L’intruso

(traccia dell’incontro del gruppo di discussione filosofica del 14 marzo 2022)

Mai come per l’argomento di questa sera – medicalizzazione della vita e rimozione della morte – è valido un approccio di tipo complessivo e dialettico: inquadrare la mutazione del fenomeno-morte nelle nostre società implica la necessità di guardarlo da lontano, e soprattutto in relazione con diversi piani, categorie, strutture. Ciò che è una modalità tipica dello sguardo filosofico: penetrare al di là della superficie, andare a vedere le molteplici cause, risalire alle radici, trovare le connessioni, individuare gli sviluppi e i loro intrecci. Ciò che qui possiamo solo provare a fare schizzando un quadro e offrendo degli spunti per ulteriori analisi e riflessioni.

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Interdetto sulla morte

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Ho appena riletto La morte di Ivan Il’ di Tolstoj, dopo aver scoperto un piccolo scritto di Sciascia intitolato “La medicalizzazione della vita”, contenuto nella raccolta Cruciverba, edita da Einaudi nel 1983.
Sciascia ne parla a proposito della propria esperienza vissuta di un passaggio cruciale del Novecento, che ha avuto ritmi diversi a seconda dei luoghi e dei contesti culturali, ovvero “il ricordo del passaggio da un’idea della morte all’interdetto sulla morte” – e paragona questo passaggio a quello dal lume a petrolio alla luce elettrica, quando aveva provato un vero e proprio senso di inondazione.
La medicalisation de l’idée de la vie è evocata dal medievista francese Philippe Ariès, e Sciascia la vede realizzarsi in Sicilia tra gli anni ‘30 e ‘40 – così come ne vede i primi chiari segni proprio nel racconto di Tolstoj (la stesura definitiva è del 1886). Sono due gli elementi essenziali su cui vorrei qui riflettere: in primo luogo questa nuova figura dell’interdetto sulla morte che nel racconto si presenta fin nelle prime pagine, con il sentimento di fastidio provato dai sopravvissuti (in primis dalla moglie del protagonista) nei confronti di quella morte che aveva osato incrinare l’ordine e il decoro borghese; e in secondo luogo sulla sovrapposizione delle figure del giudice e del medico.
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Terza parola: felicità

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“Ho riconosciuto la felicità dal rumore che faceva allontanandosi”
(Prévert)

Strana cosa la felicità, inafferrabile e sfuggente, ma soprattutto incerta com’è: eppure non c’è cosa che di più occupi la nostra anima e il nostro corpo se non la ricerca del piacere e, per suo tramite, di quello stato emotivo che definiamo, appunto, “felicità”: per certi versi potremmo dire che scopo principale del nostro agire è raggiungere, o avvicinarsi il più possibile, a quello stato di grazia. Parrebbe la cosa più ovvia e naturale, eppure…
Ma cerchiamo di dare uno sguardo (e di mettere un po’ di ordine) nella questione così come la filosofia l’ha considerata.

1. I filosofi come “medici” dell’anima?
In effetti Ippocrate, il primo grande medico greco, aveva stabilito un nesso tra psiche e corpo, vita mentale e vita sensibile, le quali avevano bisogno di un certo equilibrio, di un’armonia: equilibro tra umori interni del corpo e con il mondo esterno, il clima, ecc.
Col che si genera uno strano paradosso: nel momento in cui la filosofia viene intesa come “cura”, sembra quasi voler presumere una condizione di malattia ed infelicità originaria (“ontologica”, cioè costitutiva del nostro essere e legata alla natura umana in quanto tale).

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