Quando Benedetto XVI giunse al soglio pontificio, ricordo che una mia cara amica laicissima e illuminista lo soprannominò papa Natzinger. Non solo per le parole e il programma – peraltro ampiamente annunciato nei decenni di stretta collaborazione con Wojtyla, un papa nuovissimo per ragioni di “marketing” e quantomai reazionario per ideologia – ma anche per la gestualità e per quel sorriso forzato, un po’ pastore tedesco un po’ sepolcro imbiancato. Certo, un giudizio quantomai tranchant, ai limiti del lombrosiano, che oggi verrebbe guardato storto dal fiume di retorica corrente.
Ma la guerra del nuovo papa contro il relativismo, la sua visione tradizionalista ed assolutista, forse inevitabile a ridosso dell’epoca della “guerra di civiltà” e della discussione europea sulle “radici cristiane”, non poteva che infastidire qualunque progressista. Oggi che più di ieri il progressismo è un concetto abusato e problematico (ma del resto il Pasolini del discorso sul “sacro” e una schiera di filosofi novecenteschi ci avevano avvertiti), possiamo non tanto rivedere ma ricollocare quel giudizio nel nuovo contesto, etico, antropologico e geopolitico.
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La verità (orwelliana) della guerra
Visto ciò cui abbiamo assistito in questi 9 mesi (ma direi in questi ultimi anni), e andando con un po’ di memoria alla storia, ciò che ci dovrebbe agghiacciare è l’esilità del concetto di verità. Non sto parlando di “verità assolute”, ma di verità fattuali, verificabili con i sensi e con la ragione.
Basti pensare alle variabili narrative dell’incidente polacco dell’altro ieri: ciò che lì conta non è davvero quel che è successo, ma quel che si decide che sia successo – quel che il soggetto o i soggetti che hanno il maggior interesse e la maggiore potenza di fuoco propagandistica per affermare quell’interesse, decidono che sia la verità del momento.
La memoria va alla pistola fumante di Bush (e dell’alleato Blair), le fialette di antrace esibite per giustificare e scatenare la seconda guerra all’Irak.
Il fatto che in questa fase Biden abbia deciso di bloccare il delirio guerrafondaio di Zelensky o che il governo polacco abbia fatto una frettolosa retromarcia, non modifica la sostanza del problema – e ciò vale anche per l’altro fronte propagandistico, dove la guerra continua ad essere pervicacemente denominata “operazione speciale” secondo una neolingua di stampo orwelliano.
Ma ciò era chiaro (o doveva esserlo) fin dall’inizio: la guerra semplifica/distorce la realtà e riduce la verità a sua volta ad uno strumento di guerra. La guerra uccide la ricerca della verità. Siamo così appesi al filo delle verità decise di volta in volta dai guerrafondai. Verità brandite, plasmate, nascoste – che forse un giorno gli storici proveranno a ricostruire e decifrare. E i filosofi a criticare e ripensare – sul volo crepuscolare della nottola di Minerva. Ma oggi sono “verità” che si tramutano nel giro di un lancio d’agenzia in bombe, missili, distruzione e morte.
Un mare di fili d’erba
«La verità è un mare di fili d’erba che si piegano al vento; vuol essere sentita come movimento, assorbita come respiro. È una roccia solo per chi non la sente e non la respira; quegli vi sbatterà sanguinosamente la testa».
[E. Canetti, 1943]
Filosofia della leggerezza
Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini,
avrà spostato tutte le pietre di confine;
esse tutte voleranno in aria per lui,
ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola
– “la leggera”.
(F. Nietzsche)
PRIMA PARTE – IL PENSIERO DELLA LEGGEREZZA
«Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite».
Italo Calvino scrive queste parole durante l’estate del 1985, poco prima di morire – parole che si possono ritenere un lascito, un vero e proprio testamento culturale.
