Antropocene 5 – Homo deus

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Il termine Antropocene fu coniato negli anni ’80 dal biologo Stoermer, e ripreso dal chimico olandese Paul Crutzen nel 2000 per sottolineare il cambio di paradigma nella definizione delle ere geologiche: non siamo più nell’Olocene, ma nell’Antropocene, cioè nel periodo in cui è la specie umana a determinare le condizioni generali di vita nel pianeta. Questo smottamento è dovuto essenzialmente alla principale delle caratteristiche specie-specifiche di homo sapiens, la più variabile delle sue invarianze biologiche, ciò di cui parleremo principalmente stasera – Nostra Signora Tecnica.

Possiamo ritenere che la tecnica [dal greco téchne: arte, saper fare,  da intendersi sia come imitazione che come manipolazione della natura: ciò che è artificiale ed artefatto, contrapposto a naturale] sia la facoltà di costruire protesi e dispositivi, la potenza di agire sull’ambiente esterno e su di sé (a fini adattativi e trasformativi) – ciò che è coessenziale alla stessa natura umana. Ovvero: l’essere umano non è concepibile senza le proprie capacità tecniche, non esiste un homo sapiens che non sia tecnico.
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Vertigine

Mi capita talvolta, durante le mie corse domenicali, di “pensare forte”, con un’intensità che magari non accade da (o per) giorni e settimane, favorito in genere dall’effetto di transe del movimento e del ritmo del corpo.
Così è stato poco fa, quando ho avuto una vertigine pensando a dove le vele, i cannoni e la stampa degli inizi della modernità ci avessero portato mezzo millennio dopo (oggi le vele sono internet e la rete, i cannoni la potenza tecnica globale, la stampa la nuova religione dei dati). Ma la vertigine maggiore è stata pensare ad un mio simile alla fine di questo secolo, quando volgendosi indietro con lo sguardo penserà a sua volta a dove l’intelligenza artificiale e le biotecnologie hanno portato la “sua” umanità.
Il vero brivido, però, è stato non riuscire ad immaginare quale forma quella coscienza, quello sguardo e quel corpo potrebbe avere, all’approssimarsi del XXII secolo.

Obsolescenza umana

Un Harari tranchant:

«Se Marx tornasse in vita oggi, probabilmente spingerebbe i pochi seguaci residui a dedicare meno tempo alla lettura del Capitale e più tempo a studiare  Internet e il Genoma umano».

Quando l’ingegneria genetica e l’intelligenza artificiale riveleranno tutto il loro potenziale, il liberalismo, la democrazia e il libero mercato potrebbero diventare obsoleti come i coltelli di selce, le musicassette, l’Islam e il comunismo».

Dopo Homo sapiens

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Non so bene se qualificare quella di Leonardo Caffo – giovane e promettente filosofo italiano (di cui avevamo parlato qui) – una “utopia post-umana”, tanto più che questi termini avrebbero necessità di essere ridefiniti in maniera accorta. In questa Fragile umanità, ad essere senz’altro suggestive sono le immagini-anticipazioni derivanti dall’antispecismo (una tradizione di pensiero che, seppur recente, vede ormai irrobustirsi le proprie basi argomentative), sintetizzabili in un recupero dell’animalità diversa da quella propugnata da Nietzsche, ovvero una “presenza a sé” (Rousseau la chiamava “sentimento dell’esistenza”) che può però realizzarsi solo nel superamento della scissione posticcia umano/animale, e in un ritorno alla corporeità.
La tesi forte del saggio è la convinzione che la storia di Homo sapiens sia ormai giunta al termine, e che stia agendo – in contemporanea – una nuova speciazione laterale nata dalla consapevolezza di questa imminente fine: un’autoestinzione fortemente voluta ed annunciata, se è vero che la specie dominante, con le sue pratiche espansive, predatorie e colonizzatrici ha ormai consumato l’habitat necessario al suo stesso stare al mondo, e ha generato un vero e proprio sistema autoimmune, non più in grado di discernere ciò che danneggia sé e l’ambiente.
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Bioepoca – seconda parte

