Italodicea

Al di là dell’angoscia, della doverosa e fraterna solidarietà, dell’umana pietas – sempre più provo una strana ed estenuata forma di rassegnato fatalismo (e sempre meno il montare della rabbia di un tempo), quando mi trovo a considerare il contesto sociale, antropologico, culturale e politico nel quale si situano le italiche disgrazie.
Fin da bambino ho periodicamente assistito a catastrofi (spesso annunciate, come si suol dire), con spargimento di lacrime ed autoflagellazioni, ritornelli sulla mancata prevenzione e poi a seguire smemoratezza, canto del cigno, pietra tombale su tutti i buoni propositi. In attesa della successiva catastrofe. Siano dighe, terremoti (dal Belìce in poi), frane e alluvioni, lo scenario che si ripropone è sempre il medesimo. Gli argomenti e le lamentazioni pure.
Avremmo dovuto fare, prevedere, costruire meglio, mettere in sicurezza – faremo, costruiremo, investiremo. Ma la sensazione è che, gattopardescamente, nulla cambi mai.
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Quarto lunedì: la specie dimezzata

luzzatiParleremo questa sera del problema del male, partendo dalla sua formulazione teologico-filosofica in termini di teodicea: come mai esiste il male se (posto o ammesso che) esiste Dio? Al termine “dio” può essere sostituito anche “ordine razionale”, la sostanza non cambia: se si pensa che esiste una ragione, uno scopo, una logica, un senso che ordinano il mondo – e che magari ne finalizzano gli avvenimenti – il male, il caos, l’orrore rimangono un problema che esige spiegazione. Affronteremo la questione in due mosse: nella prima daremo conto del termine teodicea in ambito storico-filosofico, mentre in un secondo momento proveremo a trattare la questione da un particolare punto di vista della contemporaneità, utilizzando alcuni testi di Primo Levi e del filosofo gallese Mark Rowlands.

1) Inquadramento storico
Teodicea (dal greco theos=dio e dike=diritto, giustizia) è termine coniato da Leibniz all’inizio del ‘700, e si riferisce al suo poderoso tentativo di “giustificare Dio”, cioè di scagionare Dio dall’accusa di avere voluto che ci fosse il male nel mondo.
È questa una vecchia questione della filosofia, di cui già si erano occupati gli antichi (gli stoici, ad esempio, o filosofi del calibro di Plotino o di Sant’Agostino), e che dal grande avversario filosofico di Leibniz, e cioè Spinoza, era stata liquidata attraverso una radicale critica ad ogni forma di antropocentrismo: in verità il male e il bene non esistono, se non all’interno di un’ottica tutta umana, ma nel momento in cui si allarga lo sguardo al vasto mondo – alla natura o al cosmo –  concetti come bene e male tendono a sparire e a perdere di significato.
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Leibniziana 2 – Scagionare (nientemeno che) Dio

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Teodicea è parola coniata dall’inventiva filosofica di Leibniz – con la precisa intenzione di togliere le castagne dal fuoco niente meno che a Dio, visto che il Signore-dio-loro non pare essere molto in grado di giustificarsi nei confronti di quella cosa parecchio spiacevole che è il male (e che provoca dolore), una spina conficcata nella più-che-perfetta economia del creato. Come scrive giustamente Vittorio Mathieu: «una ricerca volta a scagionare Dio dall’accusa di aver creato il male nel mondo» (si veda la sua eccellente introduzione all’edizione Zanichelli dei Saggi di teodicea: io ne ho una copia del 1973, che ho tolto qualche mattina fa parecchio impolverata dalla libreria).
Il più ampio, e forse importante, saggio filosofico pubblicato da Leibniz su un argomento apparentemente minore, era in realtà un vero e proprio puntello maggiore del suo sistema, visto che il programma essenziale del filosofo tedesco è una integrale razionalizzazione del reale, comprese le parti tradizionalmente in ombra o più riottose – anche se l’occasione gli fu data dalla pubblicazione del Dizionario di Bayle, oltre che dalle sue assidue frequentazioni di corti e di salotti.
Spinoza aveva risolto la faccenda in maniera piuttosto tranchant: se tutte le cose sono modi di Dio (e co-incidono o co-insistono sul suo piano immanente), od anche, viceversa, se Dio si manifesta nella moltitudine ed entitudine, e se è l’assoluta e sostanziale necessità a regnare (nulla è contingente) – allora concetti come male e bene sono inconsistenti proiezioni di una mente ipertrofica e malata, che si crede un po’ troppo al centro del mondo. Quel che Spinoza concede è che rientrino semmai nella dinamica delle passioni, là dove bene è espansione e male è contrazione del desiderio e della vita stessa degli esseri – ciò che però non è un difetto, ma una necessità naturalmente determinata.
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Ontodicea

