Felliniana

[approfittando di cinema chiusi e coprifuoco, ho deciso di organizzare un cineforum solitario – un ossimoro come il tempo che stiamo vivendo – e di vedermi tutta la produzione cinematografica di Fellini, in ordine più o meno  cronologico, dagli anni ’50 in poi; dopo ogni visione annotavo cose, e ne è venuto fuori un piccolo spaccato antropologico del paese, una sorta di coscienza critica per simboli ed immagini, che fa del regista riminese non solo uno dei cineasti più importanti e visionari del mondo, ma anche un antropologo, un intellettuale, un fustigatore  – e un sognatore – dell’Italia del Novecento]

La strada (1954) e Le notti di Cabiria (1957) entrambi con Giulietta Masina, si richiamano a vicenda.
La protagonista è l’ingenua, la pura, un po’ sauvage e idiota, la perdente costretta dalle circostanze a “fare la vita” – nel primo caso a fare la serva a un giramondo, nel secondo a prostituirsi.
Ma se La strada di Gelsomina è più una fiaba universale – già “felliniana” ante litteram, con tutto l’immaginario circense, da sarabanda, musicale e strabordante stranezze e grottesco, luci e ombre della festosità-vitalità – Le notti di Cabiria è invece totalmente calato nella Roma degli anni ‘50 – la Roma di via Veneto, dei Parioli e delle stelle del cinema da una parte (magnifica la parte di Amedeo Nazzari), e la Roma delle grotte, dei tuguri, delle periferie dall’altro (i dialoghi sono opera di Pasolini).
Maria-Cabiria ci si trova gettata nel mezzo, e si vive questa “strada” – che è molto meno poetica e fascinosa seppure violenta di quella di Zampanò – con la crescente consapevolezza che non è necessariamente un destino. Ma Cabiria è una pura, una folle, una sognatrice, e tende a cascarci (anche se con una punta di scetticismo popolare che le viene dalle sue radici e dall’ambiente sociale). Il film si apre e si chiude con la medesima illusione/disillusione: lei che si fa abbindolare dall’uomo subdolo e profittatore.
Ma la strada festosa che la accoglie alla fine – quella dei ragazzi che suonano, cantano, ballano e che sono innamorati – è, daccapo, l’eterna possibilità del riscatto: qui Cabiria cade e risorge ogni volta dal suo stesso dolore (all’inizio del film addirittura risorge miracolosamente dall’annegamento). La sua innocenza, il suo vitalismo diventano i suoi punti di forza: l’umiliata e offesa che si rialza, e lo fa da sé, orgogliosamente.
L’espressione di Giulietta Masina in entrambe le storie è superlativa: l’illuminarsi/adombrarsi del suo volto è un vertice estetico-cinematografico che non ha eguali.

Anche nello Sceicco bianco (1952) c’è la medesima storia di illusione/disillusione – qui è un Alberto Sordi straordinario a fare la parte del profittatore nei confronti della sposina in viaggio di nozze, normalizzata e controllata nei suoi desideri e comportamenti dal marito padronale (anche se più nelle intenzioni che nella realtà) – e che pensa di trovare nel grande artista il sogno romantico che la vita coniugale sembra volerle negare fin dall’inizio.

I vitelloni (1953) è a sua volta una storia di seduzione, di nuovo di illusioni e disillusioni, speranze tradite, autoinganni – anche se in un contesto di paese un po’ più tradizionale e scanzonato. Celeberrima la scena verso la fine di Sordi che si rivolge ai lavoratori…

Un discorso a sé va fatto per Il bidone (1955), un film atroce che potrebbe richiamare per certi aspetti la goliardia di Amici miei, e che gira invece attorno alla ferocia dell’inganno: la banda di città che va a turlupinare la povera gente delle campagne (di nuovo: ingenui, idioti, poveri di spirito, ecc.). Senonché Augusto – il truffatore travestito da monsignore – si spinge troppo oltre nel gioco, e la fine che fa è terrificante: credo che la scena del bidonatore “pentito” (che però voleva bidonare i suoi stessi soci), che viene colpito e abbandonato nel nulla a strisciare come un verme per raggiungere la strada, e che muore solo come un cane, sia una delle scene più terribili della storia del cinema.