Diamo ora uno sguardo alla scienza e alla tecnoscienza.
La rivoluzione scientifica in epoca moderna – attraverso la riappropriazione della natura da parte della sfera umana, sottratta alla precedente ipoteca teologica – costituisce l’avvio di un processo di teorie e di conoscenze che oggi possiamo definire apparato tecnoscientifico, e che si sostanzia in una precisa mentalità nei confronti del mondo naturale.
La scienza si presenta apparentemente in forma di sapere neutrale ed oggettivo, lontano da ogni connotazione valoriale (fatti, non giudizi): in una formula matematica o in una reazione chimica, oppure nella conoscenza relativa alle tecniche riproduttive dei coleotteri non c’è, né può esservi, nulla di rilevante sul piano etico. Questo non vuol dire che il sapere scientifico è l’unica forma di conoscenza data. Anche un quadro o una sinfonia ci dicono qualcosa della realtà; basti poi pensare alla poesia, e a quanto essa sia in grado di descrivere con precisione i sentimenti umani, magari meglio di quanto non facciano le neuroscienze (che si limitano spesso a tradurli in reazioni chimiche o in “luci” che si accendono nelle varie parti del cervello).
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La torta e la glassa. Note sulla natura umana

La cultura è una glassa, la biologia una torta
(C. Geertz)

Poiché negli ultimi tempi si sono generate lunghe discussioni – talvolta confuse per l’inevitabile sovrapporsi  ed accavallarsi dei temi – vorrei provare a fare il punto su quello che si sta manifestando come uno dei filoni più consistenti e persistenti del blog, e che lo ha caratterizzato fin dalla sua apertura: la questione della natura umana e del rapporto umano-naturale, con le loro inevitabili ricadute etico-politiche. Non vuole (né può) essere una sintesi esaustiva, né tantomeno la (mia) parola definitiva sull’argomento – anche perché nel quindicennio in cui me ne sono occupato c’è stato un divenire (non saprei dire se uno sviluppo o un “inviluppo”), ma certo un mutamento, delle mie opinioni in merito.
Sento l’esigenza però, onde evitare continui fraintendimenti (che pure ci saranno ugualmente), di chiarire per sommi capi il mio pensiero in proposito. E, insieme, di fornire alcune coordinate di base ai sopraggiungenti, o a coloro che vorranno partecipare alla discussione in un prossimo futuro.

1. Che siamo

L’inaggirabile orizzonte ontologico di ogni discussione resta la constatazione insieme logica ed empirica del nostro essere – o, per  meglio dire, del nostro essere in uno con l’essere. Siamo, e nel dirlo c’è l’autoevidenza assiomatica e non contraddicibile di quella particella verbale. Dico “siamo”, non “sono” non a caso: intendo così prendere le distanze da quella tradizione filosofica che trova la sua massima espressione nel cogito cartesiano, che tende insieme a  soggettivizzare la dimensione ontologica e ad espellerne l’elemento sociale, naturale, storico e biologico. Una prima presa di distanza dal riduzionismo, filosofico e scientifico che sia.

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LE STELLE VISTE DA GATTACA

(clicca sull’elica↑)

“Non solo credo che arriveremo a manipolare la natura,
ma credo anche che sia proprio questo
che Madre natura vuole da noi”.

Ci sono film che sono veri e propri saggi filosofici. Già ne avevo parlato a proposito di Rashomon; torno a parlarne dopo aver rivisto per l’ennesima volta Gattaca, uno dei più bei film di “fantascienza” mai girati. Metto le virgolette perché, con tutto il rispetto per il genere (che adoro), potrebbe risultare un’attribuzione riduttiva. Quel film non è solo la prefigurazione di uno scenario possibile – l’anticipazione di una distopia – ma un’ampia riflessione sul concetto di determinismo genetico. Così come Mondo nuovo di Huxley era stato, con sorprendente anticipo, il libro della Bioepoca imminente, Gattaca è il film della Bioepoca incombente e anzi in fase di attualizzazione. Al di là degli elementi “tecnici” e strutturali del film – perfetto per ambientazione, retroversione temporale (con quel sapore anni ’50 pur in un futuro non troppo lontano), cast stellare di attori (compreso Gore Vidal), musica, momenti poetici e metafisici che riescono a contenere anche quelle sbavature retoriche che pure ci sono – è proprio la sua profondità riflessiva, molto pacata ma al contempo devastante, ciò che mi ha sempre colpito. E che lo fa essere, appunto, un film filosofico.
Al centro della scena, l’opposizione irriducibile tra determinismo e possibilità: il curriculum iscritto nelle cellule o la libera costruzione di sé, la validità predeterminata del profilo genetico o l’invalidità del caso e delle circostanze.

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ELOI’, ELOI’, LAMA’ SABACTANI?

