Quando lo scorso marzo fu abbastanza chiaro che stavamo per entrare in una dimensione storico-esistenziale inusitata – un evento come ne capitano uno o due in una vita o in un secolo – la parola che più mi parve appropriata per definire lo stato emotivo nel quale ci trovavamo fu straniamento. Subito dopo pensai all’ignoto (toccati dall’ignoto, come dice Canetti, con il paradosso che una delle cose più vietate ed inibite era proprio il toccare l’altro, e persino il toccarsi: non il volto, non gli occhi, non la bocca, e comunque non prima di essersi purificati le mani).
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Il re nudo: una nota a proposito dell’invisibilità
Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo,
Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono.
[J. Saramago]
Se è vero, come argomentato da Sergio Givone, che esiste una metafisica della peste, cioè il manifestarsi nel corso delle epidemie di qualcosa che eccede la mera fisicità biologica del male, e che addirittura evoca la domanda sul senso dell’essere (o sulla sua insensatezza) – allora non dovrebbe apparirci strano il paradosso che si genera a proposito dell’invisibilità: un morbo invisibile che rende visibile l’invisibile, ciò che per lo più non si vede – o perché è l’orizzonte (la struttura sottile) nel quale ci troviamo a vivere, o per una nostra pregressa e consolidata cecità o – più radicalmente – perché ha a che fare con il sottosuolo mistico e inafferrabile delle cose (quel che un tempo si chiamava verità).
Avevo un po’ fumosamente attribuito alla figura dello straniamento – la prima tra le parole del contagio ad essermi venuta in mente – la situazione ai limiti dell’assurdo che si va producendo nel corso di una pandemia: il mondo di prima viene sospeso e messo tra parentesi e nel corso di questa sorta di epoché fenomenologica, qualcosa di apparentemente nuovo, inedito, strano – perturbante – ci si mostra all’improvviso. Molti, anche sui social, hanno ad esempio parlato di ritorno all’essenziale o di uscita dal superfluo; lo hanno fatto magari solo in modo superficiale o sull’onda di facili slogan, ma è il caso di andare a vedere cosa sta dietro a queste reazioni, emotive prima ancora che razionali. Credo che proprio la dialettica tra visibile e invisibile cui alludevo sopra, renda più chiare queste sensazioni di straniamento o cortocircuiti della cosiddetta normalità.
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Le parole del contagio
La morte – come da un’alta vetta –
riformula i criteri di giudizio
e ciò che non credemmo
ora scorgiamo chiaro
(Emily Dickinson)
«Non ho visto, pertanto, nient’altro da fare che provare, come chiunque altro, a sequestrarmi a casa mia e nient’altro da dire che esortare chiunque altro a fare lo stesso», così scrive Alain Badiou.
E alla domanda: “Che cosa possiamo imparare dal virus?”, Massimo Cacciari risponde seccamente: Nulla. A stare fermi un po’. Cosa volete imparare? Basta con questa retorica che dalle difficoltà si esce migliori. Il nostro cervello è lo stesso di 100.000 anni fa…
Qualcuno si sarà senz’altro chiesto che cosa può dire o fare la filosofia di fronte ad un evento come quello che stiamo vivendo, così violento e inaspettato (uno dei problemi è anche quello della sua definizione e qualificazione). Hanno ragione Badiou e Cacciari: la filosofia non può nulla. La filosofia non può modificare il corso degli eventi, la filosofia non può prevenirli, la filosofia non può nemmeno consolare gli animi. Ciò che forse può fare la riflessione filosofica è aiutare le menti ottenebrate degli umani a vedere con maggior chiarezza quel che hanno davanti (o sotto i loro piedi o alle loro spalle o dentro di loro), anche se in un senso radicalmente diverso da quello della scienza. Ecco, la scienza può provare a prevenire, modificare, curare, salvare (anche se non è detto che ci riesca), la filosofia no. La religione può provare a consolare, confortare, rasserenare, ma non la filosofia. Compito della filosofia è solo quello di dire il vero, o di provarci. La verità, una parola che può anche svelare cose che non vorremmo né vedere né sapere.
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Un museo di stranezze
Ho imparato molte cose dalla mostra dedicata a Giorgio De Chirico allestita al Palazzo Reale di Milano. Avevo una qualche vaga idea della pittura “metafisica”, ma non avevo ben inquadrato il rapporto di De Chirico con Nietzsche (al punto da autoritrarsi nella posa della celebre fotografia del filosofo tedesco), né conoscevo il rapporto strettissimo con la terra greca, che spiega meglio anche tutto il retroterra mitologico e il rapporto con la classicità dell’opera dechirichiana; mi sfuggivano certi simboli ricorrenti (la locomotiva, la torre, la ciminiera, la nave, le bandiere); sono rimasto meravigliato dalla serie dei cavalli e da quella dei bagnanti incastrati nell’acqua-parqué; ed ancora, nulla sapevo dell’autoironia del De Chirico che si dipinge nudo (anche se gli è stata imposta la copertura delle pudenda), in veste di torero o di cicisbeo barocco; ed infine, non sapevo nemmeno che Andy Warhol avesse ricavato l’idea della serialità proprio a partire dalle diverse copie delle Muse inquietanti.