Si trovano nella prima delle sei Lezioni americane, quella dedicata alla “Leggerezza”, e ritengo possano ispirare il discorso che vorrei articolare a proposito del passaggio (o se si preferisce della dialettica) tra gravità e leggerezza. Calvino sembra qui alludere ad una visione millenarista, uno snodo epocale, augurandosi che la ruggine materiale e spirituale del Novecento venga abbandonata al suo destino, e auspicando un salto nella dimensione di una categoria – la leggerezza – che va meglio chiarita.
Letture filosofiche: Platone
Un passo dal Fedone (66 b-e), nel quale si sostiene che la conoscenza della verità non è raggiungibile in questa vita. La sapienza è solo per i morti.
Il re nudo: una nota a proposito dell’invisibilità
Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo,
Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono.
[J. Saramago]
Se è vero, come argomentato da Sergio Givone, che esiste una metafisica della peste, cioè il manifestarsi nel corso delle epidemie di qualcosa che eccede la mera fisicità biologica del male, e che addirittura evoca la domanda sul senso dell’essere (o sulla sua insensatezza) – allora non dovrebbe apparirci strano il paradosso che si genera a proposito dell’invisibilità: un morbo invisibile che rende visibile l’invisibile, ciò che per lo più non si vede – o perché è l’orizzonte (la struttura sottile) nel quale ci troviamo a vivere, o per una nostra pregressa e consolidata cecità o – più radicalmente – perché ha a che fare con il sottosuolo mistico e inafferrabile delle cose (quel che un tempo si chiamava verità).
Avevo un po’ fumosamente attribuito alla figura dello straniamento – la prima tra le parole del contagio ad essermi venuta in mente – la situazione ai limiti dell’assurdo che si va producendo nel corso di una pandemia: il mondo di prima viene sospeso e messo tra parentesi e nel corso di questa sorta di epoché fenomenologica, qualcosa di apparentemente nuovo, inedito, strano – perturbante – ci si mostra all’improvviso. Molti, anche sui social, hanno ad esempio parlato di ritorno all’essenziale o di uscita dal superfluo; lo hanno fatto magari solo in modo superficiale o sull’onda di facili slogan, ma è il caso di andare a vedere cosa sta dietro a queste reazioni, emotive prima ancora che razionali. Credo che proprio la dialettica tra visibile e invisibile cui alludevo sopra, renda più chiare queste sensazioni di straniamento o cortocircuiti della cosiddetta normalità.
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Le parole del contagio
La morte – come da un’alta vetta –
riformula i criteri di giudizio
e ciò che non credemmo
ora scorgiamo chiaro
(Emily Dickinson)
«Non ho visto, pertanto, nient’altro da fare che provare, come chiunque altro, a sequestrarmi a casa mia e nient’altro da dire che esortare chiunque altro a fare lo stesso», così scrive Alain Badiou.
E alla domanda: “Che cosa possiamo imparare dal virus?”, Massimo Cacciari risponde seccamente: Nulla. A stare fermi un po’. Cosa volete imparare? Basta con questa retorica che dalle difficoltà si esce migliori. Il nostro cervello è lo stesso di 100.000 anni fa…
Qualcuno si sarà senz’altro chiesto che cosa può dire o fare la filosofia di fronte ad un evento come quello che stiamo vivendo, così violento e inaspettato (uno dei problemi è anche quello della sua definizione e qualificazione). Hanno ragione Badiou e Cacciari: la filosofia non può nulla. La filosofia non può modificare il corso degli eventi, la filosofia non può prevenirli, la filosofia non può nemmeno consolare gli animi. Ciò che forse può fare la riflessione filosofica è aiutare le menti ottenebrate degli umani a vedere con maggior chiarezza quel che hanno davanti (o sotto i loro piedi o alle loro spalle o dentro di loro), anche se in un senso radicalmente diverso da quello della scienza. Ecco, la scienza può provare a prevenire, modificare, curare, salvare (anche se non è detto che ci riesca), la filosofia no. La religione può provare a consolare, confortare, rasserenare, ma non la filosofia. Compito della filosofia è solo quello di dire il vero, o di provarci. La verità, una parola che può anche svelare cose che non vorremmo né vedere né sapere.