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Mi è capitato oggi di assistere a un funerale e ho dovuto inevitabilmente entrare in chiesa e sorbirmi la funzione con la predica e tutto il resto. Una cosa che di questi tempi mi irrita più del solito (sarà che anch’io sono “eticamente sensibile”…). Poi però mentre ascoltavo le sciocchezze – le solite sciocchezze – spacciate dal sacerdote sulla morte e sulla resurrezione, mi sono detto che… poverini, un po’ hanno ragione a preoccuparsi ‘sti pretastri. Non c’è da stupirsi che stiano facendo le barricate sulle “questioni eticamente sensibili”. Alla fin fine gli è rimasto solo quello cui aggrapparsi…

Aldo Schiavone a tal proposito, nel saggio di cui abbiamo già avuto modo di discutere, avanza la tesi che quelli dell’entrata e dell’uscita dal ciclo vitale siano ormai i territori residui su cui la chiesa può oggi tentare di esercitare gli ultimi brandelli di potere : “Lo scontro si consuma intorno al controllo di due punti chiave nella geografia del nostro percorso di vita: l’ingresso e l’uscita. Come nasciamo e come moriamo”. Dopo secoli di arretramento sul terreno scientifico, cosmologico, fisico; dopo le sconfitte nel confronto con Galileo e Darwin; dopo i processi di secolarizzazione e scristianizzazione; con l’avanzare del principio di autodeterminazione da parte delle varie soggettività, dopo una lunga serie di battaglie perse – ecco che al clero non resta altro che arroccarsi sulla difesa dei confini “naturali” del percorso vitale. L’alfa e l’omega.

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LA SPECIE, LA STORIA, IL DESTINO

storia-e-destino.jpgFa venir voglia di proiettarsi nel futuro, almeno di un secolo o di 3-4 generazioni più in là, questo piccolo e prezioso saggio di Aldo Schiavone intitolato Storia e destino, recentemente pubblicato da Einaudi. Le righe di copertina, in effetti, ci promettono grandi cose: “La tecnica, la natura, la specie: esercizi di futuro e di speranza per prepararsi al tempo che ci aspetta. Il manifesto di un nuovo umanesimo”. Niente meno! Eppure la promessa viene mantenuta, per lo meno in termini teorici, se è vero, come ho già detto, che la sua lettura suscita questo strano desiderio di saltare oltre il presente, in un futuro ignoto e affascinante. E proprio da alcune considerazioni sul tempo parte il ragionamento di Schiavone. Proverò qui a schizzarne i punti secondo me più salienti.

1. La rimozione del futuro
Schiavone coglie nel cortocircuito temporale il vero male, il grande vuoto dei nostri tempi: la banalizzazione del passato, un vero e proprio oblio di sé, insieme all’assenza di progettualità e di speranza ci hanno consegnato ad un “presente indecifrato”, un misto di irresponsabilità e di terrore per la propria potenza. Il paradosso sta proprio qui: quanto più la scienza e le nostre conoscenze ci dicono a chiare lettere come tutto sia “storia”, “processo”, “incessante trasformazione”, tanto più noi ci sottraiamo alla responsabilità che ciò comporta. Rischiando così di mancare ad un appuntamento cruciale con la storia della nostra specie.

2. Una specie fortunata (e scissa)
Ma dove sta l’eccezionalità della nostra attuale condizione?
Schiavone svolge nei primi capitoli un rapido schizzo della nostra storia evolutiva – noi umani in quanto specie, all’interno di una natura in perenne movimento, entro il quadro di un universo a sua volta in lenta ma inesorabile trasformazione. L’occhio che ci vuole per guardare a questi movimenti innestati l’uno nell’altro è quello della lunga durata, del “tempo profondo”, cui non sfugge però una evidente verità: l’accelerazione che la specie umana ha impresso al tempo e alla storia a partire dalla sua comparsa sul pianeta. Una storia di fortuna, casi, necessità evolutiva che alla fine ha decretato il nostro successo come mai sarebbe stato possibile prevedere. “Ci è andata davvero bene”, è l’espressione calzante, sebbene poco scientifica, che usa l’autore. Con un risultato, però, al quanto paradossale: mentre pensiero e azioni (lo “spirito”) della specie sono usciti ben presto dal tempo profondo, vi rimangono immersi gli aspetti biologici e morfologici, creando così due livelli, una vera e propria scomposizione tra invariante biologico (per citare Virno) e artificialità tecnica e sociale. A dire il vero anche su quest’ultimo fronte il movimento presenta una certa disomogeneità: fino ad un certo punto la specie è “progredita” in maniera pressoché omogenea, con pause, rallentamenti e improvvise accelerazioni, con l’esito dell’attuale scissione culturale ed economica (non ancora ricomposta) prodotta dalle successive rivoluzioni industriali – “la tempesta” che ci sta travolgendo da due secoli e che non accenna a placarsi, i cui tempi della progressione risultano, anzi, sempre più contratti e accelerati.

