Bìa

(Non si può non essere colpiti dalla duplice assonanza nella lingua greca tra bìos e bìa – ed in quella latina tra vita e vis. L’intreccio tra forza, impulso vitale, vigore e violenza è troppo potente ed inestricabile fin nel linguaggio che li denota, per non lasciare impressionati. Nell’Iliade ciò appare in maniera nettissima, là dove la parola bìa viene addirittura usata in endiadi con arete: “la virtù e la violenza”, “la virtù cioè la capacità di usare violenza” – come annota Mario Vegetti. L’invenzione della pòlis – e dunque della sfera politica – è il tentativo di arginare l’ira funesta di Achille…)

Ieri pomeriggio, mentre mi recavo ad un mercato di prodotti biologici, stavo riflettendo sui fatti di Roma di sabato 15 ottobre, quando ho assistito alla seguente scena: un anziano alla guida di un’automobile, nel fare manovra per uscire dal parcheggio, sembra non vedere una famiglia  (padre, madre e tre bambini) in quel momento di passaggio. La reazione, che anch’io ho avuto, è stata comprensibilmente del tipo “ma guarda questo stordito!” – però il padre va molto oltre, ed esclama a voce alta: Continua a leggere “Bìa”

Ratio

Solo nei videogiochi
si possono distruggere gli armamenti

senza toccare gli esseri umani.
(T. Todorov)

Il Guernica di Picasso denuncia universalmente una ratio – il lume della ragione – spenta per sempre dalla guerra. Anche Goya ci aveva parlato dei mostri che il sonno della ragione genera, e aveva denunciato i disastri della guerra. Eppure se è vera la celebre definizione di Clausewitz che “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi“, pare proprio che la ragione non possa essere espunta dagli scenari bellici, anche perché – prosegue Clausewitz – “la guerra è un atto di violenza il cui scopo è di forzare l’avversario a eseguire la nostra volontà“. A voler poi seguire la lezione hegeliana, lo Stato giunge nella guerra nientemeno che “alla più alta coscienza di se stesso”. Massima ratio, dunque!

Ma la domanda da farsi è se oggi davvero si può pensare che la politica – internazionale o nazionale che sia – abbia davvero una ratio definita e riconoscibile. Certo, le sue azioni e i suoi effetti risultano ancora decodificabili attraverso gli schemi della vecchia logica di potenza (che è poi quella forzosità volitiva di cui parla Clausewitz – a sua volta riducibile all’antica legge di Trasimaco, quella secondo cui forza e legalità si tengono): un dispiegamento di potenza, di violenza, di bios allo stato puro, ma con una sua logica, appunto.

Ora, io faccio fatica ad applicare la categoria di ratio al conflitto in corso in Libia. Continua a leggere “Ratio”

Trilogia del lato oscuro – 3. La violenza

Si trovò immerso, senza quasi accorgersene, nella folla festante di ragazzi, tra lazzi e piccole baruffe, parole lanciate come pugnali a trafiggere l’aria e volti solcati da sorrisi sguaiati e vagamente perfidi. Nessuno portava maschere o travestimenti – quelle erano ormai cose da bambini, che si erano lasciati alle loro spalle da almeno un paio d’anni. Ora brandivano fiale puzzolenti, bombolette di schiuma da barba sottratte ai padri (non sempre c’erano i soldi per comprarle), micce di vari calibri e piccole mazze di gommapiuma sequestrate alle bande avversarie l’anno prima, l’anno memorabile della calata dei lanzichenecchi, quando la battaglia all’ultimo sangue con le bande del paese vicino decretò per la prima volta la loro vittoria.
Si vociferava addirittura che girassero lamette e coltelli, ma lui non ne aveva ancora visti. Si trovò al centro della calca, trascinato dalla forza degli eventi. Ma non sembrava più l’allegra calca di prima: si avvertiva chiaramente che qualcosa stava per succedere. Prima una folata improvvisa di vento, seguita da un tremito e da un urlo sopra le righe; poi un gesto nervoso, un ghigno malevolo, una parola più tagliente delle altre; infine una scossa violenta, un movimento controcorrente lungo il flusso dei corpi – e il clima di festa era stato lacerato. A due metri da lui, un ragazzino minuto e dalla faccia angelica, con la maglietta a righe, ne stava affrontando un altro molto più grosso. Questi gli aveva sputato in faccia e l’altro, per tutta risposta, stava cercando di avvinghiarglisi addosso.
Lui si mise in mezzo per dividerli. Il cazzotto del mingherlino, inatteso, lo raggiunse al centro dello stomaco. Si piegò, mentre sentiva dire da entrambi – ma tu che cazzo vuoi?

