Antropocene 6 – Il linguaggio (e ciò di cui non si può parlare)

Linguaggio-della-mente

Ciò su cui rifletteremo stasera sarà la funzione del linguaggio nel contesto antropologico (o meglio antropogenetico) che abbiamo fin qui discusso: come agisce il linguaggio nella costruzione di quella seconda natura che l’uomo edifica sulle proprie basi biologiche, per “liberarsene”, o per allentarne le catene?
Le domande essenziali che potremo farci riguardano quindi la natura del linguaggio – o meglio: della facoltà di linguaggio, ovvero di quello strumento universale che caratterizza la specie homo sapiens per lo meno fin dalla rivoluzione cognitiva (e che probabilmente l’ha resa possibile), ma le cui origini appaiono ancora avvolte dal mistero:
-perché compare il linguaggio?
-che cos’è il linguaggio?
-ha a che fare con la biologia o con la cultura? è per natura o è per convenzione?
-in che cosa si differenzia dai linguaggi e dalle forme di comunicazione delle altre specie animali?
-che rapporto c’è tra linguaggio e pensiero?
-qual è l’influsso del linguaggio sugli individui e come gli individui si rapportano al linguaggio?
-è il linguaggio una tecnica?
-possiamo vivere senza linguaggio?

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Antropocene 4 – La torta e la glassa

Sarà questa la metafora che ci guiderà in questa nuova tappa del nostro viaggio nella coscienza umana, una metafora coniata dall’antropologo-filosofo Clifford Geertz, per criticare gli assertori anti-relativisti di teorie forti della Natura umana o della Mente – ovvero di essenze permanenti ed immutabili volte a definire Homo sapiens una volta per tutte. La torta è la biologia, mentre la glassa è la cultura; la biologia è la sostanza, la cultura solo una vernice superficiale: ciò vuol dire che per quanto ci eleviamo ai cieli della metafisica, non potremo mai liberarci dal “guinzaglio genetico” che ci stringe il collo.

La prima parte del nostro incontro sarà dedicata a mettere in dubbio il senso di questa metafora, perché la sociobiologia, la psicologia evolutiva (e anche il biologismo dello zoologo Desmond Morris, che negli anni ’60 ha scritto il celebre saggio divulgativo La scimmia nuda) non convincono per nulla: non c’è dubbio che è dalla natura e dalla biologia che veniamo, al pari degli altri animali, ma sono proprio alcune delle sue caratteristiche biologiche (specie-specifiche) ad aver consentito ad homo sapiens di compiere dei salti evolutivi, e di imprimere alla sua storia un’accelerazione assente in altre specie. Con questo non stiamo dicendo che l’essere umano sia extra-naturale, ma che occorre definire meglio il concetto di natura e in quale misura essa si va innestando (e modificando) nel corso dell’evoluzione culturale.

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Rousseau è su Facebook! (e ci guarda)

Panopticon

Byung-Chul Han legge l’attuale società globale come pervasa dal mito della trasparenza.
Si attribuisce a questo termine, in genere, una caratteristica di positività: un potere trasparente, rapporti trasparenti tra le persone, maggiore trasparenza nell’agire pubblico dovrebbero in teoria giovare al buon funzionamento della società.
Salvo che, a ben vedere, La società della trasparenza (questo il titolo del suo recente saggio edito in Italia da nottetempo), proprio in quanto affetta da un eccesso di positività (tutto in evidenza, nulla in ombra, via ogni negativo) si trasforma in un dispositivo sociale quantomai oppressivo.
Han, com’è nel suo stile, abbozza molti argomenti senza approfondirli, esponendoceli in una serie di brevi capitoli per tesi e suggestioni. Sullo sfondo i concetti già esposti nel breve saggio La società della stanchezza (società della prestazione, iperpositività, autosfruttamento, ecc.).
Riprenderò qui alcuni riferimenti che potremmo definire “inquietanti” a proposito del concetto di trasparenza inteso come “far luce”, “illuminare”, “svelare”, significati tipici (se non archetipici) del pensiero filosofico da Platone in poi.
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La torta e la glassa. Note sulla natura umana

La cultura è una glassa, la biologia una torta
(C. Geertz)

Poiché negli ultimi tempi si sono generate lunghe discussioni – talvolta confuse per l’inevitabile sovrapporsi  ed accavallarsi dei temi – vorrei provare a fare il punto su quello che si sta manifestando come uno dei filoni più consistenti e persistenti del blog, e che lo ha caratterizzato fin dalla sua apertura: la questione della natura umana e del rapporto umano-naturale, con le loro inevitabili ricadute etico-politiche. Non vuole (né può) essere una sintesi esaustiva, né tantomeno la (mia) parola definitiva sull’argomento – anche perché nel quindicennio in cui me ne sono occupato c’è stato un divenire (non saprei dire se uno sviluppo o un “inviluppo”), ma certo un mutamento, delle mie opinioni in merito.
Sento l’esigenza però, onde evitare continui fraintendimenti (che pure ci saranno ugualmente), di chiarire per sommi capi il mio pensiero in proposito. E, insieme, di fornire alcune coordinate di base ai sopraggiungenti, o a coloro che vorranno partecipare alla discussione in un prossimo futuro.

1. Che siamo

L’inaggirabile orizzonte ontologico di ogni discussione resta la constatazione insieme logica ed empirica del nostro essere – o, per  meglio dire, del nostro essere in uno con l’essere. Siamo, e nel dirlo c’è l’autoevidenza assiomatica e non contraddicibile di quella particella verbale. Dico “siamo”, non “sono” non a caso: intendo così prendere le distanze da quella tradizione filosofica che trova la sua massima espressione nel cogito cartesiano, che tende insieme a  soggettivizzare la dimensione ontologica e ad espellerne l’elemento sociale, naturale, storico e biologico. Una prima presa di distanza dal riduzionismo, filosofico e scientifico che sia.

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L’UNO E I MOLTI

barakobama

Non sono così cinico e ostinatamente bastian contrario da pensare che… Non sono però nemmeno così ingenuo ed esposto alle retoriche del potere da farmi illudere che…

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Quella di moltitudine è una categoria politico-filosofica intorno a cui molti pensatori della “sinistra filosofica” si sono appassionati. Toni Negri e Paolo Virno, solo per citare due noti pensatori politici italiani, l’hanno abbondantemente utilizzata. Il concetto di moltitudine è rinvenibile, nella sua opposizione originaria a quello di popolo, alle origini della costituzione politica della modernità occidentale: è Hobbes ad utilizzarlo in negativo, quando sostiene che senza l’unificazione ottenuta attraverso le invenzioni giuridico-politiche dello Stato, della sovranità e del popolo (l’uno non può esistere senza gli altri) si avrebbe il caos anarchico della moltitudine. Spinoza vede al contrario nella moltitudine una modalità di espressione della libertà umana. Virno ritiene che alla radice della differenza tra popolo e moltitudine vi è il loro rapporto con l’universale: il popolo tende all’uno, volto com’è alla realizzazione di un universale (un ghénos) che è dunque una promessa, laddove la moltitudine ha l’universale alle spalle, che dunque ne costituisce la pre-messa. Negri e Hardt in Impero scrivono:

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