Non: gli enti, i modi dell’essere (o della sostanza) e le loro relazioni sono belli e buoni in sé. Ma: la loro contemplazione è bella e buona. O meglio: può esserlo. Poiché quella contemplazione non ricomprenderà mai la totalità degli enti, dei modi e (soprattutto) delle loro relazioni.
La crepa oscura dell’essere – il male – non può essere contemplata senza suscitare orrore. L’etica e l’ontologia rimangono distanti se non difformi – con buona pace del mio amatissimo Baruch. Né gli ontologi o i teologi saranno mai in grado di richiudere quella ferita – o di contemplarla placidamente come se nulla fosse; o meglio, come se essa fosse logicamente necessitata ad essere. Essa rimane ai loro (e ai nostri) occhi aperta e sanguinante.

Tris cinefilosofico – 3. L’ontologia di Malick

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Il problema di The Tree of Life, forse il più importante film di Terrence Malick, è che siamo al limite dell’incommentabilità, tanto è ricolmo di cose, di concetti, di suggestioni (oltre che di visioni), sia in termini strettamente estetici (citazioni letterarie e pittoriche, prestiti cinematografici, uso della musica, ecc.) che filosofici. E ciò nonostante (o proprio grazie alla) scarna essenzialità della trama. Trama è detto qui in senso apicale, non banale – poiché di tessitura del cosmo si tratta, e del rapporto tra micro e macrocosmo. Una trama che nel nostro caso si appalesa nel destino di una delle tante famiglie dell’umana avventura (con annessi conflitti e tragedie secondo schemi classici: il padre e la madre, la physis e il nòmos, l’amore e l’odio, il conflitto verticale ed orizzontale, la morte), vicende ricorrenti che a sua volta intramano il mondo, e di cui in verità il mondo (l’essere) ben poco si cura.
Ed è proprio da qui che forse si deve partire, dalla domanda metafisica essenziale (altrimenti non si capisce perché dedicare mezz’ora di film alla cosmologia e alla paleontologia, confezionate ovviamente con immagini di straordinaria poeticità): che relazione c’è fra le trame degli umani e le trame ontologiche?
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Atomi pensanti (e possibilmente denuclearizzati)

Atomi tormentati, su questo cumulo di fango,
che la morte inghiotte e con cui la sorte gioca
ma atomi pensanti.
(Voltaire)

Ho già più volte affrontato su questo blog il tema della teodicea (qui in particolare, anche se rovesciato in termini di antropodicea). E’ sempre bene ricordare, con le parole del Dialogo della natura e di un islandese di Leopardi, che la natura è del tutto indifferente alle nostre vicende, e se ne sbatte altamente di noi come di tutte le altre specie o dei singoli viventi. O meglio: ciò che noi chiamiamo “natura” non ha in sé nessun elemento soggettivo, nessuna volontà, nessun piano – così come noi un po’ presuntuosamente intendiamo questi concetti che le vorremmo attribuire, direttamente o indirettamente. Dio non c’è, e se anche ci fosse se ne sbatterebbe pure lui (perché mai dovrebbe appassionarsi ad un così minuscolo ed insignificante angolo, un banale puntino nell’economia dell’universo? – o della pluralità di universi, come vanno sostenendo alcuni cosmologi).
Quel che forse colpisce di più nelle immagini del muro nero d’acqua che ha spazzato via le città giapponesi di Onagawa o di Minamisanriku inghiottendo gran parte dei loro abitanti, delle case, degli oggetti – della medesima natura – è proprio quell’assoluta indifferenza, quel misto di terribile innocenza e cecità, quell’impersonale e necessario incedere degli eventi che non può non lasciare attoniti. E che però è il carattere più profondo – direi ontologico – della natura, del cosmo, dell’essere.
Dice Eraclito:
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Introduzione alla filosofia – 3. Cinici, stoici, epicurei: la filosofia come stile di vita

Potremmo sottotitolare questo incontro con l’espressione “la filosofia come stile di vita” (che è poi il titolo di un interessante libro scritto anni fa da Màdera e Tarca). Ci occuperemo cioè questa sera di quelle correnti filosofiche della tarda filosofia greca (siamo a cavallo tra il IV e il III secolo a.C.), che mettono al centro la questione etica e la libertà dell’individuo – in estrema sintesi è questa la domanda che ci porremo: come possiamo vivere saggi e felici in questo mondo? Domanda piuttosto impegnativa, visto che il mondo fa di tutto per distrarcene (o per darci delle risposte pronte, preconfezionate e spesso a loro volta infelici).

