
Al di là dell’angoscia, della doverosa e fraterna solidarietà, dell’umana pietas – sempre più provo una strana ed estenuata forma di rassegnato fatalismo (e sempre meno il montare della rabbia di un tempo), quando mi trovo a considerare il contesto sociale, antropologico, culturale e politico nel quale si situano le italiche disgrazie.
Fin da bambino ho periodicamente assistito a catastrofi (spesso annunciate, come si suol dire), con spargimento di lacrime ed autoflagellazioni, ritornelli sulla mancata prevenzione e poi a seguire smemoratezza, canto del cigno, pietra tombale su tutti i buoni propositi. In attesa della successiva catastrofe. Siano dighe, terremoti (dal Belìce in poi), frane e alluvioni, lo scenario che si ripropone è sempre il medesimo. Gli argomenti e le lamentazioni pure.
Avremmo dovuto fare, prevedere, costruire meglio, mettere in sicurezza – faremo, costruiremo, investiremo. Ma la sensazione è che, gattopardescamente, nulla cambi mai.
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