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3. Oltre la specie
Ma siamo ora a una svolta, una sorta di “punto di non ritorno”. Scrive Schiavone: “Noi stiamo appena entrando in una nuova rivoluzione tecnologica – la terza della nostra storia, dopo quella agricola e quella industriale, ormai completamente esaurita”. Si tratta ora non di una corsa ma di una vera e propria esplosione, “l’improvviso sfondarsi di una soglia”, “una freccia lanciata verso l’ignoto” – le metafore utilizzate cercano di descrivere l’epocalità del momento. Il punto è questo: per la prima volta saremo in grado di governare la scissione che fino ad ora ha caratterizzato la nostra specie, quella cioè tra vita e intelligenza. Le due storie, finora separate, potranno finalmente essere riunite: “Le basi naturali della nostra esistenza smetteranno presto di essere un presupposto immodificabile dell’agire umano, e diventeranno un risultato storicamente determinato della nostra cultura”. Quella che si apre di fronte a noi, con le nascenti rivoluzioni biologica e informatica, è la bioepoca (Schiavone in verità non utilizza questo termine ma quello di bioconvergenza), l’epoca in cui non solo la nostra mente ma anche il nostro corpo, le condizioni biologiche della specie, il sostrato che credevamo immutabile viene ricondotto alla dinamica della storicità e trasformabilità. Il nostro bios diventa anche il nostro destino – “espressione di una tendenza non più arrestabile”.

bioe1.jpg4. La “natura umana”
Tutto ciò evoca naturalmente l’attuale dibattito (e scontro) a proposito del concetto di “natura umana”. Per la verità, ne scombina radicalmente le coordinate: dimostrare che nulla è immutabile – la sostanza della ricerca scientifica dell’ultimo secolo, da Einstein in poi – e che tutto è storia e mutamento, che la storia della specie ha in sé il principio della modificabilità e dell’autoproduzione, che è anzi il cardine del suo sviluppo, ebbene queste tesi, suffragate dal ritmo evolutivo, rischiano di mettere in luce come “cattiva ideologia” tutte quelle posizioni etiche, religiose, politiche che si frappongono al realizzarsi del “destino” umano. E, soprattutto, mostrano come dietro a ciò il nodo vero sia quello del potere, della biopolitica direbbe Foucault. In particolare, lo scontro riguarda il controllo dell’ingresso e dell’uscita nel nostro percorso vitale, come nasciamo e come moriamo. Ciò che ci aspetta, d’altra parte, è la possibilità di superare ogni antica dicotomia: quella tra natura e cultura, naturale e artificiale, corpo e mente, storia evolutiva e storia dell’intelligenza, non umano e umano. Sarebbe la fine dell’infanzia della specie, e l’ingresso nella sua fase adulta e matura. Come dice Wilson: “noi ci stiamo congedando dalla selezione naturale. Stiamo per guardare in noi stessi, e decidere cosa vogliamo diventare”.

5. La configurazione post-naturale
I mutamenti sono solo appena immaginabili. Tuttavia se ne possono delineare alcuni: il superamento della morte così come l’abbiamo finora conosciuta; la minore rilevanza della differenza sessuale e dell’identità di genere; un incredibile potenziale di liberazione e di autodeterminazione; la reale programmazione delle nascite sottratte per sempre alla logica della selezione naturale; l’allargamento delle frontiere etiche fino a comprendervi tutto il vivente. Una vera e propria “deposizione dell’animalità” e della fissità dei tratti biologici in favore di una straordinaria crescita della sfera spirituale e dell’autocoscienza.
Il problema che a questo punto si pone è però quello dell’unità della specie: non tutti sul pianeta varcheranno insieme la soglia della transizione. D’altra parte tale soglia sarà il passaggio più stretto della nostra storia, l’azzardo più ardito.
Sarebbe del tutto inutile cercare di arrestare la forza e l’impatto della tecnica: è un processo inarrestabile, un “destino” appunto – il “destino” che la specie allo stadio in cui è arrivata è in potere di darsi. Sarà allora necessario promuovere la fondazione di un’antropologia culturale, etica e politica dell’uomo tecnologico, capace di condurci dall’altra parte del guado.
Un’etica per il miglioramento e il superamento della specie, che ne preservi però l’unità durante la transizione; un’etica che disinneschi il potenziale di violenza e di aggressività; un’etica per la difesa del pianeta; una nuova politica dell’eguaglianza, “come illimitata possibilità di ricercare la propria diversità”.
“Come mantenere aperta questa prospettiva per tutta la specie e non solo per quella sua parte privilegiata dallo sviluppo storico degli ultimi secoli (un niente nella comune storia della vita) sarà la grande sfida cui dovremo dare una risposta”. D’altro canto le differenze culturali e sociali scompaiono se osservate con l’occhio della lunga durata: tra qualche migliaio di anni, come ci insegna Levi-Strauss, allo scienziato sociale che dovesse studiare le rivoluzioni di questi secoli, poco importerà sapere dove sono nate, qual è stato il punto di origine dell’incendio.
L’attuale epoca neoimperiale caratterizzata dalla “guerra globale” in veste di “scontro di civiltà” può così apparire come una sorta di fase di transizione, un periodo di sanguinosa guerra civile, in un mondo che tende ad integrarsi e a unificarsi.

