Quinta parola: libertà

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[Sommario: Libertà e filosofia – L’uomo-misura di Protagora – Socrate eroe classico della libertà – Diogene hippy e cosmopolita – Il giardino di Epicuro – La catena degli stoici – Il libero arbitrio di Agostino – L’uomo proteiforme di Pico della Mirandola – Necessità e libertà in Spinoza – Stato e individuo: il liberalismo – Libertà, natura e spirito – L’oltreuomo nietzscheano – Sartre e l’esistenzialismo: libertà come possibilità – Libertà moltitudinaria – Responsabilità, alterità e libertà]

Il concetto di libertà è piuttosto sfuggente e, soprattutto, cangiante: epoche e culture diverse intendono questo termine in maniere inevitabilmente diverse. Ma senza voler entrare nella molteplicità dei significati e delle sfumature, evocare la libertà nel campo filosofico significa evocare nello stesso tempo una delle condizioni essenziali del pensiero: di libertà i filosofi hanno bisogno come l’aria, senza libertà di pensiero non ci può essere filosofia.
Ma di che cosa realmente parliamo quando parliamo di libertà? Da che cosa (o di che cosa) siamo (o dobbiamo) essere liberi? E poi: possiamo davvero esserlo, o si tratta di una pura illusione?
Ci faremo queste domande scorrendo velocemente il pensiero di alcuni filosofi o correnti filosofiche, dalla grecità all’epoca contemporanea.

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JJR 4 – Sulla volontà generale

Meglio avrei fatto a non spingermi
tanto in là con lo sguardo.

Il problema della volontà generale in Rousseau deriva dal fatto che non ce ne viene fornita una definizione precisa. Nel Contratto sociale se ne parla a più riprese, come se però fosse una categoria di per sé chiara, autoevidente. Né il suo autore si preoccupa di analizzare i concetti che la vanno a comporre: anche in questo caso Rousseau deve aver pensato che i due termini presi singolarmente non avessero alcun bisogno di essere discussi.
Non possiamo quindi far altro che ricavarne obliquamente e allusivamente – o per differenza – il significato. Certo, il contesto risulta ben chiaro: il bene comune in contrapposizione ai singoli interessi privati, il generale contro il particolare, il sociale prima e più dell’individuale.
Ma è il termine “volontà” ad inquietare, dato che potrebbe apparire una sorta di metabasi in altro genere, il trasferimento cioè di un concetto in un ambito differente da quello per cui è stato coniato.
(Per quanto Schopenhauer andrà ben oltre, metafisicizzando la volontà in una sorta di forza primordiale che agita la materia e superagisce le individualità).
Qual è dunque il soggetto che vuole, nell’ambito della sovranità politica? E come può questo soggetto determinare ciò che vuole in modo definito? Ma soprattutto: che cosa ci garantisce che voglia il bene universale?
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Spinoziana lectio

E’ la seconda volta che ho il piacere di ascoltare una conferenza di Carlo Sini su Spinoza. L’occasione era ghiotta, dato che Spinoza è in questo periodo al centro dei miei interessi e il relatore ne conosce molto bene i testi e il pensiero. E’ successo qualche sera fa a Canegrate, un piccolo paese della provincia milanese, dove da anni un’eroica insegnante di filosofia del liceo (ora in pensione) organizza incontri filosofici a carattere divulgativo. La lectio aveva dunque un carattere non specialistico, si rivolgeva a tutti, anche ai non esperti di cose filosofiche. Ritengo che proprio dalla capacità orizzontale di comunicare la filosofia si possa misurare la bravura di un filosofo o di un docente. Tanto più che, nel caso in questione, si trattava di rendere in un’ora l’attualità di un classico come Spinoza, con particolare riferimento all’etica.
Direi che il buon Sini c’è riuscito molto bene, senza per questo sminuire o annacquare troppo la potenza di quel pensiero.
Tra le varie questioni sollevate, ne vorrei ricordare in particolare una, da Sini segnalata come cruciale per la piena comprensione del pensiero del filosofo olandese: quella che potremmo definire come la disarticolazione interna al soggetto delle categorie di libertà, volontà e necessità. Disarticolazione che è innanzitutto una chiarificazione.

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Lezione spinozista 3 – Il concetto di “conatus”

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C’era un mio compagno di università che un giorno, al bar della Statale, se ne era uscito con questa faccenda del conatus. Era un tipo che mostrava sempre di saperla lunga e di aver letto tutto. Lo arrovellava in particolare il concetto spinoziano di conatus, e diceva che aveva a che fare con il potere e le sue determinazioni. Sembrava dovesse passare i successivi dieci anni della sua vita – e forse aveva passato i dieci precedenti – a meditare sul conatus… Il conatus suonava sulle sue labbra umide e voluttuose e dentro i suoi occhi ammiccanti come la chiave per accedere ad ogni segreto…

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La parte terza dell’Etica – intitolata Origine e natura degli affetti (De origine et natura affectuum) – si apre con una delle vigorose e categoriche obiezioni tipiche di Spinoza ai “si dice” e ai “per lo più” della doxa (o della filosofia poco dotta):

“La maggior parte di coloro che hanno scritto sugli affetti e sul modo di vivere degli uomini, sembra che trattino non di cose naturali, che seguono le comuni leggi della natura, ma di cose che sono al di fuori della natura. Sembra anzi che concepiscano l’uomo nella natura come un impero nell’impero”.

Spinoza lo ha già detto più volte e non perde occasione per ribadirlo: bisogna 1) sgombrare il campo da antropocentrismi e finalismi campati in aria e 2) considerare le cose umane, comprese le azioni e i desideri, alla stregua di cose naturali, “come se si trattasse di linee, superfici e di corpi”.

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