La dolce vita (1960) è senz’altro un vertice del linguaggio estetico e cinematografico di Fellini: qui c’è proprio un salto sia concettuale sia dell’analisi sociale ed antropologica. Il film, strutturato ad episodi, consente un vero e proprio attraversamento della società dell’epoca direi nella sua interezza, a tutti i livelli (sia “di classe” che culturali, simbolici, di costume, esistenziali, etici, ecc.) – con una straordinaria figura, che è poi l’occhio o l’alter-ego di Fellini – interpretata magnificamente da Mastroianni. Notevolissime (proprio nel loro simbolismo un po’ ermetico) sia l’apertura che la chiusura del film: la statua del Cristo che svolazza su Roma e l’occhio della mostruosa creatura marina spiaggiata.
Marcello – a proposito dell’amore – dice che non può accettare la normalità del rapporto di coppia: vivere come un lombrico, in un ambiente vischioso, che lo soffoca. Senz’altro l’incomunicabilità, l’apparenza, l’ipocrisia, sono alcuni dei temi etici più presenti.
C’è poi la questione dell’espressione artistica: la scrittura (Marcello oscilla tra giornalismo d’assalto, remunerativo e il romanzo che non riesce a scrivere).
Notevolissima è la mescolanza sociale (che è però uno sfiorarsi senza mai capirsi): dalle prostitute all’aristocrazia (dove pure abbondano).
Ma c’è anche una scena agghiacciante, che lascia senza parole: l’intellettuale apparentemente felice, realizzato, che si uccide dopo avere massacrato i figli.
Il finale – Marcello separato dal braccio di mare dalla ragazzina (la purezza, l’innocenza) che non riesce a riconoscere – attesta lo smacco esistenziale.
La dolce vita è in realtà la più terribile ed insensata delle vite.

Che meraviglia (siamo nel 1963). È davvero un film universale, senza tempo. Noi siamo sempre i registi senza ispirazione di una vita confusa, che spesso va in frantumi, cui non sappiamo dare senso. Una interminabile parata di volti cui non riusciamo a voler bene. Compresi noi stessi. Ma poi, al colmo della disperazione, scatta qualcosa, all’improvviso. Una torsione inaspettata.
La scena finale del film, la discesa della processione di personaggi e il loro girotondo, con la musica indimenticabile di Rota, è il tentativo di ridare un senso alle cose. Un tocco al fuso della vita, con dita delicate. Un’opportunità, prima che le luci si spengano. E non è un caso che a chiudere la parata, prima del buio, sia il protagonista-bambino vestito di bianco.
Fellini è immenso.

Nel 1965, tolto l’episodio del ‘62 con De Filippo in Boccaccio ‘70, Fellini passa al colore, con Giulietta degli spiriti. E ne approfitta per costruire nuove avventure visive, in alcuni momenti barocche e strabordanti, persino eccessive. La vicenda è semplice, persino banale, una coppia borghese con un tradimento. A subirlo è Giulietta – un ritorno in grande della Masina – una donna dimessa, piuttosto noiosa, ripetitiva, che ha ristretto il proprio orizzonte vitale ed affettivo al marito, o meglio, al matrimonio. Ma il tradimento la mette finalmente in movimento, innanzitutto costringendola a fare i conti con gli spiriti del passato. Le si presenta anche l’opportunità di una reazione trasgressiva, sensuale ma per lo più vacua, rappresentata dal mondo della vicina, un’incredibile Sandra Milo (che nel film fa ben 3 parti): ed è qui, nella villa di Susy, che la fantasia felliniana si scatena, con trovate scenografiche e visive incantevoli – questa volta rese più scintillanti e cariche dal colore.
Giulietta attraversa ogni cosa con curiosità ma deve fare i conti con la sua educazione cattolica, e comunque nulla del mondo che la circonda la convince. Come già Cabiria, passa oltre – però in una scena di estrema solitudine, in mezzo alla pineta, sferzata dal vento, in una situazione irrisolta.

