Filosofie della storia – 1. Il tempo umano: storia, memoria, oblio

[traccia dell’incontro del gruppo di discussione filosofica del 14.11.2022]

1. Quella che si vuol condurre in questo ciclo di incontri è un’indagine sulla storicità, ovvero il tentativo di andare a vedere quali sono i fondamenti della propensione umana a fare storia, a muoversi su linee del tempo, trasformando se stessi, gli ambienti naturali, le organizzazioni sociali.
La storicità è un portato “ontologico”, “naturale” dell’essere umano? Una sua facoltà costitutiva ed originaria, così come il suo essere politico per Aristotele? Oppure esistono culture senza storia, civiltà che della storia hanno fatto il loro fulcro e civiltà immobili, società fredde e società calde, per usare la distinzione dell’antropologo Lévi-Strauss?
Ovviamente non potremo non chiederci che cos’è la storia, anche se è alle sue spalle (o alle sue radici) che proveremo a muoverci, con la consapevolezza che proprio lo storicizzare, il concepire cioè ogni manifestazione umana e naturale come “storica”, sia parte essenziale della nostra mentalità (nella fattispecie della civiltà occidentale, che ha inevitabilmente condizionato gran parte delle culture e civiltà moderne): dunque ci chiederemo da storicizzati che cos’è che storicizza e rende storico il modo di guardare al mondo, un’operazione ai limiti dell’equilibrismo.
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Noioso miliardo

Ben prima della cosiddetta “esplosione del Cambriano”, circa 500 milioni di anni fa, ci fu un vero e proprio eone – il Proterozoico – in cui si affinarono le tecniche vitali ed evoluzionistiche che hanno consentito tutto il resto, ovvero: nascita delle cellule eucariote (quelle col nucleo), organismi pluricellulari, fagocitosi (il prototipo dell’eterotrofia: un vivente, in questo caso la cellula, che ne ingoia un altro), morte cellulare programmata e riproduzione sessuale. Queste sono le principali, ma ce ne furono altre non meno importanti; la cosa che colpisce di più è che tutto questo avvenne in circa 2 miliardi di anni, un periodo del tutto al di fuori della nostra portata temporale. Addirittura i paleontologi si riferiscono al periodo che va da 1,8 a 0,8 miliardi di anni fa, come al “noioso miliardo”.
L’altro aspetto incredibile – e ciò riguarda in particolare il “grande evento ossidativo” generato dai cianobatteri e simili, ovvero la liberazione di ossigeno che avvelenò una parte dei viventi e ne favorì altri – è il pazzesco ed imprevedibile incastro chimico-geologico con tutti i fenomeni vitali: un processo (in gran parte contingente e non programmato) fatto di dissesti, tentativi ed errori, avanzate ed arretramenti e sistematiche estinzioni di gran parte delle specie – un processo così in bilico e complesso (di cui ancora mancano parecchi dettagli) da perderci la testa. Sapere che noi siamo l’esito improbabile di tutto questo lavorìo geochemiobiologico dà le vertigini.
(Il libro di Baggott Origini è a tal proposito una piccola miniera, uno studio molto ben concepito, documentato e articolato).

Disperazione o venerazione

Il fisico e matematico Brian Greene compie in questo bel libro il tentativo di abbracciare in un unico sguardo la storia dell’universo, le sue origini misteriose, il suo esito pressoché sicuro – ovvero “una nebbia di particelle alla deriva in un cosmo freddo e inerte”. Un cosmo simile a quello “gelido” dei presocratici, così come lo aveva letto Nietzsche.
Nel mezzo quel “fuggevole spiraglio di luce tra due eternità di tenebre” che sarebbe la vita, in particolare la vita cosciente. La cui unica ragione di esistenza è riducibile all’eco della sua domanda.
Ma proprio la coscienza di questa transitorietà ci può indurre due atteggiamenti opposti: la depressione e il cupo terrore per l’insignificanza oppure quel che Greene definisce una sensazione di gratitudine che “può aumentare fino a sfiorare la venerazione”.
Disperarsi per esser nati o adorare la vita: la coscienza – ai vertici del suo essere coscienza – si strugge in questo dilemma. Certo, può anche dimenticarsene e limitarsi a vivere giorno dopo giorno. O stordirsi con uno dei tanti oppii a sua disposizione (dal dio della religione a quello del denaro, ce n’è per tutti i gusti, l’immaginazione non ha limiti).
Ma la coscienza, ogni tanto, si risveglia, e punge. Qualche volta ci dà una stilettata.
Guarda: tu, il cosmo immenso e indifferente.