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7 parole per 7 meditazioni – 2. Verità
«Bello, senza riserve, è l’amore della verità. Esso porta lontano, ed è difficile giungere al termine del cammino. Più difficile però è la via del ritorno, quando si vuol dire la verità. Voler mostrare la verità nuda è meno bello, poiché turba come una passione. Quasi tutti i cercatori di verità hanno sofferto di questa malattia, da tempo immemorabile».
Per quanto il concetto di verità sia un concetto-chiave del discorso filosofico (per certi aspetti lo fonda), è forse proprio per questo che risulta problematico da definire: un po’ come succede per parole come “essere”, “realtà”, “conoscenza”, “totalità”, “bene”, troppo estesi per essere chiaramente intesi, eccessivi ed eccedenti le nostre capacità discorsive. Quale paradosso! La mente evoca un concetto nel quale finisce per smarrirsi…
Siamo qui in presenza di fondamenti, di assiomi, di elementi costitutivi senza i quali il discorso filosofico non sarebbe nemmeno possibile, un po’ come quando la ragione ragiona su se stessa. Sono categorie nelle quali siamo immersi, così come siamo immersi nel linguaggio, che è il presupposto di ogni nostro discorso: per poter dire che qualcosa è vero dovrei già possedere un criterio di verità, ma da dove lo posso ricavare? Un tempo ci pensavano la fede, gli dei, i miti, le credenze – ma l’epoca del lògos e della sapienza greca ha rivoluzionato ogni cosa…
La scienza è la verità (nientemeno!)
«Dalla certezza scientifica che l’uomo sia l’essere più evoluto, gli scienziati ne traggono un’altra, e cioè che gli scienziati siano i più evoluti tra gli uomini – perché sono, tra gli uomini, quelli che conoscono meglio le leggi dell’evoluzione. E sulla certezza che gli scienziati siano i più evoluti tra gli uomini poggia la certezza fondamentale della scienza: ovvero che la scienza è la verità. Il che significa che ciò che gli scienziati sanno del gatto è il gatto, e ciò che sanno di una nuvola è la nuvola, e ciò che sanno della particella subatomica è la particella subatomica, e così via – perché è scientificamente impossibile che esseri tanto evoluti come gli scienziati si sbaglino nel constatare e nel descrivere ciò che c’è. […]
Ma ci vuol poco ad accorgersi che questa idea è infondata: ciò che la scienza studia non è affatto quello che c’è in natura, ma soltanto una descrizione di ciò che alcune persone credono che vi sia in natura».
[I. Sibaldi]
Quarta passeggiata filosofica
La filosofia, nata in città, volge lo sguardo alla natura – la physis nella lingua greca – fin dagli esordi. Uno sguardo razionale, che cerca un principio da cui ogni cosa sporge e sorge – l’arché. Per poi, infine, ritornarvi. Il medesimo principio da cui noi stessi siamo generati – in un unico flusso metamorfico.
La primavera, il risveglio della natura, lo sbocciare della vita, evocano con forza quell’idea, quel principio, quella sensazione di comunanza.
In quella natura-riserva un po’ asfittica che è la natura in città, proveremo a camminare, a pensare, ad immaginare e a meravigliarci di fronte a quel principio sorgivo che tutto regge. Physis, arché, natura naturans – natura che sempre si genera, da sé, muta e si espande. E a sé ritorna. Iuxta propria principia.
E che – proprio in questa stagione – esplode in una miriade di forme, di spore, di gemme, di fiori, di colori, di foglie e di frutti, un carnevale e una festa della moltitudine vegetale (una “verditudine”) resa possibile dall’ “invenzione” evolutiva delle angiosperme.
Alla ricerca di un linguaggio insieme razionale e poetico, logico ed emotivo.
Filosofeggiare camminando, per il puro piacere di farlo.
Al battere del passo senza meta, fine a se stesso.
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