La soglia

(traccia dell’incontro del gruppo di discussione filosofica dell’11 aprile 2022)

Nel rapporto dialettico vita/morte, di cui a lungo abbiamo provato a parlare in questo ciclo di discussioni, un elemento caratteristico è quello della soglia. Della linea di confine tra l’una e l’altra. Una linea che non ci è dato valicare in modo cosciente – a sentire Epicuro, se la si valica non c’è più esperienza né coscienza. È vero che esistono le esperienze di coloro che si risvegliano dal coma o che si avvicinano alla soglia della morte – ma la soglia resta intatta, non valicabile. È proprio della soglia questa sua inesperibilità. Ogni volta che noi superiamo una soglia, o viene negata o si sposta più in là. La soglia è inattingibile – così come ogni limite o confine. E la soglia della morte è la soglia delle soglie.
D’altro canto anche la soglia vista dalla parte dei morti risulta inattingibile, se non inimmaginabile. Dalla morte non c’è ritorno – a meno che non si creda in una vita oltre la morte – di nuovo, al di là di una soglia. Ma è comunque un’altra vita, non la vita corrente – e in questo caso la morte risulta una sorta di cerniera tra le due forme di vita.
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L’intruso

(traccia dell’incontro del gruppo di discussione filosofica del 14 marzo 2022)

Mai come per l’argomento di questa sera – medicalizzazione della vita e rimozione della morte – è valido un approccio di tipo complessivo e dialettico: inquadrare la mutazione del fenomeno-morte nelle nostre società implica la necessità di guardarlo da lontano, e soprattutto in relazione con diversi piani, categorie, strutture. Ciò che è una modalità tipica dello sguardo filosofico: penetrare al di là della superficie, andare a vedere le molteplici cause, risalire alle radici, trovare le connessioni, individuare gli sviluppi e i loro intrecci. Ciò che qui possiamo solo provare a fare schizzando un quadro e offrendo degli spunti per ulteriori analisi e riflessioni.

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“La morte, stratagemma per ottenere molta vita”

XAM66129 Death and Life, c.1911 (oil on canvas) by Klimt, Gustav (1862-1918); 177.8×198.1 cm; Private Collection; Austrian, out of copyright

(traccia dell’incontro del Gruppo di discussione filosofica del 13 dicembre 2021)

Ci sono due modi fondamentali di considerare la morte: diciamo, per semplificare, uno oggettivo ed uno soggettivo. Il primo guarda la morte da lontano, come un fenomeno naturale, nel suo intreccio necessario con la vita e con il variare delle sue forme (ciò di cui ci siamo occupati la volta scorsa). È un guardare la morte come se non ci riguardasse: è una finzione consentita proprio dalla nostra facoltà cognitiva, dalla capacità di astrarre. Anche dal modo di funzionare della coscienza, dalla sua capacità di duplicazione – di scindere se stessa dal mondo, io dal non-io. In verità è un atteggiamento tipico della filosofia, ereditato poi dalla scienza nell’epoca moderna. Vedremo stasera come la filosofia degli inizi, in particolare quella dei presocratici, si occupò della morte in questi termini, come un elemento dialettico del divenire e dei processi naturali.
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Filosofia della leggerezza

magritte

Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini,
avrà spostato tutte le pietre di confine;
esse tutte voleranno in aria per lui,
ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola
– “la leggera”.
(F. Nietzsche)

PRIMA PARTE – IL PENSIERO DELLA LEGGEREZZA

«Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite».

Italo Calvino scrive queste parole durante l’estate del 1985, poco prima di morire – parole che si possono ritenere un lascito, un vero e proprio testamento culturale.
Si trovano nella prima delle sei Lezioni americane, quella dedicata alla “Leggerezza”, e ritengo possano ispirare il discorso che vorrei articolare a proposito del passaggio (o se si preferisce della dialettica) tra gravità e leggerezza. Calvino sembra qui alludere ad una visione millenarista, uno snodo epocale, augurandosi che la ruggine materiale e spirituale del Novecento venga abbandonata al suo destino, e auspicando un salto nella dimensione di una categoria – la leggerezza – che va meglio chiarita.

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Interdetto sulla morte

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Ho appena riletto La morte di Ivan Il’ di Tolstoj, dopo aver scoperto un piccolo scritto di Sciascia intitolato “La medicalizzazione della vita”, contenuto nella raccolta Cruciverba, edita da Einaudi nel 1983.
Sciascia ne parla a proposito della propria esperienza vissuta di un passaggio cruciale del Novecento, che ha avuto ritmi diversi a seconda dei luoghi e dei contesti culturali, ovvero “il ricordo del passaggio da un’idea della morte all’interdetto sulla morte” – e paragona questo passaggio a quello dal lume a petrolio alla luce elettrica, quando aveva provato un vero e proprio senso di inondazione.
La medicalisation de l’idée de la vie è evocata dal medievista francese Philippe Ariès, e Sciascia la vede realizzarsi in Sicilia tra gli anni ‘30 e ‘40 – così come ne vede i primi chiari segni proprio nel racconto di Tolstoj (la stesura definitiva è del 1886). Sono due gli elementi essenziali su cui vorrei qui riflettere: in primo luogo questa nuova figura dell’interdetto sulla morte che nel racconto si presenta fin nelle prime pagine, con il sentimento di fastidio provato dai sopravvissuti (in primis dalla moglie del protagonista) nei confronti di quella morte che aveva osato incrinare l’ordine e il decoro borghese; e in secondo luogo sulla sovrapposizione delle figure del giudice e del medico.
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La leggiadria del disfacimento

La cosmologia di origini atomistiche ed epicuree messa in campo da Lucrezio, vede senz’altro nella dialettica tra pesantezza e leggerezza – in linguaggio presocratico, tra condensazione e rarefazione – uno dei suoi elementi ricorrenti.
Innanzitutto la natura ha necessità di avere uno spazio infinito e indeterminato, proprio per esercitare quella dialettica: se ci fossero confini, la materia, a causa del suo peso, confluirebbe e si accumulerebbe nel fondo, e “nessuna cosa potrebbe generarsi sotto la volta del cielo”. È la profondità del vuoto che permette alle cose di esistere, librarsi, percorrere il proprio ciclo vitale: “s’apre dovunque immenso spazio alle cose / nell’inesistenza di limiti in ogni direzione d’attorno” (I, 1006-7). È come se fossero proprio il vuoto e l’invisibilità a favorire l’esplodere e l’espandersi delle forme – come se l’universo avesse in ciò il proprio respiro.