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I dannati della terra

Dal momento che si vieta la contro-violenza agli oppressi, poco importa che si muovano dolci rimproveri agli oppressori (del tipo: equiparate dunque i salari o, almeno, fate un gesto; un po’ di giustizia, per favore!)” – così Sartre nel 1965.

Come può uno stato degno di questo nome pretendere per sé il monopolio assoluto della forza, se poi non riesce a garantire pari diritti, legalità, sicurezza a tutti i suoi cittadini – e soprattutto a quei non-cittadini, quelle nude vite, che sono per loro natura i meno garantiti, i più violabili, i più esposti alla violenza e all’oppressione?

Tanto più che non c’è quasi articolo della dichiarazione universale dei diritti umani che non sia stato violato; il fondamento della nostra costituzione repubblicana distrutto; il volto della democrazia e della civiltà irrimediabilmente deturpato.

Nei fatti di Rosarno di questi giorni (e delle Rosarno  sparse un po’ ovunque, reali e potenziali) emergono tutti i nodi cruciali della nostra epoca relativi ai diritti, all’esistenza, alla vita, al lavoro, alla dignità, alla cittadinanza, al rapporto con la terra e le risorse, al consumo, alla sussistenza, alle ingiustizie, alla libertà e all’eguaglianza di tutti gli esseri umani. Se non verranno affrontati e risolti quei nodi, le Rosarno del pianeta diventeranno migliaia e finiranno per metterlo a ferro e fuoco.

E nessuno può chiamarsi fuori a nessun livello: il governo (criminale e razzista, nel linguaggio, negli atti, nel suo stesso dna), l’opposizione, il sistema informativo, i sindacati, i movimenti, i cittadini di Rosarno governati dalla mafia (spiace per i rosarnesi solidali, che certo ci sono), tutti noi cittadini normali, noi che compriamo al mercato le arance e le verdure raccolte dagli schiavi e dai “negri”…

Ma chi è violato nella sua dignità ed essenza umana e non ha nessuna garanzia di essere tutelato, ha il diritto assoluto di ribellarsi, senza se e senza ma.

Discuteremo domani se le jacqueries non portano da nessuna parte, sono controproducenti e suscitano altro razzismo. Se sono forme deviate e perdenti di lotta di classe. Se è violenza che porta altra violenza. Se, se, se…

Domani. Oggi non voglio sentire altre ragioni: sto dalla parte dei “negri” e degli schiavi che affermano il loro elementare diritto ad esistere.

Deriva patologica

La prima cosa che mi è venuta in mente vedendo il volto insanguinato del sovrano – il corpo del sovrano violato ed esposto con le sue stimmate – è stata, come immagino per altri, il detto popolare chi semina vento raccoglie tempesta.
Il problema è che chi, come me, intendeva (ed intende ancora) la politica come la sapiente arte di mettere insieme il lato razionale e quello passionale, si trova forse un po’ spiazzato di fronte a quel che accade oggi. Poiché di razionale è rimasto ben poco – per lo meno in superficie, dato che poi la gestione degli interessi materiali mantiene sempre una sua logica ferrea; mentre il lato “passionale”, quando ancora c’è – l’appassionarsi alle idee e al tentativo di metterle in pratica per trasformare l’esistente – sembra ormai consegnato alla sfera del patologico.
Se è vero che alcuni fatti sono densamente popolati dai simboli, allora la maschera di sangue del quasi monarca italiano ne raccoglie davvero tanti. Innanzitutto quella forma estrema di patologizzazione della forma del politico e del suo linguaggio: le dinamiche amico/nemico e soprattutto amore/odio, che pure in politica non sono mai assenti, tendono a polarizzare e semplificare ogni discorso e ogni modalità relazionale della società civile e del suo esprimersi pubblicamente. Una forma patologica, che è se vogliamo psicopatologica: non intendo usare il termine “follia”, che detesto proprio perché generalmente imposto da un potere normativo che definisce folle ciò che sfugge alla sua ortodossia, ma non c’è dubbio che una certa irrazionalità (peraltro mai disgiunta dagli affari) che circola nella testa del capo provvidenziale, unto, miracolato e quant’altro, finisce poi per attrarre e innescare meccanismi psicosociali imprevedibili.