Credo che oltre all’effetto-straniamento (che condivide con Magritte) De Chirico abbia ottenuto risultati notevolissimi lavorando sulla spazialità, a partire da quelle immense piazze spiazzanti, dalle ombre misteriose che le attraversano, e che la sua pittura altro non sia che una “messa in scena”, la riduzione – ed esibizione – del mondo (e della sua stranezza e/o assurdità) dentro a una stanza-scatola. Un mondo che si depotenzia e che depone persino la sua carica violenta – basti pensare a come De Chirico rappresenta i lottatori, gli eroi, i gladiatori, irridendoli e trasformando le loro corazze e la loro durezza in giocosità molliccia e friabile.
Infine: che cosa ci dicono le figure inquietanti e silenziose dei manichini, quei corpi svuotati, automatizzati, anonimi, alienati – non siamo forse anche noi, come gli oggetti, pezzi di “un immenso museo di stranezze, pieno di giocattoli”?
Languore ontologico
Prima di sintetizzare il mondo in un sistema metafisico, occorre guardarci dentro. Anzi, rotolarcisi dentro. Sporcarsi le mani. Intrallazzarcisi. Esserne invischiati. Entrarci e guardarlo dall’interno. Poi uscirne ed edificarne un senso possibile. (Giammai “il” senso, questo sarebbe semmai compito di un eventuale dio).
Dentro. Fuori. Dentro. Fuori.
Ogni volta che si entra si scopre qualcosa di nuovo. Poi se ne esce e si vengono a modificare i profili delle forme generali.
E così via, fino al termine della propria vita, della storia della filosofia, della storia della specie, della storia della coscienza…
L’estraneità al mondo ci consente di guardarlo meglio.
E l’antica ed ancestrale familiarità con esso – il tutt’uno naturalistico e biologico cui da sempre apparteniamo – non ci impedisce di desiderare d’uscirne per contemplarne l’interezza.
Ma senza parti nessun intero. Senza dettagli nessuna totalità.
Sarebbero altrimenti gusci vuoti.
Tuttavia non siamo fatti per impigliarci nella parte o nel dettaglio. Ci sentiremmo perennemente incompleti.
Siamo instancabili ed infelici animali dialettici e metafisici. Bisognosi non solo di scienza ma anche di filosofia.
Siamo una specie strana, estranea, straniata, straniante.
Un puntino nell’universo (o nel multiverso) che vorrebbe ingoiarlo per comprenderlo.
È questa stranezza che chiamiamo coscienza.
E che crediamo specialissima, nell’economia dell’essere.
Ma nessuno, mai, ci saprà dire se lo è davvero.
Ci estingueremo con questo languore ontologico.
Prima passeggiata filosofica
Ogni giorno è raccomandabile iniettarsi in vena o inalare o masticare una dose modica di bellezza – unica sostanza stupefacente e psicotropa che non abbia danni collaterali.
Camminare è una di queste sostanze, e non deve mancare mai. Ma il passeggiare di cui facciamo esperienza oggi è piuttosto diverso dal camminare, dal marciare, dal correre, dal ritmico procedere della quotidianità. È più svagato, e, soprattutto, privo di scopo.
È inutile.
Ogni movimento della nostra giornata corrisponde ad una funzione, ha uno scopo predeterminato, pre-scritto (quasi sempre da altri). Sarebbe interessante mappare questi movimenti – da quelli automatici che facciamo al mattino appena svegli, a quelli della routine, lavoro-ufficio-scuola-università-spesa-incombenze varie, a quelli del tempo libero. Per quanto crediamo di essere liberi, la mappa corrisponde in massima parte (se non totalmente) a binari e fini precostituiti. Ogni movimento è utile, serve a qualcosa, risponde ad un bisogno o necessità o desiderio per lo più indotti.
Questo passeggiare, per contro, deve fuoriuscire dagli schemi, deve essere senza meta, privo di un fine. Non deve servire a nulla – non deve essere servo di nessuno.
Nella mappa della nostra giornata deve corrispondere allo scarabocchio insensato.
Laniakea
Do quasi sempre uno sguardo alla rivista “Le scienze” (edizione italiana di Scientific American). Il numero di settembre reca in copertina un titolo che non poteva non intrigarmi, ovvero “Il nostro posto nel cosmo”. A voler ben guardare, se qualche forma di vita ultra-aliena arrivasse da un altro cosmo (cosa impossibile oltre che inimmaginabile) farebbe una gran fatica a trovarci. Già non sarebbe semplice trovare la strada per la via Lattea, figuriamoci poi le indicazioni per raggiungere il nostro sistema solare: pur comodamente adagiato nella sua navicella dotata di sopraffini e a noi sconosciute dotazioni tecnologiche, il povero alieno finirebbe di certo per smarrirsi in quell’immenso labirinto stellare denominato Laniakea, correndo il rischio di non poter più tornare a casa, attirato magari in una qualche letale “pozza” di energia oscura.