[a proposito del vento: in quasi tutti i film di Fellini c’è lo spirare del vento, lieve o forte che sia, fateci caso!]

I clowns è un film-documentario del 1970. È un piccolo gioiello, con un’apertura che trovo straordinaria: un bambino (che è poi il Fellini bambino) si affaccia alla finestra a causa di un rumore e vede il tendone del circo alzarsi e gonfiarsi. Dopo la visione dello spettacolo, il bambino confessa la sua inquietudine, dato che trova le figure del circo rispecchiate nelle figure grottesche (e perturbanti) che popolano il suo paese di provincia (Rimini), e che costituiscono una sorta di rassegna dei freaks dell’epoca.
Il film vira a questo punto verso il documentario, col viaggio e le interviste nei circhi, compresi quelli francesi, dove alcuni clowns erano diventati delle figure mitiche; si parla della figura del clown augusto (maldestro e goffo) che si contrappone al clown bianco, elegante e superbo – strepitosa a tal proposito la scena in cui vediamo sfilare i clowns con costumi raffinatissimi, una vera e propria sfilata di moda (che preannuncia quella di Roma dei cardinali).
L’ultima parte del film è quella più nostalgica e malinconica: il funerale di Fru fru, la marcia funebre che però diventa senza soluzione di continuità festa e sarabanda (chi più di Fellini poteva rappresentare una scena così in un circo?).
Al termine le luci si spengono sulle note di una musica malinconica e struggente: la vita è afflitta da inguaribile nostalgia e dietro ogni maschera si cela una lacrima.

[La questione – cruciale – dei freaks e dei poveri di spirito: Fellini li rappresenta costantemente (o comunque rappresenta il freak che è in ciascuno di noi – e così facendo ne trasfigura la deformità o la mostruosità o l’abnormità: l’arte crea bellezza anche nel mondo dei freaks. Altro discorso è però l’incontro con l’Altro nella vita reale: Fofi racconta di un problema relazionale di Fellini con la figlia di Flaiano, affetta da gigantismo e da un ritardo cognitivo, un imbarazzo al limite dello spavento, che probabilmente incise sulla loro rottura]

Di Roma (1972) ricordavo soprattutto la sfilata di moda ecclesiastica, che tanto mi aveva colpito la prima volta fin quasi a fagocitare l’intero film. Pensavo fosse il finale, ma ricordavo male. Ci sono ben 4 sequenze fondamentali subito dopo: una carrellata sui tavoli all’aperto, il cibo, il bere, con richiamo godereccio al Satyricon (Roma e Satyricon vanno visti come due capitoli di una stessa opera-visione); i ragazzi hippy attorno alla fontana manganellati dalla polizia; la “buona notte” sul portone di Anna Magnani; e a chiudere l’agghiacciante parata di motociclisti alieni e senza volto che attraversano una Roma deserta.
Poco prima uno scrittore americano intervistato su uno dei tavoli di un locale aveva detto che Roma rimaneva la miglior città dove attendere la fine.
Fellini spegne così ogni illusione: la chiesa, il governo, il cinema (che producono illusioni) – ma soprattutto la storia e i le sue vestigia che vengono spazzati via dal rombo dei motori.
Altre scene notevolissime sono quelle dei due bordelli, dell’avanspettacolo interrotto dalle sirene dei bombardamenti e della pioggia e del fango nel Grande raccordo anulare.
Ecco: forse è proprio questa visione circolare, senza soluzione di continuità tra i luoghi e le epoche, in un continuo alternarsi di nostalgia, truculenza, critica, satira e visione apocalittica – a costituire la grandezza del film.