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B-sides: Melisso

Il divino Parmenide ha occupato tutta la scena, e la poderosa fondazione ontologica di cui si è reso protagonista ha finito per mettere in ombra i suoi epigoni. Non tanto Zenone, che anzi è stato molto studiato e celebrato per i suoi paradossi anche dai logici e dai matematici più schifiltosi nei confronti della filosofia, quanto piuttosto il povero Melisso di Samo, il parmenideo di serie C.
Politico e stratega della città dell’Asia minore che aveva dato i natali a Pitagora, diventato celebre per aver sconfitto la flotta di Pericle nel 442 a.C., quando non era oberato dagli impegni civici o militari si dilettava nel precisare e chiarire, con la prosa del pensiero logico, le incongruenze e gli sbreghi lasciati dal maestro di Elea, che forse si era preso un po’ troppe licenze poetiche nel suo poema sull’essere.
Melisso elenca e dimostra rigorosamente le qualità dell’essere già evocate da Parmenide: uno, tutto, eterno, immobile, omogeneo, inalterabile; diverge però dal maestro su un punto essenziale: l’essere è infinito, poiché se fosse finito, al di là dei suoi confini vi sarebbe il vuoto (cosa che non può essere, poiché il vuoto non è), o in alternativa altro essere – che dunque non avrebbe un termine spaziale. Anche dal punto di vista temporale l’eternità dell’essere viene descritta come “durata illimitata”. Parmenide aveva ritenuto la finitezza dell’essere un elemento della sua perfezione e compiutezza (la sfera: “cuore non tremante della verità“), ma Melisso vi ravvisa una debolezza logica da correggere.
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Lezione spinozista 8 – Sub specie aeternitatis

Philosophieren ist spinozieren
(G.W.F. Hegel)

Come farò a dire qualcosa di sensato sulla parte quinta dell’Etica?
C’è come una tensione sotterranea che corre in queste (peraltro non molte) pagine conclusive della grande opera di Spinoza, un voler riannodare tutti i fili, per farli convergere verso un esito unitario, che era poi anche il fuoco dell’inizio: quel Dio-sostanza da cui tutto era partito, contemplabile con un vero e proprio salto mortale ed attraverso una modalità inedita dello sguardo sulle cose e sul mondo – sub specie aeternitatis, nientemeno!
Com’è concepibile il punto di vista dell’eternità? Questo il nodo che Spinoza vuole qui sciogliere. Al che vien da chiedersi: che c’entra tutto questo discorso con quell’ampia parte dell’Etica che tratta di passioni, di corpi, di desideri, letizia, tristezza, e di tutte le forze che nel basso ventre della materia e della natura si agitano? Che rapporto possiamo mai avere – noi umani, animali tra gli animali, enti tra gli enti, modi transeunti e oscillanti dell’essere – con quella categoria altisonante che definiamo Eterno?

Come sempre la risposta (o meglio l’indizio per provare a rispondere) ci vengono dati lateralmente, in un qualche luogo del testo apparentemente secondario, magari uno scolio o un corollario, come ad esempio il seguente:

Ma si può obiettare che se intendiamo Dio come causa di tutte le cose, lo consideriamo, per ciò stesso, come causa della Tristezza. Ma a questo rispondo che, in quanto noi comprendiamo le cause della Tristezza, in tanto essa cessa di essere una passione, ossia cessa di essere Tristezza; e perciò, in quanto comprendiamo che Dio è causa della Tristezza, noi ci rallegriamo. (Scolio prop. XVIII)

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ANTROPODICEA

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Cade oggi il centenario del terremoto di Messina. Alle 5.20 del 28 dicembre 1908 bastarono trenta secondi per distruggere la vita di almeno 100.000 persone, cui va aggiunto un numero imprecisato di altri esseri viventi più o meno senzienti, a Messina, Reggio Calabria e dintorni; bastò un attimo per inghiottire le case, i palazzi (tra cui la meravigliosa palazzata neoclassica reppresentata nella stampa qui sopra), gli oggetti, tutto e tutti nel gorgo muto della morte. In un diario di quei terribili giorni, tenuto da un medico reggino, si legge: “La notte dal 28 al 29 specialmente è stata spaventevolmente tragica, notte angosciosa, infinita, in mezzo agli infermi che domandavano soccorso, mentre una pioggia gelata ci rendeva intirizziti e da Messina si levava estesamente il fioco chiarore degli incendi e il crepitio delle fiamme distruggitrici”. Il cronista registra poi con sconcerto come allignasse tra i sopravvissuti “una forma di dolorosa apatia”, un’angosciosa rassegnazione. Alcune mie vecchie zie avevano ascoltato i racconti che all’epoca si tramandavano e che sono giunte fino all’orecchio della mia infanzia: si narrava di campanili che oscillavano, di fughe miracolose ma, soprattutto, di un fato crudele che inchioda tutti al loro inesorabile destino.

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