“Innumerevoli forme e meravigliose”

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La vita ha qualcosa di inafferrabile. Fa parte di quella categoria di concetti che, per l’eccessiva generalità o profondità, sfuggono alla possibilità di essere definiti – un po’ come succede coi concetti di essere o totalità o natura: tutti sappiamo che cosa si intende con quei termini, ma volendoli definire ci si avvolge in difficoltà… tipicamente filosofiche. «Benché sperimentiamo la vita quotidianamente – scrive il chimico e divulgatore scientifico Jim Baggott – e siamo in grado di riconoscerla facilmente quando la vediamo, in effetti non sappiamo davvero che cosa essa sia».
Nel caso del fenomeno della vita, è stata la scienza a prendere il sopravvento in epoca moderna (già era successo con il mondo fisico, lasciando alla filosofia le briciole dei concetti poco interessanti per la vita pratica degli umani). Per la biologia moderna la vita diventa un problema da risolvere, mentre per la filosofia rimane un enigma che non può essere sciolto. Noi qui ci occuperemo innanzitutto del problema, lasciando ai margini l’enigma (e il fascino del mistero), anche se vedremo come nel linguaggio scientifico finiscano poi per ricorrere termini e categorie di ordine filosofico.

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Progresso impersonale

Aldo Schiavone apre il suo ultimo saggio Progresso con quella che definisce giustamente un’icona del pensiero del Novecento, ovvero il testo con cui Walter Benjamin interpreta il dipinto di Klee Angelus Novus. Direi che è il caso di riportarlo per intero:

«C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».

Ho sempre trovato il passo di Benjamin infinitamente più bello del quadro di Klee – opera che il filosofo aveva acquistato a Monaco nel 1921, e per il quale nutriva una smisurata adorazione. Schiavone utilizza l’icona-simbolo di una filosofia antiprogressiva e pessimista della storia, per affermare non tanto l’ideologia delle magnifiche sorti e progressive irrise da Leopardi, quanto un fatto incontrovertibile: gli umani non sono mai stati così potenti, longevi, sicuri, dominanti sulla Terra come in questo momento della loro storia.
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La vita (dis)continua

Se c’è un’espressione che detesto è la vita continua.
Ti è successo questo, ti è successo quest’altro – ma la vita continua.
Ti è morto un genitore, un figlio/a, un amico/a, un compagno/a (valgono anche gli animali) – eppure la vita continua. Ci sarà sempre qualcuno che userà questa espressione trita, banale e stupidamente tautologica – volta forse a nascondere da una parte l’imbarazzo e l’incapacità di dire cose sensate di fronte ai lutti o alle tragedie, e dall’altra il sospetto che sempre alligna nella mente di chi la dice che quella vita che si vuole così continua e lineare sia in realtà un abisso di orrori.
Una vita come tanteA Little Life nell’edizione americana originale – romanzo della scrittrice di origini hawaiane Hanya Yanagihara, sembra quasi voler rispondere, e ci mette oltre mille pagine per farlo, alla banalità di quell’espressione – perché la vita non continua.
A dispetto della sua mole fluviale, potremmo ridurre l’intreccio narrativo a due semplici e però essenziali domande: la prima – che cos’è il male? – è inscritta nel destino toccato in sorte a Jude, l’infelice protagonista (ma chi è felice?), ovvero il male come indebolimento dell’altro, diminuzione sistematica della sua potenza vitale – quasi a dimostrare che nella vita di ogni umano c’è sempre un genio maligno che ha la funzione di inoculargli sottopelle un siero, con la precisa funzione anti-spinoziana di indurgli passioni tristi e inibirgli passioni liete. Progettare l’infelicità dell’altro – come ebbe a suggerire il filosofo amico dei lupi Mark Rowlands.
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La soglia

