Prima passeggiata filosofica

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Ogni giorno è raccomandabile iniettarsi in vena o inalare o masticare una dose modica di bellezza – unica sostanza stupefacente e psicotropa che non abbia danni collaterali.
Camminare è una di queste sostanze, e non deve mancare mai. Ma il passeggiare di cui facciamo esperienza oggi è piuttosto diverso dal camminare, dal marciare, dal correre, dal ritmico procedere della quotidianità. È più svagato, e, soprattutto, privo di scopo.
È inutile.
Ogni movimento della nostra giornata corrisponde ad una funzione, ha uno scopo predeterminato, pre-scritto (quasi sempre da altri). Sarebbe interessante mappare questi movimenti – da quelli automatici che facciamo al mattino appena svegli, a quelli della routine, lavoro-ufficio-scuola-università-spesa-incombenze varie, a quelli del tempo libero. Per quanto crediamo di essere liberi, la mappa corrisponde in massima parte (se non totalmente) a binari e fini precostituiti. Ogni movimento è utile, serve a qualcosa, risponde ad un bisogno o necessità o desiderio per lo più indotti.
Questo passeggiare, per contro, deve fuoriuscire dagli schemi, deve essere senza meta, privo di un fine. Non deve servire a nulla – non deve essere servo di nessuno.
Nella mappa della nostra giornata deve corrispondere allo scarabocchio insensato.

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Il volto e il corpo dell’altro – 3. Follia, (a)normalità, istituzioni totali, antipsichiatria

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“Io voglio entrare fuori”
(uno dei matti di Basaglia)

Diversi gli approcci e i discorsi possibili sulla follia, che è quanto di più sfuggente e storicamente determinato ci sia: di ordine psicologico, antropologico, sociologico, medico – ma anche, anzi direi prima di tutto filosofico. D’altro canto chi definisce dissennato qualcuno se non il pensatore in grado di argomentare? che cos’è la follia se non l’antagonista della ragione?
Eppure filosofia a follia sono legate fin dalle origini, ma in tutt’altro senso rispetto a quel che potrebbe sembrare “normale”. Anzi, è proprio quella normalità che viene messa in discussione, se è vero che il filosofo tende a scardinarla fin dalle fondamenta, per gettare una luce straniante sul mondo, sulle cose, sulla realtà.
Già nell’aneddoto di Talete – il “primo filosofo” – che mentre osserva gli astri cade in un pozzo, è iscritta la stranezza originaria del pensiero filosofico: la serva tracia lo prende in giro perché mentre guarda in su (altrove), egli non vede quel che ha davanti a sé. Il sapiente fin dalle origini non ha i piedi per terra, ma la mente tra le nuvole, e da lì – straniato – guarda il mondo.
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E la nave va

La nave dei folli_Bosch

Esistono metafore che escono da se stesse, fino ad autosfondarsi per fondare una realtà altra. D’altro canto è la radice stessa del verbo che regge la parola “metafora” ad avere un carattere transeunte ed uscente da sé: metaphero significa “trasporto, trasferisco”, ma anche “cambio, confondo, rivolgo, mi aggiro”. Metaforizzare è andare da un’altra parte – ma non è la parte dove si va quel che conta, quanto piuttosto il portarsi da quella parte, il trasferirsi, l’andare per l’andare, il cambiare di posto – un luogo che è collegato a tutti i luoghi.
Ecco perché i romanzi di Cormac McCarthy, tanto per fare un esempio di un autore che amo molto, pur utilizzando la strada come metafora della vita, finiscono per confondere i piani, e la metafora è la cosa stessa – e d’altro canto la vita è la strada dei viventi così come la strada è la scena essenziale della vita (degli umani in particolare). Ma quel che più conta è che è la vita stessa ad essere metafora di se stessa, poiché si autorappresenta (ed autofonda) come svolgimento, mutazione, movimento, perenne trasferimento di senso da sé a sé. E il senso – così come l’essenziale funzione simbolica della specie umana – funziona proprio così: si tratta in verità di una rete di significati, di simboli, di metafore, dove ogni luogo ed ogni parte richiama l’intero dispositivo (ciò che dis-pone le parti e i luoghi). Ogni cosa è cioè in relazione ad altro, e dunque, paradossalmente, è se stessa solo in quanto significa, allude, transita verso l’alterità. Ogni cosa è metafora ed ogni metafora è cosa.