In hawaiano Laniakea significa “paradiso incommensurabile”, nome con cui si è voluto rendere omaggio ai marinai polinesiani che per primi attraversarono l’immensa distesa dell’oceano Pacifico, orientandosi (come tutti gli antichi navigatori) tramite le stelle. Continua a leggere “Laniakea”
Quinto fuoco: toccati dall’ignoto
Massa e potere di Elias Canetti è un testo unico nel panorama culturale, letterario e scientifico del ‘900, così com’è unico il suo autore (che scrive tra l’altro un unico romanzo, Auto da fé, considerato uno dei più rilevanti del secolo). Non è un saggio di sociologia, né di psicologia o di antropologia, e nemmeno può essere considerato un testo storico o filosofico (di filosofi non ne vengono praticamente citati): pur tuttavia si fa ampio riferimento a racconti etnografici così come a referti clinici, a casi storici (spesso poco noti), alla zoologia, all’etologia – anche se non vi è nessuna di queste discipline a prevalere. Massa e potere non ha in sostanza un taglio specialistico, e rimane un testo inclassificabile – cosa che ne fa senza dubbio aumentare il fascino e l’interesse.
Leggerlo è un’esperienza quantomai “straniante”: al termine ogni nostro più piccolo gesto ci apparirà sotto tutt’altra luce (da questo punto di vista lo ritengo filosofico nel senso più alto: massima gioia conoscitiva e disagio e angoscia crescenti nel progredire spiazzante della conoscenza di sé).
Potremmo dire che quella di Canetti è una ricerca di tipo “genealogico”, che va alle origini, alle spalle, alla base delle nostre pulsioni più profonde: massa e potere non sono solo concetti o “astrazioni”, ma il modo in cui i nostri corpi agiscono e interagiscono.
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Epepe – o Bebe o Edede o Tjetjetje o Cece o…?
Epepe – dell’ungherese Ferenc Karinthy – è forse il più geniale romanzo sullo straniamento che io abbia mai letto (un altro, bellissimo, è senza dubbio Nulla, solo la notte di John Williams).
Dopo averlo finito – anzi direi febbrilmente consumato – ci rendiamo conto di conoscere a malapena il nome del suo protagonista, Budai, ma nessun nome delle cose, dei luoghi e delle persone che affollano il mondo (praticamente alieno) nel quale egli viene erroneamente catapultato (a causa di un fatale disguido aereo).
Sarebbe dovuto andare ad Helsinki (è l’unica coordinata geografica che ci è nota al principio della storia), ed invece finisce in questa metropoli allucinante dove affonda come nelle sabbie mobili (la metafora è dello stesso Karinthy).
Due i motivi forti del romanzo. Uno è senz’altro quello linguistico-comunicativo: il protagonista è un linguista che avrebbe dovuto partecipare ad un convegno internazionale e che invece dovrà paradossalmente misurarsi con una lingua della quale non riesce a scalfire nemmeno la superficie (soprattutto della lingua parlata, che pare perennemente cangiante e foneticamente incomprensibile; mentre la scrittura risulta ostica ed impenetrabile, con quei suoi segni un po’ runici un po’ cuneiformi, in realtà del tutto incatalogabili). Ogni volta che Budai tenta di scavalcarlo o di penetrarlo, il muro di suoni e di segni appare insormontabile e tetragono, e lo respinge con violenza.
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Concetti-capestro
Luciano Parinetto utilizzava spesso l’espressione “concetti-progetto” per designare quelle categorie o prospettive filosofiche che, anziché ingessare il discorso filosofico in un’autoreferenziale celebrazione accademica (o nella deificazione del reale-reale, che è poi l’astratto-astratto), aprono al futuro e alla trasformazione radicale dell’esistente. Prassi pensante e utopia concreta (non sterile utopismo).
Così come in filosofia esistono i concetti-progetto, esistono anche i concetti-capestro. Tutto, essere, nulla, realtà, verità, sostanza diventano spesso e volentieri, nelle mani e nelle menti maniaco-ossessive di certi ontologisti (ma anche in quelle riduzionistiche o semplificazionistiche di certi scientisti o realisti più del re), concetti che se da una parte si ammantano di solidità e luccicano ammiccanti promesse di risposte definitive alle domande più radicali, dall’altra rischiano spesso di diventare vecchi arnesi della fumisteria reazionaria.
Tutto, essere, nulla eccetera – che pure sono le parole essenziali evocate dai filosofi greci – continuano a metterci di fronte a quella strana/straniata/straniante sfera, che Kant aveva definito del noumeno, che volenti o nolenti finisce per naufragare nel territorio dell’inattingibilità. Il limite, cioè, oltre il quale la mente si smarrisce e si imbarca in direzione dei marosi della metafisica. Ed è proprio l’analisi kantiana del concetto di limite (che è forse il nucleo essenziale del pensiero di Kant) a descriverci con precisione questa inevitabile dialettica con naufragio finale.
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