Ed eccoci ad Amarcord (1973), forse il film più amato, di sicuro uno dei più importanti trattati antropologici sugli italiani mai concepiti, un film implacabile sui loro vizi (su tutti il fascismo) e sui caratteri della nazione – e Fellini, che pure era stato ammiccante, usando sapientemente la leva nostalgica, si stupì che venisse così tanto amato.
Il film comincia con le “manine”, la lanugine dei pioppi che annuncia primavera, che non si sa bene cosa siano, né da dove vengono né dove vanno – cifra stilistica di tutta l’opera.
Memorabili alcune scene: la parata grottesca fatta di corsa dai gerarchi e dai militanti fascisti – con le note dell’internazionale a rovinare la festa: irrisione definitiva del regime e della sua ideologia. La gita con lo zio matto (un meraviglioso Ciccio Ingrassia) che sale sull’albero in cerca di una donna. Ma soprattutto rimane indimenticabile la galleria di personaggi – il ritratto puntuale della provincia italiana – una Rimini trasfigurata in nazione – che tanto amiamo e detestiamo.
Quel che però rende il film un capolavoro è la poesia che spira di continuo, come il vento: le “manine”, la visione sognante del transatlantico Rex, il nonno e il nipote che si perdono nella nebbia, il nevone e l’inaspettata ruota del pavone, le lacrime della Gradisca “piena di sentimenti” che nessuno vuole, il vento e il rumore del mare che chiudono il suo triste matrimonio in campagna… – una tonalità elegiaca come un basso continuo.
E poi, su tutto, quel diabolico motivo di Nino Rota…

Il Casanova (1976) è una Wunderkammer. Il ‘700 in una stanza, si potrebbe dire (da qualche parte ho letto che Fellini operò in modo diametralmente opposto al Barry Lindon di Kubrick, tutto girato in esterno).
So che l’intenzione del regista era di narrare la storia di un uomo mai nato, totalmente prigioniero delle sue illusioni, un amatore meccanico e infelice, conosciuto solo per quello e non per le sue grandi doti intellettuali: «Mi sono messo in testa di raccontare la storia di un uomo che non è mai nato, una funebre marionetta senza idee personali, sentimenti, punti di vista; un “ italiano” imprigionato nel ventre della madre, sepolto là dentro a fantasticare di una vita che non ha mai veramente vissuto, in un mondo privo di emozioni, abitato solo da forme che si considerano in volumi, prospettive scandite con raggelante, ipnotica iterazione. Vuote forme che si compongono e si scompongono, un fascino da acquario, uno smemoramento da profondità marina, dove tutto è completamente appiattito, sconosciuto, perché non c’è penetrazione, dimestichezza umana.»
Nonostante questo, l’ho trovato il suo film più divertente.
Tra uccelli meccanici, automi, candelabri in testa, gobbi, nani, gigantesse e orge, cene e costumi sfarzosi, teatro e poesia, ce n’è davvero per tutti i gusti. Certo, il ballo malinconico del sogno finale con la bambola meccanica (la stessa di un memorabile amplesso), non lascia scampo…
[Le complesse vicende che hanno riguardato le riprese, tra rinvii, sospensioni, furti, processi e scioperi, costituiscono materiale per un altro film].