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B-sides: Anassimene

Con una titolazione poco filosofica, piuttosto anglomane e alquanto ammiccante al mondo della musica pop, inauguro una serie di post sui “filosofi minori”, ma non per questo meno interessanti dei loro fratelli “maggiori”. Anche perché a decidere sulle comparazioni, rimozioni ed interpretazioni è pur sempre la storiografia, quanto mai relativa e diveniente – con buona pace dell’Hegel estremista che riduce la storia al sistema (suo), fino all’incredibile e lucida follia di compiacersi per la perdita di migliaia di pagine di testi antichi, inessenziali – a suo dire – a spiegarlo quel sistema…

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Schiacciato dai suoi illustri predecessori – il “primo” filosofo Talete, simbolo archetipico della storia filosofica, e Anassimandro, immenso cosmologo e pensatore dell’infinito – il povero Anassimene di Mileto rientra a pieno titolo nel novero dei filosofi “minori”, quelli del “lato b”, meno citati e presi in considerazioni. Ed è un vero peccato, poiché a ben vedere non ha nulla da invidiare ai suoi antecessori e presumibilmente maestri, anche se è difficile calare sulla realtà filosofica dell’epoca le nostre categorie storiografiche (che sono poi state in principio quelle di Aristotele); oltre al non piccolo problema della pressoché totale mancanza di fonti originali e della necessità di ricorrere alle testimonianze.
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ACQUA PRINCIPIO DI TUTTECOSE

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1. L’acqua è ritenuta elemento chiave del cosmo e della vita fin dalle origini del pensiero greco. Talete, uno dei primi filosofi, fondatore nel VI secolo a.C. della scuola di Mileto in Asia Minore, ritiene l’acqua l’arché, cioè il principio ordinatore del mondo. L’acqua consente la vita (vegetale, animale, umana); i semi per schiudersi hanno bisogno dell’umidità; gli embrioni vengono concepiti e crescono nell’acqua; noi siamo fatti in gran parte di liquidi.

2. I filosofi successivi hanno ritenuto questa tesi eccessiva, visto che anche altri elementi (come l’aria, il fuoco, la terra; o altri ancora non necessariamente fisici: l’infinito, il numero o l’intelligenza) sono importanti per spiegare il funzionamento dell’universo. Ma l’acqua compare sempre nelle teorie degli antichi cosmologi: in Anassimene l’acqua è parte del ciclo di rarefazione/condensazione; in Anassimandro l’umido è uno dei contrari che permette il ciclo cosmico; in Eraclito, pensatore per eccellenza del divenire, simbolo del perenne fluire delle cose è proprio il fiume, dove non ci si può bagnare due volte.

3. In molte culture l’acqua è un elemento primordiale senza il quale il mondo non potrebbe esserci. Nell’antico mito mesopotamico di Enuma Elish all’origine c’erano Apsu (l’acqua dolce), Mummu (nebbia e nuvole) e Tiamat (l’oceano). Anche nella Genesi all’inizio “lo spirito di Dio incombeva sulle acque”. Senza contare che il diluvio universale è un elemento comune di molte mitologie e cosmologie.

4. Uno dei compiti fondamentali delle società nascenti è proprio quello del controllo e della gestione dell’acqua: sia in termini di approvvigionamento che in termini di difesa dagli eccessi. Una storia sociale, antropologica e tecnica dell’acqua è uno dei capitoli più affascinanti della lunga storia della civilizzazione umana. Irrigare deserti e opporre dighe alle alluvioni, ingegnarsi con vari sistemi (colmate, polder, drenaggi, marcite, oasi, ecc.), costituire sistemi collettivi di gestione e uso dell’acqua sono state tra le occupazioni più urgenti e importanti di tutte le comunità finora comparse.
L’assioma di base è semplice: dove non c’è acqua non c’è possibilità di vita. L’acqua è la vita.