Allüberal und ewig
blauen licht die Fernen!
Ewig… ewig…

[Ho scritto buona parte di queste note – note finali su un plotiniano inconsapevole asceso alle azzurre trasparenze mahleriane – domenica 28 maggio, durante il viaggio in treno – l’ultimo viaggio – che mi portava al feretro di mio padre nella sua e nella mia terra. Ma i pensieri che in quelle dolenti ore mi sovvenivano alla mente erano più in generale il frutto di anni di rielaborazione del rapporto con lui e, soprattutto, della sua (e della mia) crescente consapevolezza del declino dell’esistenza, dell’apoptosi di ogni essere e della sua ineluttabilità]

L’ultima immagine che voglio ricordare di mio padre – che rappresenta quest’ultimo tratto del suo viaggio sulla terra e che insieme mi addolora e mi fa tenerezza fino allo struggimento – è il vederlo andare sulle sue gambe incerte verso la sala operatoria (a questo punto, e a posteriori, il suo patibolo) dove gli avrebbero asportato la laringe, insieme alla voce (e a un pezzo d’anima). Era la mattina del 6 marzo di quest’anno. Le volte successive che l’ho visto – quasi sempre allettato, sofferente e implorante a gesti la morte, fin dal suo risveglio nella sala di rianimazione del Policlinico di Messina – le vorrei rimuovere dalla mia memoria. Tutte quante. E siccome mi è stata risparmiata l’agonia degli ultimi giorni (e ringrazio gli dèi che sia stata breve) – per me lui è ancora lì, incerto e malfermo sulla soglia, che dirige smarrito lo sguardo verso di me, che accanto a mia madre cerco di rassicurarlo, e poi va dritto verso il suo destino.

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Al macero

LazzariniBuyMiaMadre

Gran bella serata quella di ieri al Cineforum Pensotti Bruni di Legnano (che sta celebrando il suo 60° anno di attività). Proiettavano Mia madre di Nanni Moretti, e al termine, a sorpresa, si è presentata, sovrapponendosi allo schermo, Giulia Lazzarini (l’attrice interprete della madre morente, ispirata a quella reale della vita del regista), una splendida e lucida ottantenne che ha chiacchierato amabilmente col pubblico.
Ho rivisto quel film per la seconda volta, e credo si confermi uno dei più belli e intensi degli ultimi anni. Ma anche dei più angosciosi. La scena delle librerie vuote e delle scatole di libri pronti per essere mandati chissà dove (forse al macero?) è devastante.
Guardo le mie librerie, il mio scrittoio, la mia vita – e mi faccio molte domande.
Non passa giorno che non mi prefiguri la morte dei miei genitori (è nell’ordine e nella natura delle cose), e che non mi dica che non sono pronto ad affrontarla.
“Domani” è l’ultima parola che pronuncia la madre – quasi a voler aprire al futuro, nonostante la morte incombente.
Ma a chiudere ci sono gli occhi agghiacciati della figlia.

Quarto fuoco: dadi e dande

«La natura può essere davvero “crudele” e “indifferente”, in quanto non esiste a nostro beneficio, non sapeva che saremmo venuti e non le importa assolutamente nulla di noi» (Gould)

«Già ora abitiamo su un magnifico sasso vagante alla periferia della Via Lattea, schiacciati fra il gelido vuoto dello spazio esterno sopra di noi e colossali mantelli di magma incandescente sotto di noi, lì a metà, in bilico sopra zattere continentali in movimento e sotto una sottile striscia di atmosfera. In questa pellicola di gas instabili il 99% delle specie esistite nella storia naturale si sono già estinte e fanno parte dei cataloghi museali di un passato che non tornerà mai più» (Pievani)

Frasi come queste – la prima di un illustre biologo e paleontologo statunitense, la seconda di un filosofo della scienza italiano – parrebbero togliere ogni dubbio sulla nostra radicale contingenza, sul fatto cioè che siamo al mondo per caso (anche se non a caso), per una serie cioè di fortunate circostanze, e che nessuno o niente ci aveva previsto, programmato, pianificato. Le teorie finalistiche della creazione o del disegno intelligente non reggerebbero insomma alla prova dei fatti della storia della vita, e più che sorretti dalle dande della necessità noi saremmo stati gettati nell’esistenza attraverso un tiro di dadi.

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