che la popolano (mentre non ho nessun problema con i loro bambini, ma ce l’avrò a breve, immagino).
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