5. Naturalmente senza la tecnica tutto ciò sarebbe stato impossibile. La nostra, che è l’era della tecnica all’ennesima potenza, tende però a dimenticare la fatica spaziotemporale e i costi (talvolta i dissesti) che un sistema idrico funzionante e universale richiedono. Avere l’acqua potabile sempre e comunque a disposizione, in ogni momento del giorno e della notte e tutti i giorni dell’anno non è poi così scontato e definitivo. C’è un bel pezzo di umanità che ogni giorno deve fare i conti con la scarsità, la non potabilità e talvolta con l’eccesso di acqua. La comodità del rubinetto – quel luccicante e ingegnoso aggeggio che spunta da muri, mattonelle e ceramiche – sembra indurci a rimuovere il meccanismo sociale, economico, ecosistemico che sta dietro al fenomeno della distribuzione/gestione delle acque. Succede un po’ come l’arcano della merce di cui parla Marx all’inizio del Capitale: dietro un oggetto così triviale e ovvio si nasconde in realtà “una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici”.

6. Di recente alcuni intellettuali, scienziati, pensatori (Vandana Shiva, Riccardo Petrella, Pietro Greco…) hanno richiamato l’attenzione sulla questione cruciale dell’acqua per i prossimi decenni e secoli. Si prospettano (anzi già sono in corso) guerre dell’acqua. Una delle vere poste in gioco della politica globale è proprio il controllo dell’acqua e delle variabili climatiche (qualcuno parla già di oro blu). Per non parlare della privatizzazione dell’acqua.

7. Una parentesi personale. Nelle mie estati in Sicilia l’acqua – o meglio, la sua mancanza – era una costante. Ricordo di un agosto in cui per un’intera settimana mancò l’acqua e le donne – tra cui mia madre – partirono per il paese al grido di “occupiamo il municipio”. (A ripensarci era incredibile come potesse mancare l’acqua in un paese dei Nebrodi, il polmone verde dell’isola!).
Uno dei più bei ricordi che ho di mio nonno, poi, è legato proprio all’innaffiatura degli aranceti e degli orti: partire con lui la mattina presto per andare ad “abbeverare” le conche delle piante tramortite dal caldo e dalla siccità era per me motivo di incomparabile gioia.

8. Concludendo: visto che le trasformazioni climatiche in corso non sono più una proiezione/prospettiva, un di là da venire o uno scenario possibile, bensì l’incombenza di un qui e ora, noi privilegiati superalimentati e superidratati non possiamo più esimerci dal riflettere e agire qui e ora. Naturalmente in termini critici, di conoscenza, di scelte politiche, di presa di coscienza collettiva, ecc. ecc. Ma non basta. Sono sempre più convinto che le battaglie vadano fatte anche, se non soprattutto, privilegiando i comportamenti individuali (nulla di nuovo, anche qui sono anni che ce lo diciamo). Ma bisogna appunto praticare, non limitarsi a dire. L’uso quotidiano che ciascuno fa dell’acqua non è un’azione come un’altra, neutrale e indifferente. Direi anzi che, come dietro l’arcano dell’acqua c’è un mondo, dietro la banale quantità di acqua che consumiamo e il triviale gesto dell’aprire un rubinetto c’è uno stile di vita, una scelta etica precisa, un’assunzione di responsabilità e dunque una decisione politica. Semplice come l’assioma che senz’acqua non c’è vita!

Letture:

M. De Villiers, Acqua, Sperling & K. 2003
P. Greco, Pianeta acqua, Muzzio 2004
R. Petrella, Manifesto dell’acqua, EGA 2001
V. Shiva, Le guerre dell’acqua, Feltrinelli 2003
P. Sorcinelli, Storia sociale dell’acqua, B. Mondadori 1998
Storia dell’acqua: mondi materiali e universi simbolici, Donzelli 2003

Fotografia: Rubatacchini, http://www.flickr.com/photos/12935388@N00/