infinito.jpeg6. Finito e infinito
Le ultime pagine del saggio si dedicano brevemente alla riconnessione di tutto il precedente ragionamento con le basi filosofiche che in qualche maniera lo sostenevano (“non è questo un saggio scientifico, né storico, né filosofico”, ci aveva avvertito l’autore in principio). Ma il piccolo esperimento che inseguiva una traccia, quell’esercizio di immaginazione (e di speranza) trova infine un suo apparente fondamento ontologico, metafisico, persino religioso.
Uno dei pensieri cruciali della Logica hegeliana è quello dell’inserzione dell’infinito nel finito – un rovello che accomunerà anche il pensiero di Marx e di Nietzsche. Ma quello che era solo un termine teorico, con la potenza tecnoscientifica dispiegata diventa una possibilità pratica: davvero l’uomo si va equiparando a Dio, destinato com’è a farsi a sua immagine e somiglianza. Egli, sempre più, hegelianamente è l’espandersi indefinito della sua coscienza e autocoscienza; marxianamente la specie che per essenza (Gattungswesen) si autodetermina storicamente e determina altresì le basi della propria storicità, plasma sé e il mondo; niccianamente è volontà di potenza e Ubermensch, oltreuomo.

images.jpeg7. Nodi e vertigini
Tutto ciò può anche mettere i brividi, scatenare scenari terrorizzanti, essere un “salto nel vuoto”. Lo si è paventato a lungo per tutto il Novecento: nella letteratura, nel cinema, nell’arte, nelle cosiddette “distopie” (dal Mondo nuovo di Huxley a Gattaca), attraverso la sindrome di Frankenstein. Ma la specie così come si è determinata, con una lunga serie di tentativi ed errori, con il caso fortunato di trovarsi al punto in cui è (l’intelligenza in grado di dare forma al mondo e a se stessa), non sembra più potersi sottrarre al compiersi del suo “destino”. Un destino che non è il frutto di una necessità preordinata, di un piano o di un disegno, ma di un accaduto necessitante che si trova alle sue spalle (“le carte in tavola” che non possono non essere giocate).
Non è ancora chiaro come sciogliere tutti i nodi; sembra anzi esserci una distanza incolmabile tra l’utopia post-umana disegnata da Schiavone e il disperante attimo in cui ci troviamo con i suoi grovigli di guerre, orrori, ingiustizie, con il disastro ambientale alle porte, con la sensazione di una diffusa (in)cultura in cui sembrano prevalere le pulsioni più basse, egoistiche e violente. Per non parlare dell’abisso che separa i singoli – ciascuno di noi, nella sua finitezza e fragilità – dalle strutture e dai processi evocati. Roba da far tremare i polsi!
Schiavone non confida molto nella forma politica, sembra anzi scettico sulla sua capacità di conduzione, progettualità, ricomposizione. L’impressione è che tra la fulmineità del mondo tecnico e l’inerzia della sfera politica si sia consumata una frattura quasi insanabile. Si tratterà dunque di trovare nuove forme (nuove “tecniche”), una nuova etica che ci indirizzi verso una sorta di “tecnodemocrazia”, senza precipitarci nel baratro di un tecnoincubo, mi verrebbe da aggiungere. L’assoluta indeterminatezza del futuro dà le vertigini al solo pensarla, conclude Schiavone, ma a quel futuro non possiamo (né dobbiamo) sottrarci.

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Postille

1. La surreale foto in coda è di Ro_buk, la scala verso quel cielo così denso di ignoto mi è parsa piuttosto evocativa e in tema! Per ingrandirla basta cliccarci sopra.

2. Schiavone nelle prime pagine del libro ricorda il fatto straordinario che noi umani , gli ultimi arrivati in ordine di tempo, siamo però in grado di essere “spettatori dell’inizio”, dell’infanzia dell’universo. La pagina web della Nasa citata è http://map.gsfc.nasa.gov/m_mm.html