Prova d’orchestra (1979) 40 anni dopo: non sta forse parlando di noi oggi? Una cacofonia fin dall’inizio, il traffico cittadino durante i titoli di testa, il caos crescente di un’orchestra sgangherata, una caciara scomposta, le scritte sui muri, la radiolina con le partite all’orecchio e persino un amplesso sotto il pianoforte – fino al crollo della parete e il direttore d’orchestra, prima dileggiato e spodestato, che chiude urlando come un gerarca nazista sul buio finale. Il film si apre e si chiude con la cacofonia – e il fatto che in scena ci sia un’orchestra rende tutto più paradossale.
Del resto la anti-fonia sta già negli elementi, in tutti quei musicisti autorefenziali, pieni di tic e di bizzarrie – umani troppo umani – ognuno dei quali crede di suonare lo strumento più importante e nel miglior modo possibile. Fosse anche vero, la vera prova sta nell’insieme – la syn-phonìa.
Insomma, quello che Fellini definiva un “filmetto” dà molto da pensare. Più oggi di ieri.

Nel 1980 esce nelle sale La città delle donne, una sorta di confessione felliniana a proposito di donne, femminile e femminismo. Di nuovo Mastroianni si presta a fare l’alter ego dell’autore – Marcello Snaporaz – ma è un Mastroianni più appannato, ormai di mezza età, in un film costruito come un lungo sogno (lo si capisce immediatamente, quando il treno si infila nella galleria), un po’ sgangherato e dalla sceneggiatura poco convincente. Al di là del fatto che fece arrabbiare i movimenti femministi (che, d’altra parte, ne sono protagonisti), è un film poco riuscito, che non scalda né il cuore né la ragione e nemmeno l’occhio. Archetipi, inconscio (più Jung che Freud), questioni irrisolte che tali restano. È comunque parte del percorso felliniano, dove il femminile ha una parte fondamentale.
Interessante la pinacoteca multimediale di Katzone. La galleria, a tratti grottesca, di personaggi femminili non sempre è riuscita.
Prima volta senza le musiche di Rota, morto l’anno prima.

Decisamente più riuscito E la nave va (1983), la magnifica ricostruzione di una crociera-funerale di cantanti e musicisti alla vigilia della prima guerra mondiale, che comincia con immagini che sembrano di repertorio e che poi ci mostra, come sempre, una grande galleria di personaggi
di diverse condizioni sociali: cosa di meglio di un piroscafo per rappresentarle?
Il narratore è un giornalista che intervista i vari personaggi con una buona dose di ironia.
Ma la storia irrompe – comincia la prima guerra mondiale – e il comandante della nave accoglie, per un preciso dovere etico, un gruppo di profughi serbi, nonostante le proteste dei benestanti a bordo. La sera porta con sè una sorpresa, visto che i gitani e i proletari balcanici agitano la scena con canti e balli, cui si unisce anche la borghesia con la puzza sotto al naso. Ma dopo lo spargimento delle ceneri della grande diva, una corazzata austriaca pone fine al viaggio.
Le due cose più curiose sono il concerto fatto con i bicchieri (era l’unica scena che mi ricordavo dalla visione al cinema di quasi 40 anni fa) e il rinoceronte triste – che alla fine darà il latte al giornalista naufrago che chiude il film.
Trattandosi del funerale della più grande cantante lirica del mondo – le sue ceneri dovranno essere sparse di fronte a un’isola del mar Egeo – la colonna sonora è punteggiata di brani
classici dell’opera, da Rossini a Verdi. Ci sono anche i testi di Zanzotto musicati.
Il set della nave è interamente ricostruito.