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Il malore attivo della memoria

Mi trovo sempre più spesso in uno stato di imbarazzo di fronte ai “giorni della memoria”. Ormai il potere che contribuisce, attraverso il sangue che sparge a piene mani, a creare giorni di dolore, vieppiù istituisce e appalta giorni dedicati a ricordare le sue stesse nefandezze. Poco importa che sulla ribalta siedano altri potenti (anche se purtroppo non sempre è così).
Accade com’è doveroso con la shoah (giornata della memoria per antonomasia, nodo dei nodi del Novecento), con le foibe, con la caduta del muro di Berlino, celebrata di recente. Inevitabile la retorica, in questi casi. So di amiche attrici e brave lettrici, anch’esse imbarazzate quando vengono loro commissionati spettacoli, letture, performance e quant’altro per ricordare a grandi e piccini le tragedie che furono. Eppure tacere e ritirarsi in sdegnoso silenzio non è meno imbarazzante. Anche l’essere alteri sa di posa teatrale, ed è forse persino più irritante.
Tanto più che capita di sentire dalla bocca di qualche sedicenne l’espressione: “Piazza Fontana? Mai sentita!” – e lo blocchi appena in tempo prima di sentirgli aggiungere  “ma cos’è, un nuovo punto di ritrovo della movida milanese?”…  e allora stai a spiegargli che quarant’anni fa è successa una certa cosa, e quello o quella aggrotta la fronte e, prima di ficcarsi in un orecchio l’auricolare dell’iPod, ti guarda stralunato come se fossi l’ultimo degli alieni. Non so se sia peggio questo o la convinzione, pare diffusa tra i più giovani, che a mettere la bomba siano state le Brigate Rosse. Del resto come diavolo fanno a sapere quel che è successo se nessuno glielo racconta – o meglio, se nessuno è in grado di raccontare e, ancor più, di farsi ascoltare?

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Quel che penso davvero in 19 tesi

(Questa volta la summa è farina del mio sacco mentale – anche se le granaglie provengono da antiche e sparse comunità agricole, passate poi sotto le macine  del tempo. Si tratta di sintetiche quanto ellittiche suggestioni di quel che penso a proposito del nostro posto nel mondo. Scritte in concomitanza col mio terzo compleanno vegetariano. Dedicate dunque alla cura e alla pietas che si devono agli enti, ai viventi, agli animali –  e forse un po’ anche a noi stessi. Non sentimentalismo, non pietismo. Cura e pietà semmai, cioè modalità della ragione. Quel “davvero” del titolo è solo un rafforzativo, un esornativo o uno stratagemma retorico – da intendersi a piacere. Mentre il numero 19 è del tutto casuale).

***

1. Il nostro essere nel mondo è innanzitutto un essere inclusivo. Noi abitiamo il mondo, ne siamo parte integrante, innestati, fusi e confusi in esso.

2. Ma la mente ha la tendenza a considerare l’essere nel mondo in modo esclusivo: gli umani si sono sentiti, immaginati e rappresentati, via via, come i padroni del mondo, la punta di diamante del mondo, addirittura fine e scopo del mondo – fino al delirio di onnipotenza di credersene creatori e ideatori. Il tutto sarebbe apparecchiato per noi. Il mondo come cosa nostra e nostra rappresentazione.

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La storia al cinema: stoici o epicurei?