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Spettri digitali

[avevo cominciato a scrivere questo post, a metà tra la recensione e la riflessione, un anno fa, subito dopo aver letto il bel libro di Davide Sisto, filosofo e “tanatologo”, come lui stesso ama definirsi; lo riprendo e concludo in questi giorni, mentre mi dedico ad una meditazione sulla morte, nonostante il divieto spinozista, in vista del prossimo incontro del gruppo di discussione filosofico – al centro del quale ci sarà Il libro contro la morte di Elias Canetti]

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Lo psichiatra Eugène Minkowski sostiene che la morte è il suggello della vita, ciò che dà senso alla biografia, altrimenti sfilacciata e insensata  (Pasolini parlava della morte come  di un “fulmineo montaggio”): è a partire da questa angolazione apparentemente paradossale – oltre che dalla considerazione di una epocale rimozione della morte – che Davide Sisto avvia la sua interessante analisi sulla nuova configurazione del rapporto morte/vita (morti/sopravviventi dolenti) nell’epoca dei social, di Facebook e di Instagram.
Facebook, in particolare, col suo dilagare dalla vita on line a quella off line (e viceversa), sembra quasi orientare questo elemento ri-costruttivo della morte: proprio perché si è degli spettri digitali lo scopo è una narrazione il cui senso sia dato dalla morte a venire, dal compimento. Ma, vien da aggiungere, la stessa vita viene ri-orientata e riplasmata da questo perenne montaggio virtuale.
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Meritare la propria nascita

«Vivere almeno quanto basta per conoscere tutti i costumi e le vicende degli uomini; recuperare tutta la vita trascorsa, perché quella ulteriore è vietata; raccogliere se stessi prima di dissolversi; meritare la propria nascita; riflettere sui sacrifici che ogni respiro costa agli altri; non glorificare il dolore, sebbene si viva di esso; tenere per sé soltanto ciò che non si può trasmettere, finché non sia maturo per gli altri e non si trasmetta da sé; odiare la morte di chiunque come la propria, far pace una buona volta con tutto, mai con la morte».

Questo brano da La provincia di un uomo di Elias Canetti, riportato anche nella recente raccolta Il libro contro la morte (lo si trova a pagina 30, negli scritti risalenti al 1943), è uno straordinario manifesto etico-politico (più etico che politico) vitalista ed antimortifero, scritto in piena epoca mortifera, che credo valga più oggi di ieri. Non si limita a “vietare il nichilismo” e a combattere la morte e il dolore, ma dice anche in maniera essenziale che cosa occorre fare della propria vita: innanzitutto meritarsela; poi correlarla agli altri (a tutti gli altri), o meglio: ricordarsi di una correlazione data ab origine, ontologicamente costituita; farne fruttare ogni respiro – visto il costo immane che ha, anche in termini di altre vite (ma l’eterotrofia non è una scelta); eliminare ogni ansia di accumulo, sia essa materiale che spirituale; fare di se stessi un ente kairetico, unico, speciale – in antitesi alla morte omologante; per non parlare di quel raccogliere se stessi prima di dissolversi – laddove oggi c’è chi vive dissolto e chi muore per dissolvere le altrui vite… c’è da meditare per giorni e giorni, per epoche, solo su queste poche parole.

Benedetto Haruf

(questa è l’ultima foto che ho fatto con mio padre, lo scorso febbraio, tre mesi prima che ci lasciasse; è stata una benedizione vederlo sorridere ancora, anche se sarebbe stata una delle ultime volte; leggendo questo romanzo di Kent Haruf, inevitabilmente fin dalle prime righe ho pensato a lui; l’autore, qui, parla anche di lui, di me, di noi, e di mia madre e dei quasi sessant’anni accanto all’uomo della sua vita; parla a me, alla mia anima affranta e a tutte le anime: anche per questo, siano benedette per sempre le sue parole)

Una benedizione è questa Trilogia della pianura che ci è stata donata in sorte – con quest’ultimo romanzo in particolare, che tratta fondamentalmente del tema della morte, e che è stato pubblicato da Kent Haruf poco prima della sua, di morte.
Per chi non lo avesse mai letto, c’è solo da premettere che nelle sue storie non succede nulla di eclatante, tutto si svolge in maniera piana, semplice, quasi sussurrata, intima, con l’asciuttezza tipica di un McCarthy, in quella scena-mondo che è Holt, il paese immaginario (ma specchio di luoghi in cui l’autore ha vissuto) che sta dalle parti di Denver, in Colorado. Dicevo: non succede nulla, per dire che invece succede tutto.
Lo schema narrativo si ripete identico in tutti i romanzi di Haruf: due, tre storie che si intrecciano o alternano, e che ci narrano vite semplici – o meglio, apparentemente semplici – in un contesto sociale e antropologico che è l’eterna provincia americana, l’America profonda e rurale, e in un contesto naturale che ci dovrebbe ricordare quanto può essere dura la terra, e quanto ostili gli elementi.
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