Ho visto Ginger e Fred (1986) e Intervista (1987) in sequenza.
Il primo è un film atroce, sulla volgarità, specie quella televisiva, con un’interpretazione superba di Giulietta Masina e Marcello Mastroianni – uno stropicciato fantasma che “avvampa” inutilmente contro l’ingiustizia e la decadenza. Un Mastroianni in grande forma, dopo la prova minore della Città delle donne, che in Intervista ritorna, in veste di Mandrake, e che tenta di nuovo di rievocare la magia del cinema e della “dolce vita” – tra le lacrime di un’imbolsita Anita Ekberg.
I due film, per quanto diversissimi, potrebbero essere visti come un chiaro e uno scuro (o anche un chiaroscuro interno a ciascuno): la disperazione di Ginger e Fred, il tempo che devasta ogni cosa, anche se intenerito dalla memoria e dall’ultima favilla che i due spettri emettono nel momento in cui tornano insieme per ballare un ultimo tip tap, un piccolo fuoco in una notte oscura, volgare, un natale furiosamente votato al consumo, all’imbecillità generale, al pecoreccio-mangereccio-godereccio, un’anticipazione del berlusconismo – col ritorno del corteo di motociclisti a 15 anni da Roma…
Dopo lo scuro il chiaro di Intervista: un gesto d’amore (altrettanto disperato ma vitalissimo) nei confronti del cinema: una chiacchierata intima – come la definisce Fellini – di fronte al caminetto della villa della grande attrice che fu. Una magia che attraversa tutto il film (c’è un giovane Sergio Rubini davvero bravo, che interpreta il giovane Fellini giornalista che approda a Cinecittà), svelando qualche trucco e rispondendo alle domande del gruppo di giapponesi, e la passione per i volti, le forme umane più diverse, gli amarcord, le stranezze, la narrazione (il pretesto di America di Kafka), la musica (qui dopo Rota è il grande Piovani), la troupe che diventa la solita giostra circense – tutti i motivi e la passione e il mondo felliniano che si scioglie in una notte di temporale (siamo di nuovo alla vigilia di Natale, come in Ginger e Fred) in attesa di un raggio di sole che non sappiamo se ci sarà.

Ed eccoci all’epilogo, il film-testamento (volontario o meno che fosse, anche se Fellini era già ammalato all’epoca): La voce della luna (1990), di nuovo un film sulla volgarità, sull’imbarbarimento dell’Italia dei consumi, già berlusconiana antropologicamente prima che politicamente: dopo la consueta sequela di sarabande, microstorie, ritratti di varia umanità, filtrati attraverso le due diverse follie di Benigni e Villaggio, tra gnoccate, sagre di paese e immense discoteche – il rumore viene spento e chiuso dalla luna leopardiana con cui il film si era aperto: Benigni, che poco prima si era immerso in un amarcord autobiografico del regista, con accanto le figure di Leopardi e di Pinocchio, cammina verso la luna, guarda nel pozzo e sussurra una frase. Ma non è la voce dell’attore, è quella dello stesso Fellini a dire: “eppure io credo che se ci fosse un po’ di silenzio, se tutti facessimo un po’ più di silenzio, qualcosa potremmo capire”.
Il lascito del più grande regista italiano è un paesaggio lunare ed incantato che ci chiede di tacere, di contemplare, di guardare – fuori e, ancor più, dentro di noi.

***

Ci sarebbe infine da dire qualcosa sui film che Fellini non ha potuto fare. Ne parla a più riprese Goffredo Fofi nel suo amarissimo Fellini anarchico, edito l’anno scorso da Eléuthera, e che ho utilizzato come fonte preziosa di informazioni e di riflessioni critiche nel corso del mio piccolo cineforum casalingo. Il progetto più importante tra quelli abortiti è il «il film non realizzato più famoso della storia del cinema» con Mastroianni, oppure con Villaggio, Il viaggio di G. Mastorna, che sarebbe poi diventato una storia a fumetti disegnata da Manara, ma voglio qui riportare qualche parola su un film che Fellini avrebbe voluto girare negli ultimi anni – non si sa se più come desiderio o come progetto concreto. Fellini ne aveva parlato anche con Fofi, come di un film impossibile da fare, «una storia con una trentina di bambini di due-tre anni, che vivono in un caseggiato alla periferia della città… la vita di un palazzone, vista e presupposta tutta da bambini, con storie di amori totali, di odi, di infelicità, sempre per le scale, i ballatoi, il giardinetto davanti. Finché questi bambini, trascinati come lepri, vengono portati all’asilo e lì, il primo giorno, castrati».

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

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