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Ho visto con molto interesse Baarìa di Giuseppe Tornatore e Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino. Due film che appaiono diversissimi, sia per lo stile dei loro autori che per le intenzioni estetiche o per i contenuti. E allora perché mai accostarli, a parte la circostanza della loro quasi contemporanea uscita nelle sale italiane? In realtà mi pare interessante comparare proprio il modo con cui i due autori affrontano il medesimo soggetto, quello cioè della storia e della memoria.
Ho seguito Baarìa in preda ad incantamento (da siciliano che ci si è “ritrovato”, ma che non per questo si è sempre piaciuto), una sorta di malìa rotta solo dalla discussione razionale e dal ripensamento, sia sulla forma estetica che ha reso possibile quell’incanto, sia sui contenuti (in buona parte vi ha contribuito un bell’articolo comparso su Nazione Indiana, molto critico in verità, con il dibattito che ne è seguito). Devo però dire che la rottura definitiva di quell’incanto si è consumata tramite la “controvisione” del film di Tarantino. Mi spiego.

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Le milizie (poco celesti) di San Michele

San Michele vince il diavolo - Gonzalo Perez XV secSancte Michael Archangele,
defende nos in proelio; contra nequitiam et insidias diaboli esto praesidium.
Imperet illi Deus, supplices deprecamur: tuque,
Princeps militiae caelestis,
Satanam aliosque spiritus malignos,
qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo,
divina virtute in infernum detrude.
Amen.

“Credi in Dio e fottitene dei santi” – o qualcosa del genere – era un modo di dire che un mio spiritoso prozio siculo soleva ripetere. In verità, spesso i santi balzano in primo piano, scalzando il loro diretto superiore, soprattutto grazie alla valenza immaginifica e alla loro potenza simbolica. E’ il caso del santo del giorno – oggi 29 settembre – e cioè Michele Arcangelo, con la sua spada dardeggiante.
L’interessante pamphlet di Saverio Ferrari, edito da BFS, e intitolato Le nuove camicie brune, fa riferimento in uno dei suoi capitoli più raccapriccianti proprio a San Michele, simbolo della famigerata Guardia di ferro a lui dedicata e fondata nel 1927 in Romania da un tal Codreanu. Era questi un fervente cattolico nazionalista che intendeva usare la spada del santo a capo delle celesti milizie per “purificare” la sua nazione corrotta, estirpare ebrei, borghesi e comunisti, e restituire così “la Romania ai rumeni”. Per alcuni anni tali legioni imperversarono organizzando persecuzioni, attentati, omicidi politici (anche tra i governanti, che pure se ne servivano) – fino al terrificante pogrom di Bucarest, nel gennaio del 1941, quando centinaia di ebrei vennero riuniti nel macello comunale, sgozzati, scorticati vivi, decapitati ed appesi ai ganci.

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Specchio delle mie brame

Ragazza davanti allo specchio Picasso

Se è corretto ridurre la sfera umana alla sua essenza istintiva e primordiale – la cupiditas, il Desiderio, l’affermazione vitale che è insieme conservazione e aumento del proprio essere; ammesso (e non del tutto concesso) che sia un’operazione legittima, sorge inevitabilmente un problema etico e politico ogni qual volta tale nucleo della natura umana – che si ritiene, a torto o a ragione, indomabile – viene, per qualche motivo, posto sotto controllo. Cioè: viene fatto “ragionare” – in genere per essere ridimensionato e composto con le altre sfere vitali.
(Metto per ora tra parentesi la questione, non certo secondaria, della storicità dei bisogni e desideri: quel che desideriamo oggi o qui in Occidente è differente dai desideri del Seicento o di quel che resta del popolo indios Nambikwara).
Torno al nocciolo: finché cozzano le cupiditates di Tizio o di Caio – di singoli individui – poco importa (se non a Tizio e a Caio). Si tratterebbe tutto sommato di conflitti limitati e più o meno “naturali” (con le virgolette del caso). Il bellum omnium diventa devastante non quando gli individui sono sciolti, ma al contrario, quando sono associati. Dalla tribù all’impero, dal partito all’associazione mafiosa, dall’ultimo staterello alla potente nazione confederale, il problema è quello della cupiditas organizzata. In stato, in classe, in etnia o razza dominante, in genere, e così via. Di nuovo, poco importa la specificità di tali forme (se non agli stati, classi, etnie eventualmente soccombenti).

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